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Middle East Eye, 3 novembre 2017 (trad. ossin)
 
I cambiamenti in corso in Arabia Saudita potrebbero scatenare una resistenza popolare
Middle East Eye (*)
 
Da decenni i dirigenti sauditi si servono della religione per restare al potere e assicurarsi un predominio regionale. I tentativi di ben Salman di modificare questo status quo potrebbero produrre gravi conseguenze
 
Il giovane principe ereditario Mohammed ben Salman
 
Lo scorso 24 ottobre, il principe ereditario dell’Arabia Saudita, Mohammed ben Salman, ha dichiarato che il suo paese sta evolvendo verso una forma di islam « moderato e aperto ». Queste parole, che hanno suscitato reazioni diverse tra i Sauditi, prefigurano la possibilità di un mutamento radicale sulla questione delle religione nel regno. 
 
Molti si sono chiesti quale ruolo sarà attribuito alla religione sotto il re Mohammed bin Salman, in particolare per il fatto che i precedenti governanti sauditi hanno investito pesantemente per far sì che il regno venisse percepito come unico tutore della fede musulmana.
 
La religione come strumento
 
Fin dalla fondazione dello Stato saudita – e della presa di controllo dei più sacri luoghi dell’islam –, la religione è stata usata, non solo all’interno, come strumento che consente all’élite politica di imporre la sua autorità, ma anche all’esterno, come strumento dal nascente Stato per imporre la sua leadership e il suo dominio sul mondo mussulmano.
 
Nel corso degli ultimi decenni, uno dei modi con cui si è perseguito tale obiettivo è stato di investire miliardi di dollari in progetti di sviluppo dei luoghi santi dell’islam e dei loro dintorni.
 
Recentemente, il governo di re Salman (padre) ha annunciato lo stanziamento di 100 miliardi di dollari per nuovi lavori di costruzione. Deve sottolinearsi che questo « generoso » finanziamento interviene in un periodo difficile, nel quale ai cittadini sauditi vengono imposte misure di austerità economica, sotto forma di riduzione di tutte le sovvenzioni governative e di maggiorazione dei prezzi dei prodotti di base, come il carburante, l’acqua e l’elettricità.
 
Inoltre il governo prosegue una Guerra in Yemen, i cui costi operativi si eleverebbero a 200 milioni di dollari al giorno.  
 
Tale stanziamento non è per nulla un investimento innocente o una risposta alle necessità di sviluppo. Esso si inserisce piuttosto in una strategia di creazione dell’immagine della monarchia saudita come difensore della fede.
 
Si inserisce in quella che è diventata una tradizione saudita, che vuole che ogni re avvii nuovi progetti per i luoghi santi e tenti anche di farli durare per tutta la sua vita.
 
Gru all'opera nella parte esterna della grande moschea nella città santa di La Mecca (Arabia saudita), 17 gennaio 2016 (Reuters/Amr Abdallah Dalsh)
 
Un impegno verso l’islam ?
 
L’idea è quella di creare la percezione di un continuo impegno saudita verso l’islam, espandendo indefinitamente i suoi luoghi più sacri. Dunque, quando venne annunciato che il progetto di ampliamento del mataf (zona della circumambulazione, la camminata intono alla Kaaba) era finalmente terminato dopo tre anni di lavori nell’era del re Abdallah, il suo successore, il re Salman, ha annunciato nuovi progetti, tra cui l’ampliamento dello stesso mataf ! 
 
Evidentemente Salman (padre) non vuole passare per un re che non rispetta la tradizione. Ma soprattutto un arresto dei progetti di ampliamento potrebbe offuscare l’immagine di « tutore dell’islam » che il governo saudita intende conservare. In realtà, tuttavia, nessuno conosce realmente la portata né l’obiettivo finale di questi progetti.
 
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Alla monarchia sembra che questo sia l’unico modo perché i re sauditi si « aggiudichino » il titolo di « Guardiani delle due sante moschee ». Un altro segno della politicizzazione di questi investimenti è nella concentrazione di progetti di sviluppo all’interno e intorno all’area di al-Haram.
 
Per esempio, la zona urbana di La Mecca soffre di ogni genere di impoverimento, sottoinvestimento e deterioramento delle infrastrutture. Ma poiché è fuori dal radar dei pellegrini, il governo si mostra più che indifferente a questi bisogni.
 
L’allocazione delle risorse è prioritaria solo in considerazione del ritorno politico che ci si aspetta da un determinato progetto.
 
Una donna passa davanti a un tabellone durante la conferenza Future Investment Initiative a Riyadh (Arabia saudita), 24 ottobre 2017 (Reuters)
 
Influenza comprata
 
Inoltre I leader sauditi hanno tradizionalmente usato la religione come uno strumento che permetteva loro di estendere la loro influenza sul mondo islamico nel suo insieme. Per esempio le sedi della Organizzazione per la cooperazione islamica e della Banca islamica per lo sviluppo non si trovano in Egitto, in Turchia o in Malesia, ma a Gedda, in Arabia Saudita.
 
Riyadh ha sempre cercato di controllare queste istituzioni finanziandone budget e  programmi,  in cambio dell’egemonia politica. Ad esempio, durante l’ultimo summit tenutosi in Turchia, i Sauditi hanno fatto pressione perché la dichiarazione finale fosse focalizzata sulla condanna dell’Iran.
 
Più di recente, durante la crisi col Qatar, l’Arabia Saudita ha brandito il bastone religioso – come sempre – ricattando alcuni paesi africani con la minaccia di limitare la loro quota di permessi di pellegrinaggio se non avessero rotto i rapporti con Doha. Il grand mufti dell’Arabia Saudita ha dato poi il suo contributo accordando la sua « benedizione » alla decisione di imporre un blocco contro il Qatar.
 
Questi sono solo alcuni esempi di come la casa dei Saud si serva – e abusi – della religione e di come il paese sia stato sempre dipendente dall’uso politico della religione.
 
La religione dunque una forza coercitiva che legittima il suo dominio all’interno del paese e uno strumento di ingerenza, all’esterno, negli affari di paesi esteri.
 
Sollecitata dalle dichiarazioni di Mohammed ben Salman (figlio) citate all’inizio di questo articolo, la questione chiave diventa allora la seguente: tutto questo dovrà cambiare quando lui diventerà re? Mohammed ben Salman ha dichiarato: « Noi vogliamo vivere una vita normale. Una vita nella quale la nostra religione si traduce in tolleranza, nella nostra tradizione di gentilezza ». Con tutta evidenza, egli si indirizza alle nuove generazioni di Sauditi.
 
Un regno in transizione
 
Il forte intreccio tra religione e Stato in Arabia Saudita è sensibile e fortemente radicato. Qualunque tentativo di mutare questa alleanza richiederebbe l’avvio di un dibattito pubblico e intellettuale inclusivo, attento e libero. Dovrebbe essere una richiesta che viene dal basso piuttosto che qualcosa imposta dall’alto. 
 
Però, da quando il principe Mohammed ben Salman ha preso il potere, la religione nel paese è in declino. Mohammed ben Salman sembra impegnato a condurre il paese all’altro estremo.
 
Sembra che stia lavorando a spogliare l’Arabia Saudita di tutto ciò che ha a che fare col suo patrimonio religioso. Pensa di poter cambiare lo status quo a colpi di decreti reali. Sarebbe come se il presidente USA si svegliasse un mattino e firmasse un decreto che rendesse la sharia legge dello Stato.
 
Nei fatti, egli cerca di imporre la laicità al popolo, invece di persuaderlo ad accettare quello che finora è stato sempre presentato come un complesso di valori e convinzioni straniere.
 
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Per esempio, di recente il governo ha annunciato il « Progetto del mar Rosso », una stazione di vacanza di stile internazionale sulla costa ovest del regno. Come ho già scritto in un precedente articolo, una società conservatrice e tradizionale si è sentita dire che il suo governo intende aprire una stazione balneare dove non si applicherebbero le regole del paese – ivi compresa la segregazione uomini-donne e il codice di abbigliamento « islamico » – a poche centinaia di chilometri dai siti più sacri dell’islam.
 
Questo non è il risultato di una naturale evoluzione culturale ella società, ma di una decisione reale che, da un giorno all’altro, abbandona un fanatismo religioso rigoroso e privo di senso. Questa transizione brusca costituisce però un insulto per un segmento importante della società saudita che ha aderito alla propaganda religiosa ufficiale per decenni.
 
Un centro commerciale di Riyadh (Arabia saudita), 18 ottobre 2017 (Reuters/Faisal Al Nasser)
 
Qualche lezione di storia
 
Questo modo di fare potrebbe avere gravi conseguenze. Oltre ad essere sbagliato sul piano etico, esso potrebbe anche dare argomenti alla resistenza popolare, cosa che non costituirebbe un caso isolato nella storia del paese. Il 20 novembre 1979, il primo giorno dell’anno 1400 del calendario islamico, la moschea al-Ḥaram venne presa d’assalto da un gruppo bene organizzato composto da 400 a 500 uomini, guidati da Juhayman al-Otaybi.
 
Al-Otaybi ce l’aveva con gli ulema wahhabiti che accusava di non avere protestato contro le politiche che – secondo lui – tradivano l’islam, di accettare la dominazione di uno Stato infedele e di offrire la loro lealtà a dirigenti corrotti in cambio di onori e ricchezze.
 
La storia potrebbe ripetersi se gli attuali dirigenti, sotto Mohammed ben Salman, non riusciranno a trarne i giusti insegnamenti. 
 
A mio parere, garantire libertà di pensiero e di espressione può, a lungo termine, creare un contesto propizio a cambiamenti liberali nel paese. Ciò potrebbe contribuire a costruire un clima nel quale diventi possibile che le idee cambino ed emerga una società tollerante. Consentire un pubblico dibattito preventivo, piuttosto che cogliere la società di sorpresa come nel caso di specie, risponde al pubblico interesse.
 
Messaggi indirizzati agli Emirati arabi uniti
 
Inoltre l’Arabia Saudita non dovrebbe mai consentire che progetti che comportino una contraddizione tra i propri interessi e quelli del mondo mussulmano si traducano nella sua vera politica.
 
Il regno dovrebbe inviare un messaggio chiaro in questo senso, soprattutto agli Emirati arabi uniti. Gli Emirati arabi uniti non riescono a cogliere tutta la portata dell’importanza della religione nella composizione politica del regno. Abu Dabi sembra non comprendere le conseguenze della sua offensive in favore di una laicizzazione forzata dell’Arabia Saudita.
 
A tal fine, l’Arabia Saudita ha recentemente arrestato degli intellettuali, degli scrittori e degli attivisti come misura preventiva mirante a impedire ogni potenziale protesta contro le sue politiche. Tali arresti sembrano essere stati orchestrati da  Abu Dabi.
 
Infine, va fatta una distinzione tra laicità e libertà. Alcuni tra i regimi più brutali e fascisti che il mondo abbia mai conosciuto erano di fatto laici e anti-religiosi, soprattutto la Russia di Lenin e la Germania nazista. 
Il progetto coltivato dagli Emirati arabi uniti per l’Arabia Saudita non è per nulla differente da questi esempi. L’Arabia saudita deve trovare la sua strada verso la libertà seguendo le aspirazioni del suo popolo e non quelle di qualche sceicco di Abu Dabi o di qualche principe del palazzo saudita al-Salam.
 
 
(*) Non divulghiamo l'identità dell'autore dell'articolo, che è evidentemente un Saudita che vive nel suo paese, per non metterne a rischio l'incolumità