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Hebdo Al-Ahram, 23 marzo 2011



Si impone un’inchiesta
di May Al-Maghrabi


Acclamati come difensori della rivoluzione, i militari ora sono accusati da alcuni cittadini di aver compiuto atti di tortura. L’esercito respinge in blocco ogni accusa


Arresti arbitrari, torture, civili tradotti dinanzi a tribunali militari: sono questi i comportamenti denunciati da alcuni manifestanti arrestati dalle forze armate. Diversi attivisti e militanti dei diritti dell’uomo temono per “l’immagine” dell’istituzione militare tanto venerata dalla popolazione.
Su Facebook e Youtube pullulano le testimonianze. Alcune persone arrestate durante le due ultime settimane e appena scarcerate, soprattutto ragazzi e ragazze, raccontano il supplizio subito mentre erano nelle mani della polizia militare. Dicono di essere stati crudelmente picchiati, sottoposti a scariche elettriche, qualche volta abusati sessualmente e spesso accusati di essere agenti di Israele o di Hamas, in una “campagna organizzata di intimidazione”.
In molti casi il luogo dell’arresto è stato il museo del Cairo, in piena piazza Tahrir. Altri sarebbero stati trasferiti in basi o prigioni militari che non sono stati capaci di identificare.  Alcuni rapporti di ONG indipendenti riferiscono che sarebbero state utilizzate delle fruste e dei bastoni elettrici contro i detenuti, tra cui giornalisti, militanti per i diritti dell’uomo e avvocati.
“Accuse” categoricamente respinte dal Consiglio Supremo delle Forze Armate. “L’esercito ha riconosciuto la legittimità della rivoluzione ed ha affermato che non farà mai ricorso alla violenza contro i manifestanti. Tutti i detenuti sono stati immediatamente liberati, tranne i criminali che sono stati tratti a giudizio”, ha dichiarato questa settimana alla stampa il generale Hamdi Bedine, capo della polizia militare. Mette in guardia contro i tentativi di “seminare la discordia tra esercito e popolo”, ribadendo che l’esercito non ha alcun interesse a contrastare la rivoluzione. “Si tratta solo di affermazioni, e invito tutti quelli che sostengono di essere stati torturati dall’esercito a sporgere formale denuncia perché si possa avviare un’inchiesta”, sollecita il generale. Aggiungendo che l’Egitto ha ratificato diverse convenzioni internazionali che vietano la tortura. “Le Forze Armate rispettano questi impegni”, afferma il generale.
Da parte loro, i difensori dei diritti dell’uomo fanno fatica a ignorare le dichiarazioni delle persone abusate. Gamal Eid, presidente della Rete araba per i diritti dell’uomo, sulla base di queste testimonianze, conclude che “l’esercito ha avviato una campagna per farla finita con le manifestazioni”. “Le autorità militari al potere non possono pretendere di avviare riforme mentre deferiscono pacifici manifestanti davanti ai tribunali militari”, afferma.
“Le autorità militari si sono impegnate pubblicamente a creare un clima di libertà e democrazia, dopo tutti questi anni segnati dalla repressione del Potere. Esse devono ormai tradurre le parole in fatti diretti e immediati”, ha dichiarato dal canto suo Malcom Smart, direttore del programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International.
Il 9 marzo l’esercito ha deciso di evacuare piazza Tahrir. Ne è nato qualche scontro quando l’esercito ha smantellato le tende che qualche decina di manifestanti ancora teneva in piedi per una ragione o per un’altra. In seguito il Consiglio Supremo Militare ha spiegato che si era inteso disperdere le manifestazioni senza alcuna intenzione di impegnare degli scontri coi manifestanti.
E tuttavia Racha Azab, una giornalista arrestata “durante una marcia pacifica”, racconta che vi è stata una vera caccia all’uomo contro i manifestanti, che sono stati picchiati dalla polizia militare (coi berretti rossi), con la complicità di alcuni scagnozzi, prima di essere condotti al museo. “Dopo essere stata ammanettata e legata ad un muro nel museo, un uomo in borghese mi ha schiaffeggiato chiamandomi puttana. Io gli ho domandato: “Lei è della polizia o dell’esercito?” Lui ha risposto picchiandomi un’altra volta: “Noi siamo la nuova versione delle forze antisommossa. Pensate davvero che siamo disposti a lasciare il paese nelle mani di ragazzini e puttane come voi?” racconta Racha Azab, che non nasconde lo shock provato nel “constatare che l’esercito non è diverso dal regime tirannico di Mubarak”. Lei assicura che, all’interno del museo, ha potuto assistere a episodi di “brutale tortura da parte di ufficiali dell’esercito nei confronti di centinaia di giovani detenuti”.
Di fronte al moltiplicarsi di simili testimonianze ed alle smentite sistematiche, alcuni militanti per i diritti dell’uomo, come Negad Al-Borai,  chiedono al Consiglio Supremo l’apertura immediata di un’inchiesta in cooperazione con le ONG, al fine di sgombrare il campo da ogni voce o esagerazione. “Se si conferma che dei militari hanno commesso atti di questo tipo, devono essere processati”, chiede Al-Borai, sostenendo che la cultura del rispetto dei diritti umani ha bisogno di molto tempo per radicarsi nella società.
Oltre la tortura, anche la traduzione dei civili davanti ai tribunali militari viene criticata dai difensori dei diritti dell’uomo. Secondo loro, niente può giustificare dei processi sommari che non consentono alcuna difesa. Secondo l’Organizzazione di difesa dei manifestanti (ONG), almeno 173 persone sarebbero ancora detenute nelle prigioni militari. Decine già sono state processate da un tribunale militare per “violazione del coprifuoco”, “detenzione d’arma” o “turbamento dell’ordine pubblico”.
Le pene comminate vanno dai sei mesi all’ergastolo (nei casi di violenza armata). La maggior parte delle persone arrestate sembra abbiano preso 5, 10 o 15 anni di prigione. Le sentenze sono state annunciate dalla televisione di stato. Tenuto conto della natura del processo, le cui decisioni sono irrevocabili e che lascia alla difesa uno spazio assai modesto, è impossibile verificare la giustezza dei verdetti, soprattutto nei casi di quelle persone che hanno dichiarato di essere state fotografate con delle armi o delle bottiglie molotov che non appartenevano loro.   “E’ inaccettabile, anche durante lo stato di emergenza e col pretesto di ristabilire l’ordine, giudicare dei civili davanti ad un tribunale militare. E così mi chiedo: perché i ministri non sono stati deferiti davanti al tribunale militare?”, si chiede Eid.
Ragea Omrane, avvocato dell’ONG di difesa dei manifestanti, denuncia il fatto che gli arresti non siano registrati e che le famiglie dei detenuti non ne siano informate. “Ciò che non permette loro di rivolgersi ad un avvocato – lamenta – Attualmente noi lavoriamo insieme ad altre ONG per raccogliere le denunce di tutte le famiglie che sospettano che qualcuno dei loro sia detenuto. Queste denunce saranno trasmesse alla Procura militare con la richiesta di fornire un avvocato a ciascun detenuto”, afferma Omrane. Tentativi del genere in passato sono già falliti, di qui l’idea di uno sforzo collettivo che metta insieme il maggior numero di ONG.