Crisi siriana, agosto 2013 - L’amministrazione USA si trova di fronte a un vero dilemma. Se si astiene dal mettere in opera le sue minacce contro la Siria, riceverà un grave smacco che avrà ripercussioni decisive sulla leadership mondiale che pretende di avere. Se decide di passare all’azione, rischia di provocare una risposta inattesa, della quale non è disposta a sopportare le conseguenze, che potrebbero essere una guerra regionale globale. Nell’uno e nell’altro caso, gli Stati Uniti sono perdenti      





Irib, 30 agosto 2013 (trad. ossin)



Siria, l’Occidente in trappola

Samer R. Zoughaib



Indecisione, esitazione, dichiarazioni contraddittorie: le potenze occidentali sono nella più grande confusione a proposito della Siria, senza peraltro avere abbandonato il progetto di lanciare una campagna militare contro questo paese

I principali paesi occidentali, guidati dagli Stati Uniti, sembrano tutti d’accordo sulla necessità di venire alle mani col regime siriano, che resiste da oltre due anni e mezzo, ma sono profondamente divisi sull’ampiezza dell’aggressione, la sua durata, i suoi obiettivi politici e la valutazione delle conseguenze.


Questa esitazione si traduce nelle dichiarazioni contraddittorie dei più alti dirigenti occidentali. Per esempio il presidente Barack Obama assicura, mercoledì, che la sua amministrazione è convinta che il regime del presidente Bachar el Assad sia responsabile dell’utilizzazione di armi chimiche nell’attacco contro la Ghuta orientale del 21 agosto. L’indomani il portavoce della Casa Bianca afferma che l’amministrazione non dispone ancora di “prove irrefutabili” che provino che l’attacco sia stato effettuato dalle truppe governative.

Stessa confusione a Londra. Nella mattinata di giovedì l’ufficio del Primo Ministro, David Cameron, pubblica un parere giuridico secondo il quale un attacco contro la Siria non necessiterebbe di autorizzazione preventiva dell’ONU. Qualche ora più tardi, davanti alla Camera dei Comuni, lo stesso Cameron afferma che nessuna campagna militare contro questo paese può aver luogo a causa delle forti divisioni in seno al Consiglio di sicurezza.


Il profondo malessere che alberga tra gli occidentali traspare dalle voci dei migliori amici degli Stati Uniti. Così il Primo Ministro canadese, Stephen Harper, ha dichiarato giovedì all’agenzia Reuters che il suo paese non parteciperà ad una operazione militare in Siria. Egli ha rilasciato questa dichiarazione dopo un colloquio con alcuni responsabili statunitensi, inglesi e francesi. L’ Italia, la Svizzera, l’Egitto e altri paesi, considerati amici di Washington, hanno assunto una identica posizione.


Dunque, dopo essersi abbandonata nei primi due giorni ad una campagna di intimidazione, decretando che l’attacco alla Siria era ineluttabile e imminente, per scoraggiare gli avversari e tenere a bada le reticenze presenti nel proprio campo, gli Stati uniti si vedono costretti adesso a frenare gli slanci, senza peraltro abbandonare definitivamente i loro progetti di aggressione. Perfino il suo alleato più fedele, la Gran Bretagna, ha fatto un passo indietro. In quanto David Cameron è stato costretto a temporeggiare a cagione della forte opposizione dei Laburisti, che pretendono una preventiva autorizzazione del Parlamento. Giovedì sera la Camera dei Comuni ha respinto il progetto del governo per un intervento in Siria e il Primo Ministro si è impegnato a rispettare la decisione del Parlamento.


L’opinione pubblica contraria
Questi nuovi sviluppi sono dovuti a diversi fattori politici, diplomatici e militari, che si aggiungono al ripudio delle opinioni pubbliche occidentali, ancora traumatizzate dalla pessima esperienza irachena, a vedere ancora una volta i loro paesi impegnarsi in una nuova guerra.


In questo contesto i sondaggi sono assai eloquenti. Prima di tutto in Francia, dove un sondaggio di opinione dell’IFOP mostra che il 59% degli intervistati è contrario ad un impegno militare della Francia contro la Siria, in ambito ONU, e solo il 41% è favorevole.


Negli Stati Uniti, un sondaggio commissionato da Reuters e realizzato da Ipsos mostra che il 60% degli Statunitensi era ostile a un intervento del loro paese e solo il 9% auspicava un’iniziativa del presidente Obama. L’Istituto ha anche chiesto agli intervistati se fossero favorevoli a un intervento nel caso in cui fosse stato provato che Bachar el Assad aveva davvero usato armi chimiche. Anche in tal caso, solo il 25% si è detto favorevole a un intervento, contro il 46% di contrari. Altra domanda: l’approvazione dell’invio di armi ai ribelli; anche su questo l’opinione pubblica statunitense è in maggioranza contraria, col 27% di favorevoli e il 47% di contrari.


Nemmeno in Gran Bretagna l’opinione pubblica sembra auspicare l’intervento. Una inchiesta YouGov mostra che solo il 23% degli intervistati è favorevole all’invio di armi ai ribelli, contro il 50% che si oppone. Identica cosa per l’uso dell’aviazione inglese per imporre una zona di esclusione aerea (42% contro e 34% a favore) o per un attacco missilistico dal mare (25% favorevoli e 50% contrari).


In Germania, infine, il 58% delle persone intervistate si è dichiarato ugualmente contrario a un intervento militare, secondo un sondaggio realizzato per conto dell’emittente televisiva pubblica ZDF.


La determinazione degli alleati della Siria e il loro attivismo diplomatico hanno giocato un ruolo di primo piano nello scombussolamento dei piani USA. L’Iran ha avviato contatti a tutto campo per mettere in guardia l’Occidente contro le gravi conseguenze di un attacco contro la Siria. Il ministro iraniano degli affari esteri, Mohammad Javad Zarif, ne ha discusso con più di una decina di suoi omologhi, diversi dei quali occidentali.

Il presidente Hassan Rouhani ha anche lui discusso della cosa col presidente russo Vladimir Putin per coordinare le posizioni. Anche l’amministrazione russa ha dato prova di un grande attivismo. La strategia diplomatica russo-iraniana mira a evidenziare l’illegalità di qualsiasi intervento contro la Siria senza un mandato del Consiglio di Sicurezza. E quest’ultimo non può pronunciarsi senza avere esaminato i rapporti degli ispettori ONU in missione in Siria.


Questa strategia sembra avere avuto successo. Nel corso di un colloquio telefonico, Vladimir Putin e il cancelliere tedesca Angela Merkel hanno insistito sulla necessità che il Consiglio di Sicurezza possa esaminare il rapporto degli esperti. “Uno scambio di punti di vista approfonditi ha toccato diversi aspetti della crisi siriana. Le due parti considerano necessario continuare l’impegno in ambito ONU e altrove per risolvere la situazione in Siria con mezzi politico-diplomatici”, annuncia l’agenzia di stampa del Cremlino in un comunicato.


Gli Stati Uniti si ritrovano quindi soli ed è estremamente disagevole per loro agire unilateralmente. Nessun attacco dovrebbe essere lanciato prima dell’esame del rapporto degli ispettori.


Mosca e Teheran determinate
Ma il fattore principale che ha messo in fallo tutti i calcoli di Washington e dei suoi alleati è la difficoltà che hanno a valutare la risposta della Siria e dei suoi alleati di fronte a un’aggressione di qualsivoglia tipo. In una intervista televisiva, mercoledì, Barack Obama ha detto che i parametri principali che ispireranno la sua decisione sono “la sicurezza di Israele e la prosecuzione delle forniture petrolifere”. Per tentare di rassicurare gli alleati di Damasco, gli Stati Uniti hanno anche detto che l’attacco sarà “breve e limitato” e che il suo obiettivo non è quello di rovesciare il regime siriano ma solo di “punirlo”. Questo messaggio è stato trasmesso attraverso diversi canali diplomatici, soprattutto attraverso il segretario generale aggiunto dell’ONU per gli affari politici, lo statunitense Jeffrey Feltman, nel corso di un colloquio coi dirigenti iraniani a Teheran. Me egli è rientrato a New York con le pive nel sacco, senza avere ottenuto alcuna assicurazione che “l’asse della resistenza” non avrebbe risposto ad un attacco limitato.


Al contrario, i dirigenti politici e militari iraniani, in uno col presidente siriano, hanno assicurato che la Siria si difenderà e respingerà “gli invasori”.


“Se gli Stati Uniti attaccano la Siria si troveranno a doversi confrontare con problemi più grossi di quelli che ebbero durante la guerra del Vietnam”, ha dichiarato giovedì il generale Mohammad Ali Jafari, comandante del corpo dei Guardiani della Rivoluzione islamica (Pasdaran), citato dai media iraniani. “La Siria si trasformerà in un campo di battaglia più pericoloso e mortale del Vietnam. Per gli Stati uniti si tratterebbe di un secondo Vietnam”, ha affermato Jafari. Il generale ritiene che un intervento militare in Siria porterebbe pregiudizi gravi anche a “Israele”. “Un attacco contro la Siria porterebbe automaticamente alla distruzione di Israele”, ha detto il capo dei Pasdaran.


Di fronte a tuti questi sviluppi, Washington tenta di riservarsi una uscita di emergenza. Il vice presidente USA, Joe Biden, ha riaffermato, giovedì, che Barack Obama stava ancora riflettendo sulle misura che avrebbero dovuto servire da risposta all’attacco con armi chimiche.


L’amministrazione USA si trova di fronte a un vero dilemma. Se si astiene dal mettere in opera le sue minacce contro la Siria, riceverà un grave smacco politico e diplomatico, che avrà ripercussioni decisive sulla leadership mondiale che pretende di avere. Se decide di passare all’azione, rischia di provocare una risposta inattesa, della quale non è disposta a sopportare le conseguenze, che potrebbero essere una guerra regionale globale.


Nell’uno e nell’altro caso, gli Stati Uniti sono perdenti     

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