Lakome.com, 27 luglio 2011


La Riforma costituzionale in Marocco: al di là del 98% di Sì, un fallimento per la monarchia
Lucile Daumas


Quando il 9 marzo Mohammed VI ha annunciato alla televisione l’intenzione di riformare la costituzione aveva una sola idea in mente. Qualche giorno prima i suoi colleghi Ben Ali e Mubarak erano stati scacciati dai loro rispettivi popoli. Anche in Marocco la piazza ribolle


Il 20 febbraio un pugno di giovani è riuscito a portare in piazza migliaia di manifestanti in diverse decine di città. A quel punto, proporre una riforma costituzionale era conveniente per tre ragioni: tentava di neutralizzare un movimento ancora nascente, rispondendo ad una delle principali rivendicazioni dei manifestanti; accreditava la tesi di una “eccezione” marocchina, di un Marocco dove i meccanismi di dibattito democratico funzionano e dove la piazza sarebbe ascoltata; spostava il terreno del dibattito dalla piazza a commissioni più ovattate ed infine verso le urne. Luoghi con i quali le autorità hanno più dimestichezza rispetto ad un giovane movimento che rivendica una forte indipendenza dai partiti.

L’idea è piaciuta ai partiti, compromessi da decenni col Palazzo. Tutti, il giorno dopo, hanno esaltato “la rivoluzione del re e del popolo”. E’ piaciuta ancora di più alle cancellerie occidentali, che hanno appoggiato con fervore la proposta reale. Finalmente un regime amico che offriva una immagine presentabile! Ma l’idea non è piaciuta ai marocchini e, il 20 marzo, la seconda grande manifestazione nazionale del movimento ha coinvolto più di cento città ed ha visto una partecipazione più massiccia di quella del 20 febbraio, centinaia di migliaia di persone.

Infatti tutto il processo di riforma costituzionale è rimasto sotto il controllo reale, che ha nominato la commissione ad hoc ed ha fissato fin dall’inizio i limiti delle riforme. La risposta è stata immediata: “Niente costituzione senza il coinvolgimento del popolo”.
La riforma costituzionale, d’altronde, è inseparabile dalle altre rivendicazioni minime elaborate dal movimento del 20 febbraio: fine della corruzione, indipendenza della magistratura, libertà di stampa, creazione di posti di lavoro, giustizia sociale e redistribuzione delle ricchezze. Il Palazzo ha invece dato risposta ad una sola delle rivendicazioni, mentre i manifestanti sono soprattutto animati da una sete di libertà, di dignità, da un bisogno incontenibile di far sentire la volontà popolare.

Così questa “buona idea” non è stata sufficiente a calmare la rabbia dei marocchini(e) che oramai scendono in piazza tutte le settimane, sullo sfondo di lotte sociali esacerbate: disoccupati, postelegrafonici, ferrovieri, medici, insegnanti, soldati ex prigionieri del Polisario, handicappati, imam delle moschee (una grande primizia!), minori, abitanti delle bidonville, e tanti altri manifestano continuamente, tollerati o manganellati a seconda dei casi.

In questo contesto il dibattito costituzionale, se appassiona i partiti e gli apparati, non ha alcun successo tra il resto della popolazione. Nello stesso tempo la primavera araba comincia a mostrare molte zone d’ombra e le immagini proiettate a ciclo continuo da Al Jazeera sono meno esaltanti di quelle di gennaio e febbraio. I dittatori sono caduti, ma le stesse squadre sono sempre al posto di comando. In Libia, in Yemen, in Siria, la repressione è sanguinosa. Appare chiaro che la strada della libertà è lastricata da insidie e che il cammino sarà lungo.

Il Potere marocchino si illude, in queste circostanze, di poter fermare il movimento. La repressione, raramente frontale, si allarga, insidiosa, colpisce i militanti e i giornalisti, nel loro stesso posto di lavoro. Le autorità locali moltiplicano le intimidazioni, giungendo perfino a girare per le case per dissuadere la gente dall’uscire di casa. Si ricorre ampiamente a squadracce reclutate nel sottoproletariato (i famosi baltagis) ed  a poliziotti in borghese. Attaccano improvvisamente i manifestanti con manganelli, pietre, cavi elettrici, e la polizia protegge gli attaccanti.

Nello stesso tempo, la commissione incaricata della riforma costituzionale partorisce un testo che concede poche aperture rispetto alla precedente costituzione. Il Re resta il comandante dei credenti, controlla tutti i più importanti ingranaggi dello Stato, presiede il Consiglio Superiore della Magistratura e il Consiglio Superiore per la sicurezza, è il capo supremo dell’esercito, nomina i grandi funzionari dello Stato, presiede il Consiglio dei Ministri, promulga le leggi. Peggio ancora, tutti i diversi consigli e organismi che egli stesso ha creato, e che devono rendere conto solo al Re, vengono legittimati dalla nuova costituzione, che incorpora anche i fondamenti delle politiche liberali (privatizzazioni, libera concorrenza…). Infine l’islam resta religione di stato e non viene riconosciuta la libertà di coscienza. Il riconoscimento della lingua Amazigh come lingua ufficiale (ma non sullo stesso piano di quella araba) e l’obbligo per il Re di scegliere il suo primo ministro nell’ambito del partito che ha raccolto più voti alle elezioni non bastano certo a conferire al nuovo testo uno statuto di Costituzione democratica e popolare.

Le condizioni inoltre nelle quali si è svolta la campagna referendaria, chiusa in 10 giorni (libertà di espressione per i soli sostenitori del Sì, sovvenzioni smisurate ai partiti impegnati per il Sì, mobilitazione di ogni mezzo di propaganda pubblico e privato coi soldi o la coercizione, divieto e disturbo violento delle manifestazioni a favore del boicottaggio realizzati da gruppi organizzati e protetti dalla polizia), tutto ciò ha ricordato ai più vecchi l’atmosfera pesante dei tempi di Hassan II. Lo stesso svolgimento del voto, inficiato da molte irregolarità (propaganda per il Sì perfino nei seggi elettorali, mancata verifica dei documenti degli elettori, mancanza di firme nei registri) ha contraddetto anticipatamente gli stessi principi della costituzione, garante del pluralismo e di elezioni libere e trasparenti. I risultati, degni di una repubblica delle banane, 98,5% di Sì, mostrano bene che mascherata sia stata il referendum, trasformato esplicitamente in un plebiscito per il Re. E’ un fallimento cocente per una monarchia che si è spacciata fino ad ora per una monarchia trasparente, democratica. I manifestanti non si sono lasciati ingannare. Due giorni dopo sono tronati in piazza, continuano a chiedere la fine del dispotismo e gridano oramai: “Viva il popolo!”

Solo i governi occidentali non hanno voluto vedere niente, troppo zelanti nel sostenere, contro venti e maree, il regime marocchino, garante della tutela dei loro interessi e di quelli delle loro imprese. La stessa cecità dimostrata nei confronti dei regimi tunisino ed egiziano… prima della loro caduta!

Incapace di calmare la rabbia della piazza, la Riforma costituzionale dimostra piuttosto il rifiuto della monarchia di cedere anche solo un minimo del suo potere e di rispondere anche minimamente alle rivendicazioni democratiche, economiche e sociali del popolo marocchino. Nell’attuale congiuntura non si tratta di una prova di forza, ma della dimostrazione di un fallimento. Nelle piazze i manifestanti annunciano: “Non è che un inizio, noi non molliamo!” 

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