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(R)umori dal Mediterraneo, 23 agosto 2011

 
 

Younes Zarli, storia di un’ingiustizia
Jacopo Granci


Seduta su una panchina di via Garibaldi, in un afoso pomeriggio bergamasco, Jessica racconta la sua storia con pazienza e precisione. I pochi passanti, decisi a sfidare il sole d’agosto nelle strade del centro lombardo, non nascondono la loro curiosità di fronte all’hijab azzurro che ricopre i capelli della ventitreenne. Convertita all’islam nel 2005, Jessica Zanchi ha fatto il suo ingresso nella Umma musulmana con il nome di Maryam. “Fin da piccola ero attratta da questa religione e dalle sue pratiche. Quando avevo sette anni era venuta a vivere vicino a me, ad Alzano Lombardo, una famiglia maghrebina. Io passavo tanto tempo in casa loro, ero affascinata dall’ospitalità, dai rituali e dalla passione con cui vivevano la loro fede. La mia conversione è avvenuta dopo che ho conosciuto Younes, ma di certo non è stato lui ad obbligarmi. Era una mia convinzione già prima di incontrarlo. Del resto non mi ha mai costretta a portare il velo e non ha voluto nemmeno insegnarmi a fare la preghiera. Ho dovuto imparare da sola”.
Quella di Jessica è anche la storia di Younes Zarli, trentenne marocchino con cui è sposata dal 2007, e del loro figlio Adam. E’ la storia di un’ingiustizia, che da sei anni priva la coppia di una vita normale, a cui invece avrebbe diritto. Un’ingiustizia di cui le autorità italiane sono responsabili almeno quanto i pari grado di Rabat.


“Terrorista” con il visto
Younes entra in Italia nel 1997, con regolare permesso di soggiorno. Quando arriva assieme ai suoi fratelli è ancora minorenne. Con la Boxe Bergamo diventa campione italiano di kickboxing e vice-campione mondiale della stessa specialità. Una sera del 2003, il ragazzo originario di Casablanca e Jessica si conoscono in discoteca. Dopo due anni di fidanzamento, il 3 dicembre 2005, Younes viene prelevato dalla Digos. Per lui è già pronto il decreto di espulsione (legge Pisanu), firmato dal ministro dell’Interno, per motivi di sicurezza nazionale.
“Un consolidato circuito relazionale con elementi di primo piano dell’integralismo islamico”, è la formula utilizzata dalla questura, sempre identica, per motivare l’allontanamento coatto dal territorio nazionale di un “sospetto”, senza ricorrere in giustizia né garantire il diritto alla difesa (vedi il caso di Ahmed Errahmouni). A Younes non sono contestati reati specifici. La sua colpa? Essere il fratello di Salah Zarli, arrestato nel 2002 e condannato a morte in Marocco (che ha aderito alla moratoria della pena capitale) per coinvolgimento in attività terroristiche. La condanna, tuttavia, è avvenuta dopo gli attentati del 16 maggio 2003 a Casablanca, quando Salah – attualmente in stato di detenzione – si trovava già in carcere.
Quanto successo nel regno alawita dopo il 16 maggio 2003, come testimoniano i rapporti di
Amnesty International e di Human Rights Watch, resta una delle pagine più nere che il paese ha conosciuto dalla fine degli “anni di piombo” e dalla morte del vecchio re Hassan II. Le autorità hanno iniziato una vera e propria “caccia all’islamista”, che ha portato a centinaia di sparizioni, torture sui sospetti e arresti arbitrari, trasformati rapidamente in verdetti decennali.
E’ questo il quadro che si trova di fronte Younes al momento del rimpatrio. Sceso dall’aereo, viene prelevato dalla polizia e sparisce per due settimane. “Dopo l’espulsione sono partita da Bergamo con il primo volo – racconta la moglie Jessica – ma arrivata in Marocco, di lui non c’era traccia. Sua madre ed io l’abbiamo cercato in ogni commissariato della città”. E’ il primo passaggio nel centro di detenzione segreta di Temara (periferia di Rabat), dove la DST (la polizia politica locale) svolge gli “interrogatori preliminari” nel totale disprezzo dei diritti umani e delle norme detentive. La famiglia ha sue notizie solo dopo il trasferimento ufficiale in carcere. Younes resta in prigione dieci mesi (una condanna in primo grado a due anni, ma le accuse di “terrorismo” non vengono confermate in appello) per “falsificazione di documenti”. Nessuna prova a suo carico durante il processo. Probabilmente le autorità marocchine hanno voluto mostrare il loro zelo di fronte agli omologhi italiani, secondo cui il giovane Zarli rimane un sospetto “jihadista” con divieto di ingresso nella penisola per dieci anni.
Uscito dal carcere, Younes si stabilisce con Jessica a Casablanca. Nel marzo 2007 decidono di sposarsi al consolato della metropoli. Nel 2008 nasce Adam. Nel frattempo la coppia non si arrende, vuole tornare a vivere in Italia, riparare l’ingiustizia dell’espulsione e cancellare le ombre che in poco tempo sono riuscite a stravolgere la vita di entrambi. Fanno ricorso alla Corte d’appello di Roma, di cui si attendono ancora gli sviluppi. Dopo il matrimonio Younes può rientrare a Bergamo con il visto del consolato, che autorizza il “ricongiungimento familiare”, ma quando la questura se ne accorge lo cattura con un dispiegamento hollywoodiano e lo espelle di nuovo. Stesso epilogo nel 2008, quando Zarli varca ancora la frontiera, indisturbato, per stare vicino alla moglie prima del parto. “Il visto è un errore del consolato”, si giustifica la polizia, per cui resta valido il decreto emesso nel dicembre del 2005, anche se il processo in Marocco ha scagionato il giovane maghrebino anche dalle accuse mossegli nel nostro territorio.


Il secondo arresto in Marocco

Il 19 aprile 2010 Younes Zarli sarebbe dovuto comparire di fronte al tribunale di Como per rispondere di “violazione della legislazione in materia di immigrazione”. “Avevamo già pronti i biglietti e un nuovo permesso temporaneo per assistere all’udienza – riferisce Jessica – ma pochi giorni prima, l’11 aprile, mio marito è scomparso dalla nostra abitazione di Casablanca”.
Secondo il comunicato dell’associazione
Al Karama, che dispone di una vasta documentazione sulle violazioni subite dai detenuti islamici in Marocco, “Younes Zarli è stato prelevato da alcuni agenti della DST e condotto, bendato, nel centro di Temara, dove è rimasto per sedici giorni prima di essere trasferito nel commissariato di Maarif (Casablanca, ndr)”. A Temara è stato “privato dei suoi vestiti e picchiato selvaggiamente”; stesso trattamento nelle due settimane trascorse nei sotterranei del commissariato. Durante gli interrogatori, oltre alle torture e alle minacce, gli vengono somministrate sostanze stupefacenti. “Se non parli portiamo qui tua moglie e la violentiamo di fronte a te”, così – testimonia Jessica – si divertivano i suoi aguzzini. “L’incubo è finito solo quando Younes ha accettato di firmare alcuni fogli di cui non conosceva il contenuto. Lo abbiamo scoperto al momento del processo..”.
La sentenza di primo grado, pronunciata nell’aprile scorso, mette in relazione Younes con la locale galassia salafita, accusata dal regime di essere dietro agli attentati di Casablanca (e poi di Marrakech). Tuttavia, nessuna inchiesta ufficiale in merito è mai stata resa nota, a fronte degli oltre 2 mila arresti effettuati dal 2003. La condanna a cinque anni di carcere fa riferimento ancora una volta alla “falsificazione di un passaporto”, di cui le autorità non hanno fornito alcuna prova concreta durante il processo e nessun testimone a carico dell’imputato. Come ricorda l’avvocato della famiglia Zarli, “il verdetto si è basato soltanto sulla presunta confessione di Younes, strappata con la violenza e l’intimidazione durante la permanenza a Temara”.
Dal giorno del processo, quasi quattro mesi fa, Jessica non ha più rivisto suo marito. E’ in isolamento, come i suoi compagni di cella, dal 17 maggio scorso, quando agenti e secondini hanno fatto irruzione nella prigione Zaki a Salé per trasferire, manu militari, i detenuti islamici che da qualche tempo avevano iniziato a denunciare i trattamenti speciali riservatigli dalla polizia politica. “I media ufficiali hanno provato ad attribuire la responsabilità dei disordini ai prigionieri, ma alcuni filmati diffusi dalla nostra organizzazione mostrano come lo scambio di violenze sia iniziato solo dopo l’intervento delle forze anti-sommossa. Per la disparità dei mezzi e dei numeri a disposizione, per la ferocia con cui gli agenti si sono accaniti contro i detenuti, possiamo dire che si è sfiorato di poco il massacro (35 feriti gravi)”, conferma Rida Benotmane, portavoce della CADI (Coordination des Anciens Detenus Islamistes) e membro dell’AMDH (Association Marocaine des Droits Humains). “L’assedio ai prigionieri disarmati saliti sul tetto del carcere è durato 48 ore; per due giorni gli agenti hanno utilizzato pietre, bastoni, manganelli, gas lacrimogeno ed hanno sparato anche proiettili veri, oltre a quelli di caucciù”.
 
Ramadan “in punizione” nel carcere speciale
Dopo la “rivolta” i detenuti sono stati separati e trasferiti segretamente in altri penitenziari. Di Younes non si è saputo più niente per diverse settimane, fin quando l’avvocato è riuscito ad incontrarlo nella prigione di Salé 2. “Alle famiglie è stato negato il diritto di visita per quarantacinque giorni. Una punizione, hanno riferito le autorità, ma anche una precauzione per occultare i segni delle ritorsioni dei secondini sui loro corpi”, afferma Jessica che da allora, caduta in depressione, è rientrata a casa, ad Alzano Lombardo, con il piccolo Adam.
Per loro è impossibile entrare in contatto con Younes. Nel carcere speciale di Salé 2 non sono ammesse telefonate. “Da inizio luglio mia suocera può andarlo a trovare una volta a settimana, ma lo scenario in cui avvengono i brevi colloqui di quindici minuti è tremendo”. Una fitta rete metallica la separa dal figlio, con cui non può avere un contatto fisico, mentre due guardie rimangono ferme alle loro spalle. “Mio marito porta addosso ancora i vestiti logori di quel 17 maggio, dal momento che è vietato portargli abiti puliti e tutti i suoi effetti personali sono stati trafugati. Dorme in una branda di cemento, senza coperte né lenzuola. E’ dimagrito tantissimo, la disperazione, la mancanza di una via d’uscita, sembrano logorarlo”, prosegue la giovane bergamasca, mentre fa scorrere tra le dita le foto di Younes. Ritratti di un ragazzo spensierato, allegro, in posa a Parigi vicino alla Tour Eiffel, abbracciato ai compagni della squadra di calcio, al mare in Calabria, a Casablanca nell’appartamento della sorella maggiore…
Nemmeno nel mese sacro di ramadan le misure rigorose adottate dalla Delegazione delle carceri (diretta da Hafid Benhachem, noto agli attivisti marocchini come uno dei più fedeli torturatori del regime durante gli “anni di piombo”, ndr) si sono attenuate. Younes resta in isolamento, impossibile pregare assieme ai compagni e rompere il digiuno, la sera, in modo comunitario come vuole la tradizione. Non hanno tappeti per recitare la salat, perfino l’ingresso del Corano è stato vietato dai responsabili della prigione. “Il pasto è sempre lo stesso, fagioli o lenticchie, tranne quando la famiglia riesce a fargli avere dei cibi cotti cucinati dalla madre la sera prima della visita. Qualche giorno fa le guardie si sono addirittura rifiutate di portargli i datteri per l’iftar”, ha scritto in data 10 agosto Maryam Jessica nel suo blog
Riportiamo a casa Younes Zarli.
A settembre tornerà in Marocco per la seconda udienza del processo d’appello. Difficile sperare in una riduzione di pena dopo che il governo, in seguito all’attentato al Café Argana dello scorso aprile, ha ripreso la sua “crociata contro il terrorismo” per indebolire il dissenso religioso (e non solo) all’interno del paese. Ciò nonostante Jessica sembra serena, potrà finalmente rivedere Younes, anche se non fa mistero della dura condizione a cui, a soli ventitre anni, è sottoposta. “A volte mi sento sfinita e pensare che mancano ancora quattro anni alla fine del tunnel non aiuta. La difficoltà non è solo fisica o mentale, ma anche economica. Sono disoccupata. I miei genitori mi stanno dando un grosso sostegno, pur con un solo stipendio, ma tutto ha un limite. Del resto qui, da convertita all’islam, non è facile trovare lavoro, soprattutto da quando ho scelto di mettere il velo (un anno fa, ndr). Poi ci sono i continui spostamenti in Marocco, per cercare di stare il più vicino possibile a Younes, e c’è Adam, che devo crescere cercando di sopperire al vuoto lasciato dalla mancanza del padre”. Per Jessica vedersi garantite delle condizioni di visita decenti sarebbe già un passo in avanti. Ha inviato lettere a Rabat, al Ministero della Giustizia e a quello dell’Interno, ma non ha ottenuto risposta. “Non chiedo altro che il rispetto dei diritti umani fondamentali, diritti che la nuova costituzione approvata il 1° luglio scorso afferma di voler difendere”. Nel testo c’è scritto anche che “la tortura è un crimine punito dalla legge” (art. 22), ma stando ai racconti diffusi dalle famiglie dei detenuti islamici, le autorità del regno alawita continuano ancora oggi a farvi ricorso.