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... e Bruno è un uomo d'onore

Alessandra Riccio


La cerimonia dell’alzabandiera nella sede diplomatica di Cuba a Washington, dopo più di mezzo secolo di interruzione delle relazioni diplomatiche, mi ha commosso profondamente. Certo, è stato il momento culminante della vittoria della resistenza cubana sull’ostinazione prepotente del più forte, incapace di rispettare i diritti del più debole, ma non è stato tanto questo a commuovermi, quanto osservare i volti degli invitati, raggruppati nel caldo di un piccolo spazio all’aperto, in rispettoso silenzio mentre i tre militari in alta uniforme annodavano la bandiera della stella solitaria e approntavano la cima con cui il ministro degli esteri avrebbe issato la bandiera. Molti volti a me noti, molti cittadini del mondo, soprattutto nordamericani, che hanno combattuto lunghe battaglie a favore dell’isola tropicale. Molti volti di amici a me molto cari, la cui traiettoria, in questi cinquantasei anni di Rivoluzione ho accompagnato e condiviso. Eusebio Leal, Miguel Barnet, Silvio Rodríguez, visti e conosciuti che erano quasi dei ragazzi, trattenevano a stento l’emozione mentre cantavano La Bayamesa, il bell’inno nazionale, in una città di uno stato che si è dichiarato nemico e ha tentato di isolare e strangolare l’isola ribelle. Ha un bel dire Barak Obama che il passato è passato, come ha ricordato Bruno Rodríguez nel suo discorso per l’occasione, ci sono cose che vanno sempre ricordate che spiegare situazioni altrimenti inspiegabili.

E’ stato proprio vedere Bruno mentre issava la bandiera a commuovermi più di ogni altra cosa, più di quel “Fidel, Fidel” sgorgato spontaneamente dalle bocche dei presenti. L’ho conosciuto molti anni fa e ne ho seguito le vicende negli anni: da dirigente giovanile a direttore di Juventud Rebelde, il quotidiano della gioventù comunista, al quale aveva dato un respiro più aperto e al passo con i tempi in quel breve momento felice chiamato della “rectificación de los errores” che si concluse sfortunatamente con la caduta del muro di Berlino, con la dissoluzione dell’Unione Sovietica e con l’inizio del terribile “periodo especial”. Lo ricordo proprio in quel periodo bussare alla porta di un’amica che festeggiava i suoi cinquanta anni in barba alle restrizioni e alle penurie; come tutti gli altri ospiti, Bruno arrivò col cuore in gola per i molti piani saliti a piedi a causa di una delle tante interruzioni di elettricità di quegli anni. La stessa sorte era toccata a qualche ex guerrigliero adesso elevato ad alti gradi della gerarchi militare. Nonostante tutto, quella festa fu allegra e nessuno degli amici, costretti a muoversi a piedi o in bicicletta, mancò.

Poi Bruno fu mandato a New York, a rappresentare Cuba alle Nazioni Unite. La vita a New York per un funzionario cubano è molto difficile e perfino pericolosa, e il lavoro all’ONU è un vero e proprio fronte di battaglia. Seguendo una importante tradizione di funzionari abili, dignitosi e combattivi, Bruno se la cavò molto bene. Da vice ministro degli Esteri fu incaricato di accompagnare il contingente cubano di pronto intervento per il terremoto di Haiti nel 2004 e in Pakistan nel 2005 e queste esperienze lo hanno marcato profondamente, lo hanno messo a contatto con il grande dolore dei diseredati del mondo e lo hanno consolidato nell’ammirazione e nel rispetto verso il suo stesso popolo, generoso e solidale. Me ne ha parlato commosso ed emozionato in una sera in cui sono andata a salutarlo al Ministero degli Esteri, poco dopo la sua nomina a Ministro. Gli ambienti di quel grande e antico palazzo erano semivuoti a causa dell’ora e le luci fioche per via del risparmio energetico; Bruno era arrivato accompagnato di suo figlio, un ragazzino di otto, forse dieci anni che era lì con lui perché la mamma era al lavoro e non avevano a chi lasciarlo.

La sua nomina avveniva dopo due sensazionali destituzioni di giovani ministri, prima Roberto Robaina e poi Felipe Roque, della stessa generazione di Bruno che dovette assumere quella carica in momenti di tensione e di grandi difficoltà. Ce l’ha fatta. E’ toccato a lui di innalzare la bandiera di Cuba a Washington e di ricordare con fermezza che il paese che rappresenta esige ancora e sempre un trattamento da pari a pari e rispetto per le scelte compiute. Nel suo discorso ha evocato José Martí e il suo monito a tener conto della smisurata avidità di dominazione [degli USA] confermata da una lunga storia di disaccordi; ha ribadito il ruolo storico di Fidel Castro, ha ringraziato quanti sono stati sempre al fianco di Cuba nelle battaglie per la normalizzazione dei rapporti con gli Stati Uniti; questa cerimonia è stata possibile, ha detto, grazie alla forza della Nazione e alla cultura cubana. Ancora una volta ha sostenuto che la cerimonia della riapertura delle ambasciate avrà davvero un senso compiuto quando verrà rimosso il blocco finanziario, economico e commerciale; quando sarà restituito il territorio occupato di Guantánamo e quando verrà rispettata la sovranità di Cuba.

Guardandolo issare la bandiera, in un corretto abito scuro, non ho potuto fare a meno di ricordarlo ragazzo, allegro e curioso, invitato in quanto direttore di Juventud Rebelde, ai vari Festival di “Liberazione” in quei primissimi anni novanta, quando fra noi rimaneva ancora un poco di entusiasmo. Si divertiva, Bruno, ma quando parlava era stringato, coerente e battagliero. Lo portammo a vedere Le Cinque Terre, lo trascinammo fra i cavatori di marmo delle Alpi Apuane, a Firenze, a Bologna, a Roma. Quando lo abbiamo accompagnato all’aeroporto mi sono augurata che quel giovane, intelligente, curioso, di mente agile e di idee ben radicate non si perdesse nei disastri e nelle difficoltà del Periodo Especial, come era accaduto a qualche altro. Oggi ha cinquantasei anni ed è ben saldo sulle sue convinzioni e cosciente delle sue responsabilità: Bruno è un uomo d’onore.