Stampa


(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 412, 10-16 ottobre 2009)


Benabdesslam, una vita al servizio dei diritti dell’uomo


Abdelilah Benabdesslam è uno dei protagonisti principali nella lotta per la difesa dei diritti umani in Marocco. Semplice, discreto e efficace, il vice-presidente dell’Associazione marocchina per i diritti dell’uomo (AMDH) sta portando avanti una battaglia profondamente legata alla sua storia personale


Il rischio è che, passata una certa età, si perda la determinazione. Che ci si trovi disorientati, che si perda la bussola e magari si cambi anche casacca. Ma ci sono delle eccezioni (per fortuna!) che confermano la regola e che a volte arrivano pure a cambiarla. Abdelilah Benabdesslam incarna questa singolarità. Con i suoi passi discreti ma sicuri, questo militante passionale punta ancora dritto all’essenziale. Vice-presidente dell’AMDH dall’ultimo congresso dell’associazione, il suo compito consiste nel seguire i dossier relativi alle violazioni gravi dei diritti dell’uomo. “Siamo ancora in perfetta continuità con il vecchio regime”, sono queste le parole con cui valuta i dieci anni di regno di Mohammed VI. E poi continua, “niente è veramente cambiato”. Abdelilah Benabdesslam è nato nel 1956 nella medina di Rabat. La scuola che frequentava si trovava vicina al mellah, il quartiere ebraico della capitale. L’ambiente, per le strade, era sempre teso a causa del conflitto israelo-palestinese. “Ero molto giovane e non facevo alcuna differenza tra ebrei e sionisti”, afferma con rammarico.

Il Libretto rosso
Benabdesslam muove i suoi primi passi all’interno delle associazioni legate all’epoca all’UNFP (Unione nazionale delle forze popolari). Ma già prima, le discussioni in famiglia sulla vicenda Ben Barka avevano scaturito la curiosità del piccolo Abdelilah. “Tanto più che la nostra famiglia aveva degli stretti legami di parentela, da parte di mia madre, con Mehdi Ben Barka”, precisa. Più tardi, frugando negli affari del fratello Ahmed, che era membro dell’UNFP, si imbatte sul giornale Annachera (una pubblicazione interna al partito durante gli anni ’60) e sul Libretto rosso di Mao Zedong, che divora senza pensarci su. L’effetto è immediato. “In occasione di una colonia organizzata dal Movimento per l’infanzia popolare, ho notato che, ad un certo punto, i nostri istitutori si erano messi a danzare sopra i tavoli. Ho domandato perché. Avevo tredici anni e non capivo. Mi risposero che il Palazzo reale di Skhirat era stato preso d’assalto”, ricorda Abdelilah. Arrivato al liceo, si inscrive al sindacato degli studenti, al tempo una organizzazione clandestina e diretta dalle nuove anime della sinistra radicale. Si occupa personalmente di distribuire i volantini che annunciano la nascita ufficiale del sindacato. Nel 1976, prima ancora di aver ottenuto il diploma, sceglie il mestiere di insegnante. Viene spedito a Beni Meskine (nella regione di Settat), in pieno contesto rurale. Questa esperienza lo porta a diretto contatto con la durezza della vita contadina nelle campagne marocchine. “A scuola non c’erano né sedie né lavagna. Gli alunni si portavano da casa delle piccole stuoie o dei pezzi di cartone sui quali si mettevano a sedere”.

La grazia reale
In quegli anni raggiunge l’organizzazione clandestina Ilal Amam e qualche tempo dopo il Movimento 23 marzo. “Provo tuttora un grande rispetto per le due organizzazioni, e mi considero ancora un militante della nuova sinistra degli anni settanta”, si lascia sfuggire con ironia. Pur essendo distante dalla capitale, non perde i contatti con i suoi compagni. La radio e i pochi giornali che arrivano nella regione costituiscono gli unici legami con il mondo esterno, in quei momenti di solitudine. Nel giro di due anni la fiamma rivoluzionaria lo riacciuffa e lo riporta a Rabat. Diventa membro dell’ufficio locale del sindacato degli insegnanti (CDT), dove si impegna a fondo. Prende parte attiva nella grande lotta sindacale che segna la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. Aderisce all’AMDH fin dal momento della creazione nel 1979. “Tutto questo pur rimanendo allo stesso tempo membro dell’organizzazione segreta”, tiene a precisare. A caccia dei promotori delle agitazioni, il regime di Hassan II finisce per arrivare a lui. Nell’aprile del 1984 viene arrestato, torturato e imprigionato. “Stavo facendo lezione, quando il sorvegliante è arrivato in classe per annunciarmi che degli agenti della DST mi attendevano nell’ufficio del direttore”, racconta. Dopo un breve passaggio nel commissariato di Rabat, poi in un centro della DST (Direzione per la Sicurezza Territoriale) a Marrakech, Abdelilah Benabdesslam viene condotto a Derb Moulay Cherif. Dopo due mesi trascorsi nel centro di detenzione di Casablanca, è condannato a otto anni di carcere. Ne trascorre sette nella tristemente celebre prigione di Laalou. Dopo incessanti battaglie condotte assieme ai compagni, riesce ad ottenere il trasferimento nella prigione centrale di Kenitra. “Nel 1989 abbiamo portato avanti uno sciopero della fame per nove mesi. Siamo finiti tutti in rianimazione e durante la protesta abbiamo anche perso un compagno (Abdelhak Chebada)”, ricorda Abdelilah. Nel carcere di Kenitra ritrova molti dei suoi vecchi compagni di strada. Benmalek, Serfaty, El Harif, Nouda, Serifi, Bennacer, Benzekri ed altri. Nel 1991 una nota della MAP (agenzia stampa marocchina) annuncia che i detenuti politici hanno ritrattato le loro posizioni ed hanno chiesto la grazia reale. Il gruppo pubblica un comunicato in cui smentisce la notizia diffusa dall’agenzia e ribadisce che non è mai stata presentata alcuna domanda di grazia. Ma ciò non impedisce ad Hassan II di liberarli. “Dopo la liberazione ci aspettava un’altra battaglia”, continua il militante. Non era facile reintegrarsi in una società che nel frattempo era radicalmente cambiata, recuperare il lavoro andato perduto e continuare la lotta politica. Come riuscire in tutto questo? I tentativi di ricomporre le vecchie organizzazione vengono soffocati sul nascere dalla repressione del regime e dai conflitti in seno agli stessi militanti. “La sinistra marocchina non ha voluto rimettersi in questione”, recrimina Abdelilah Benabdesslam, che da quel momento ha scelto il settore dei diritti umani come terreno di lotta. Uno spazio dove nel corso degli anni è diventato una referenza indiscussa.

Aziz El Yaacoubi






Alla scoperta di Abdelilah Benabdesslam, militante da una vita


Intervista ad Abdelilah Benabdesslam, vice-presidente dell’AMDH (Associazione marocchina per i diritti dell’uomo) dal 2007. Uno sguardo illuminante e privo di reticenze su alcuni tra i passaggi più cupi della storia passata e presente di questo paese. L’intervista è divisa in due parti.

La prima parte dell’intervista prende in esame la figura di Abdelilah Benabdesslam. Ne ripercorre la vita e la militanza, politica e sindacale, nelle sue fasi salienti, fino all’arresto e poi al passaggio dall’attivismo politico a quello in difesa dei diritti umani.


Jacopo Granci: Nell’articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, Aziz El Yaakoubi racconta parte della sua vita, dalla militanza nella sinistra radicale marocchina, fino a quella nel campo dei diritti dell’uomo. Volevo cominciare l’intervista proprio da qui, dalla militanza come scelta di vita. Quali sono le tappe fondamentali che hanno segnato il suo cammino e la sua coscienza?
Abdelilah Benabdesslam: Sono molti gli elementi che mi hanno aiutato a capire cosa fosse e cosa significasse la lotta per la libertà, la democrazia e l’instaurazione di uno Stato di diritto. Sono nato e cresciuto in un quartiere povero della capitale, nella medina. La situazione economica e sociale del Marocco era difficile ed io, fin da piccolo, partecipavo alle colonie organizzate dall’Azione Popolare, un’associazione creata dal martire Mehdi Ben Barka. In questo modo ho cominciato ad aprire gli occhi attorno a me, a farmi delle domande. Era la fine degli anni sessanta, più o meno. In più mia madre fa parte della famiglia di Ben Barka, con la quale ha sempre mantenuto un legame molto stretto. Ed io, da che ho memoria, ho sempre sentito parlare nelle discussioni di famiglia dell’omicidio di Mehdi, dell’esecuzione voluta da Hassan II e realizzata nel 1965 dai sicari del generale Oufkir a Parigi. Tutto questo a fatto sì che nella mia testa fosse ben chiaro il cammino da percorrere. Come se non bastasse, in quegli anni per le strade di Rabat, e di tutte le altre città marocchine, c’erano continue manifestazioni di protesta contro la disastrosa situazione in cui versava il paese, o anche manifestazioni di solidarietà con il popolo palestinese. Spesso mi ritrovavo nel mezzo delle manifestazioni, e per me era naturale, seppur fossi ancora piccolo, prendere parte alle proteste, che ritenevo legittime. Quando sono arrivato al liceo, i movimenti di sinistra erano forti e dominavano le attività all’interno dell’istituto. Io avevo già compiuto la mia formazione politica, attraverso le letture che sottraevo a mio fratello più grande. La scelta fu facile. Fin dall’inizio ho preso parte alle attività politiche dei movimenti clandestini, sia al liceo sia poi all’università, durante tutti gli anni settanta.

J. G. : Quanto ha contribuito l’esperienza fatta nelle campagne di Settat, come insegnante, nella sua maturazione politica e nella sua presa di coscienza?
A. B. : Avevo già raggiunto una buona maturità politica. Almeno a livello di riflessione. Ed ero già membro del movimento. Tuttavia, quella di Settat è risultata una esperienza determinante, che ha rafforzato le mie convinzioni. Ero insegnante nella circoscrizione scolastica di Beni Meskin. Le condizioni dei contadini che vivevano in quelle campagne, lontane quasi cento chilometri da Settat, era disastrosa. In me cresceva il desiderio di cambiamento. La necessità di una rivoluzione sociale diveniva sempre più forte e imprescindibile. Il cambiamento doveva interessare non solo le città, la classe operaia, ma soprattutto i contadini e gli abitanti delle campagne. Laggiù ho iniziato a portare avanti le prime lotte sindacali. Sono diventato membro del sindacato nazionale degli insegnanti. All’epoca, parlo dell’anno 1876, non esisteva ancora la CDT (Confederazione Democratica dei Lavoratori), creata nel 1978. E proprio l’azione di questo piccolo, ma molto combattivo, sindacato di settore contribuirà negli anni seguenti alla fondazione della CDT stessa. Allo stesso tempo ero divenuto membro di una associazione, chiamata l’AMEJ (Associazione marocchina per l’educazione della gioventù), anch’essa creata da Mehdi Ben Barka.

J. G. : Lei ha detto “ero membro del movimento”. A cosa si riferisce precisamente?
A. B. : Mi riferisco al movimento della nuova sinistra radicale cresciuto negli anni settanta. Un movimento che si componeva di più anime, di più partiti, se così vogliamo chiamarli, tutti rigorosamente clandestini. Le nostre attività erano vietate e perseguite dal regime. Il primo gruppo di questa nuova sinistra radicale a cui ho aderito era Ilal Amam, dopo di ché sono passato al Movimento 23 marzo. A causa della mia appartenenza politica, oltre che della accanita lotta sindacale condotta in seno alla CDT tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta, sono finito in carcere. Sono stato arrestato nel 1984. Ho passato i primi due mesi nel centro di detenzione segreta di Derb Moulay Cherif, dove la DST (Direzione per la Sicurezza del Territorio) operava indisturbata. Poi sono stato trasferito in un altro centro, sempre della DST, poco lontano da Marrakech. Non era la prima volta che venivo arrestato. Mi era già capitato in altre occasioni, ma dopo il passaggio in commissariato ero sempre stato rilasciato. Questa volta, invece, sono rimasto in carcere e sono stato giudicato dalla sezione criminale del tribunale di Rabat. Accusato di attacco alla sicurezza dello Stato, sono stato condannato a otto anni di carcere.

J. G. : Mi parli della sua esperienza nelle prigioni marocchine. Ha appena citato il tristemente celebre centro di Derb Moulay Cherif..
A. B. : Derb Moulay Cherif non era una prigione, ma un centro per gli interrogatori gestito clandestinamente dalla DST. Un centro di tortura per essere più precisi. Là dentro sono rimasto quasi tre mesi bendato e con le manette ai polsi, subendo ogni genere di tortura conosciuta, sia fisica che morale: simulazioni di annegamento, l’aereo, le scariche elettriche, tutte le sevizie che lei conosce. Durante la mia detenzione, poi, ho avuto la malasorte di passare per numerose carceri del regno. Laalou, Kenitra, Salé, Meknes, Casablanca.. la lista è lunga. Laalou, dove sono rimasto sette anni, era una prigione ufficiale, non più segreta, situata a Rabat, ma i trattamenti che ci erano riservati non cambiavano poi molto. Al tempo girava una voce tra i detenuti: “chi entra a Laalou è perduto, e chi ha la fortuna di uscirne vivo, è come se rinascesse per una seconda volta”. Era un calvario. Noi detenuti politici cercavamo lo stesso di combattere, di lottare, portando avanti degli scioperi della fame. Proprio a Laalou abbiamo iniziato uno sciopero, rimasto ancora celebre, che è durato nove mesi. Ci imponevano l’alimentazione forzata, ma ogni volta  strappavamo l’ago dal braccio e riprendevamo la nostra protesta. Al sessantacinquesimo giorno di sciopero abbiamo perso un compagno e, ancora oggi, molti altri si portano dietro delle gravi conseguenze fisiche dovute a quella storica dimostrazione. Un compagno, per esempio, è rimasto paralizzato e tuttora non riesce a camminare da solo né a parlare correttamente, dato che il cervelletto ha subito le conseguenze maggiori della mancanza di alimentazione.
Sono uscito di prigione nel 1991. Come le ho detto, ero stato condannato a otto anni di carcere, più un anno e otto mesi supplementari che mi furono inflitti durante la detenzione. Nell’ultimo periodo ero stato trasferito alla prigione centrale di Casablanca, e poi a Kenitra, dove ho ritrovato alcuni dei vecchi compagni di Ilal Amam, del movimento Servire il popolo e del Movimento 23 marzo, tra cui Serfaty, El Harif e Benzekri.

J. G. : Quando è iniziata la sua militanza in difesa dei diritti umani?
A. B. : Già prima di essere arrestato, avevo partecipato alla creazione dell’AMDH, di cui sono stato membro fin dall’inizio. Alla fondazione, avvenuta nel 1979, contribuirono in maniera determinante i militanti dell’USFP, del PPS e dei movimenti della sinistra radicale degli anni settanta, quindi Ilal Amam e il gruppo 23 marzo. Gli indipendenti erano pochi, il grosso apparteneva all’USFP. C’erano anche alcuni elementi della famiglia Belafrej. Belafrej era il rappresentante personale di Hassan II, ma durante gli anni settanta suo figlio, ingegnere e professore alla scuola di ingegneria di Mohammedia, fu arrestato in quanto militante della sinistra radicale. Da quel momento Belafrej ha abbandonato il suo ruolo di rappresentante reale e alcuni membri della sua famiglia si sono uniti alla lotta in difesa dei diritti dell’uomo.
Militare in difesa dei diritti umani, per me come per molti altri, era una conseguenza naturale al nostro impegno politico. E viceversa. Ammetto che forse, a quell’epoca, tendevamo a confondere le due cose. Quando sono uscito dal carcere la situazione è cambiata. Come del resto il contesto in cui dovevo reinserirmi. La prima cosa che ho fatto è stata distinguere la militanza politica dall’impegno in difesa dei diritti dell’uomo. O meglio l’appartenenza politica dai diritti dell’uomo, perché se si parla di politica in senso lato, allora bisogna riconoscere che anche la difesa dei diritti umani segue una sua politica, fatta di norme specifiche, come le convenzioni internazionali, che vanno osservate con stretto rigore. Non accetto il discorso propagandato dalle autorità, e difeso dalla maggior parte delle formazioni politiche, secondo cui i Marocchini, in quanto musulmani, avrebbero delle specificità che devono essere conservate e salvaguardate anche quando contrastano con le leggi internazionali in difesa dei diritti umani. Un attivista non può accettare specificità, riserve o indecisioni. Deve difendere i diritti umani sopra ogni altra cosa, che siano le leggi dello Stato o i precetti religiosi. Il cammino della sua militanza è ben marcato, non c’è spazio per i dubbi o gli equivoci.

J. G. : Non ho ben capito una cosa. Appena uscito di prigione, quale fu esattamente la direzione che intraprese? Dedicò il suo impegno ancora alla politica o alla difesa dei diritti dell’uomo?
A. B. : Uscito di prigione nell’agosto del 1991, per prima cosa ho cercato di lavorare, assieme ad altri vecchi compagni, al raggruppamento e alla consolidazione di una vera sinistra marocchina. Era questa la mia prima intenzione. Pur restando un membro dell’AMDH, preferivo impegnarmi concretamente nell’azione politica. Nel 1995 ho lasciato perdere, vedendo che non c’era la possibilità di ottenere dei progressi concreti. Dei risultati. Da quel momento ho ripreso la militanza permanente nel campo dei diritti dell’uomo.
Non fu la repressione del regime, dopo l’uscita dal carcere, a far fallire il nostro progetto politico. Furono le divergenze tra i militanti, vecchi e nuovi. Divergenze sul progetto di trasformazione sociale auspicato. C’erano quelli che credevano ancora nel vecchio progetto rivoluzionario, secondo cui la trasformazione sociale era realizzabile solo attraverso la mobilitazione delle masse lavoratrici, operaie e contadine, e attraverso la creazione di uno Stato autenticamente rivoluzionario. C’erano invece altri che, pur condividendo l’aspirazione di fondo, non credevano ci fossero i mezzi per attuare questo tipo di cambiamento, né che fosse il momento adatto. Il contesto internazionale era cambiato e anche quello marocchino sembrava offrire nuove opportunità. Preferivano approfittare del margine di apertura politica concesso dal regime, per ottenere come prima cosa l’instaurazione di uno Stato democratico. Il lavoro di aperta opposizione politica, almeno in apparenza, sembrava ora possibile, mentre prima doveva essere svolto in condizioni di clandestinità. Quindi, c’era chi diceva semplicemente “approfittiamo di questo margine e lavoriamo assieme alla società civile, ai sindacati”. L’obiettivo era quello di uscire dalla logica elitaria che aveva in parte condannato i movimenti di sinistra degli anni settanta.

J. G. : Lei a quale delle due “correnti” apparteneva?
A. B. : Io cercavo di lavorare all’unità, non alla divisione. Per questo cercavo di mediare e dare risalto ai punti in comune, più che alle differenze. Tuttavia, mi sentivo più vicino alla  seconda “corrente”. Preferivo lottare per la democrazia come primo obiettivo imprescindibile. La strada da seguire, per me, era il coinvolgimento delle masse e la propagazione delle idee di cambiamento su vasta scala. Cosa che non era stata possibile in passato. Se accompagnati dal sostegno delle masse, anche i piccoli cambiamenti sarebbero potuti diventare determinanti. Preferivo l’idea di un accumulo di progressi graduali, ma condivisi, ad una nuova militanza radicale e rivoluzionaria distante dall’interesse comune contingente. Ritenevo il marxismo un mezzo ancora assolutamente utile per capire la realtà e per riflettere a livello ideologico. E lo penso tuttora. Ma, a mio avviso, il cambiamento doveva avvenire dal popolo, doveva essere una scelta del popolo.

J. G. : Presa coscienza delle nuove divergenze, perché militare per la difesa dei diritti umani piuttosto che in uno dei partiti di sinistra che ancora sono presenti nel panorama politico marocchino?
A. B. : Credo che un impegno nel campo dei diritti dell’uomo possa dare maggiori risultati e benefici, in termini di progressi sociali e acquisizioni, al popolo marocchino. Risultati maggiori che un impegno sul piano politico. E’ stata questa constatazione a farmi desistere dall’impegno politico, in cui faticavo a ritrovare il mio posto a causa delle divergenze di cui le ho parlato.
Nel campo dei diritti umani, il riferimento che guida l’azione di un militante è ben chiaro e preciso, codificato da trattati e convenzioni. Non ci può essere disaccordo su questa base e in tal senso il lavoro prodotto diventa più concreto. Un esempio, la pena di morte. Non si può essere difensori dei diritti umani senza schierarsi apertamente contro la pena di morte. Non c’è spazio per l’ambiguità. Stessa cosa per la tortura: non ci sono pretesti possibili o ammissibili per difendere una simile pratica. Nessun timore o pericolo può autorizzare un simile provvedimento. Neanche la minaccia di un attacco terrorista. Questo significa rispettare i diritti dell’uomo, e questo dovrebbe essere alla base di ogni Stato democratico.
Dopo cinque anni di discussioni ho cominciato a dubitare della scelta fatta una volta uscito dal carcere. Ho capito che non sarei mai stato utile alla mia gente proseguendo in quella direzione, cercando di sanare dei contrasti sempre più sterili ed egoistici. In molti casi, nel settarismo che si andava formando, vedevo più la difesa del singolo interesse che la ricerca del bene comune, la cui aspirazione da sola, secondo me, sarebbe dovuta bastare a far nascere una strategia di azione condivisa.

J. G. : Può descrivermi in breve la composizione dello scacchiere politico in quegli anni?
A. B. : Il panorama politico dei primi anni novanta comprendeva i partiti del Makhzen, detti comunemente “partiti amministrativi”, come l’Unione Costituzionale, il Movimento Popolare o l’Unione degli indipendenti, creati esclusivamente per difendere gli interessi della monarchia. C’erano poi i partiti che definirei “tradizionali”, quelli con una reale base politica, tanto di destra, come l’Istiqlal, quanto di sinistra, come l’USFP (Unione socialista delle forze popolari), il PPS (Partito del progresso e del socialismo) o l’OADP (Organizzazione per l’azione democratica e popolare). E infine i partiti usciti dai movimenti marxisti degli anni settanta, come Annhaj Democrati, il PADS (Partito dell’avanguardia democratica e socialista) e il PSU (Partito socialista unificato), che pur avendo un progetto sociale e politico, rifiutavano di prendere parte alle elezioni per evitare ogni sorta di compromesso con la monarchia.

J. G. : Alla fine, lei non ha optato né per i nuovi partiti diciamo “radicali”, né per i partiti della sinistra tradizionale.
A. B. : Per cinque anni ho viaggiato di città in città per tutto il Marocco, assieme ad altri compagni, facendo un grande sforzo per far emergere un terreno comune di lotta e per arrivare ad una strategia condivisa che potesse evitare la dispersione e il frazionamento. Credevo che una grande aspirazione comune potesse bastare per superare le divisioni. Ma mi sbagliavo.
Così ho deciso di dedicare il mio impegno all’attività dell’AMDH. Le lotte che stava portando avanti in quei primi anni novanta mi apparivano ben più solide e concrete. Ho iniziato a lavorare con le famiglie dei prigionieri, vecchi e nuovi, con le vittime dei processi iniqui e con i migranti che transitavano nel nostro territorio senza nessuna copertura legale. Ed ho capito che attraverso queste battaglie era possibile ottenere quei progressi, quelle acquisizioni anche minime, ma costanti, che avevo cercato attraverso la politica.
Una delle prime grandi battaglie fu quella a sostegno dei detenuti sopravvissuti a Tazmamart, che nel 1991 avevano ritrovato la libertà. Lo Stato li aveva lasciati senza il minimo aiuto e la minima assistenza. Non aveva nessuna intenzione di elargire indennizzi per le atrocità che aveva inflitto a quella gente. Io non li conoscevo, all’origine erano dei militari, non dei militanti politici, ma ho sostenuto subito la battaglia in favore dei loro diritti, di quelli violati per vent’anni e di quelli che gli spettavano una volta tornati in libertà. Ben presto sono divenuti parte della mia famiglia, tanto che, spesso, ci riunivamo a casa mia.

J. G. : Come lei, molti militanti della sinistra degli anni settanta hanno abbandonato la politica ed hanno scelto il campo dei diritti dell’uomo come terreno di lotta.
A. B. : La mancanza di prospettive e di risultati credo abbia pesato su molti dei vecchi militanti. Quando dei partiti che si definiscono democratici arrivano a dividersi, per futilità o interessi privati, e a farsi la guerra tra di loro, la strada del cambiamento politico diventa impossibile. Senza contare poi che l’apertura del regime cominciava a farsi sempre più incerta e fragile. Questo pone il problema della cultura democratica che, secondo me, è ancora debole nella classe politica marocchina, anche nella sinistra.

J. G. : Nell’articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire viene riportata una sua affermazione in cui lei si definisce ancora come “un militante della nuova sinistra degli anni settanta”. Può spiegarmi meglio cosa significhi?
A. B. : No, credo ci sia un’imprecisione. Oggi mi considero un militante indipendente. Sono dell’idea che per arrivare al cambiamento in questo paese serva l’impegno e la militanza assidua di tutte le forze realmente democratiche. Comprese le associazioni per i diritti umani. Detto questo, conservo ancora oggi le mie aspirazioni politiche. Non ho rinunciato, in cuor mio, al progetto di quella sinistra, definita radicale, uscita dai movimenti marxisti degli anni settanta. Ancora oggi aspiro all’instaurazione di uno stato dove alla base ci sia il rispetto e la garanzia dei diritti civili, politici, sociali ed economici dei cittadini e, a mio avviso, il solo stato capace di garantire tutto questo resta lo stato socialista. Di certo non quanto visto in Unione sovietica o nei suoi paesi satelliti, dove di fatto non vi era il rispetto dei diritti individuali e in molti casi nemmeno di quelli collettivi. Se devo cercare degli esempi preferisco guardare all’America latina.


La seconda parte dell’intervista si concentra sul ruolo rivestito dall’AMDH all’interno della società marocchina, sui suoi rapporti con il regime e sulle battaglie portate avanti dall’associazione, in particolare quella a sostegno dei detenuti islamici.


J. G. :
L’AMDH è stata creata nel 1979. Quali erano gli obiettivi che portarono alla sua creazione e quali furono le sue prime attività?
A. B. : Negli anni settanta e poi negli anni ottanta la repressione del regime raggiunse il suo apice. Alle sparizioni, agli arresti e alle torture si aggiungevano le violazioni dei diritti di base, quali la libertà di opinione, di riunione, e la violazione dei diritti sindacali come quello allo sciopero. Nei mesi che precedettero la creazione dell’AMDH c’era stata una feroce repressione contro gli insegnanti, ben organizzati a livello sindacale, e contro gli operai delle industrie dei fosfati, arrestati e torturati a centinaia. Questo era il contesto dell’epoca. I militanti politici hanno reagito, in solidarietà alle famiglie e alle vittime di quest’ennesima ondata repressiva, con la creazione di un’associazione finalizzata alla difesa universale dei diritti umani, non più focalizzata solo sul contesto politico. L’AMDH ricevette il riconoscimento legale, ma la sua attività veniva comunque ostacolata dalle autorità. Ricordo che all’inizio lavoravamo nella sede dell’Unione degli scrittori marocchini. Nel paese si erano formate diverse sezioni e si erano subito costituiti dei sottocomitati, incaricati di seguire dei dossier specifici, come l’assistenza ai detenuti o il sostegno ai diritti delle donne. Nonostante le difficoltà l’adesione era forte, molto più di adesso. Oggi nelle sezioni si contano al massimo due o trecento attivisti, anche in quelle di Rabat o di Casablanca, mentre al tempo ogni sezione aveva quasi un migliaio di aderenti. In più c’era una presa di coscienza maggiore; come le ho detto c’era la repressione. Anche solo militare nell’AMDH, significava rischiare il carcere e la tortura. Ma eravamo tutti pronti a pagare questo prezzo.
All’inizio degli anni ottanta stavamo cercando di organizzare il nostro secondo congresso, dopo quello costitutivo, ma le autorità ce l’hanno impedito. Da quel momento, di fatto, le attività dell’associazione sono state vietate e l’AMDH ha potuto riprendere il suo lavoro soltanto nel 1989, quando ha finalmente tenuto il suo secondo congresso. (Da allora l’AMDH ha continuato la sua battaglia, rispettando tutti gli appuntamenti con i congressi nazionali, che si svolgono ogni tre anni. Il prossimo, il nono congresso, è previsto nell’aprile 2010).

J. G. : Cosa significava lavorare nell’AMDH all’epoca di Hassan II e cosa significa lavorarci nell’era di Mohammed VI? Per la difesa dei diritti dell’uomo, rappresentano davvero due epoche differenti?
A. B. : Il cambiamento che ha conosciuto la società marocchina, per quanto debole e insufficiente, è iniziato sotto Hassan II, nei primi anni ’90, quando è avvenuta la liberazione dei prigionieri politici, le prime modifiche al codice di procedura penale e al codice della famiglia. La creazione del CCDH (Consiglio consultivo per i diritti dell’uomo) e il primo governo “di alternanza”, con il socialista Youssufi come Primo ministro, sono i primi frutti tangibili. E tutto questo è avvenuto quando ancora c’era Hassan II sul trono. Era obbligato ad avviare la strada dell’apertura e del cambiamento, come in teoria è obbligato a proseguirla adesso Mohammed VI. Le pressioni delle organizzazioni internazionali, che insistevano sul rispetto dei diritti, sono state determinanti. Le richieste dell’ONU e dell’Europa hanno giocato un ruolo fondamentale. E’ stato questo a fare la differenza, non una semplice successione monarchica. In questo senso credo si possa parlare più di continuità che di cambiamento. Dopo le aperture degli anni novanta, non è stato fatto nessun vero passo in avanti.
Per essere più chiaro le farò alcuni esempi, legati strettamente al lavoro portato avanti dall’AMDH. Prima le “sparizioni” potevano durare degli anni, e in molti casi non si è più saputo niente di compagni finiti nella morsa della repressione. Oggi, le “sparizioni” durano dei mesi, dopo di ché il disparu vede ufficializzata la sua posizione di detenuto. Qual è la conclusione? La pratica degli arresti illegali e delle “sparizioni” forzate esiste ancora. Un altro esempio, la tortura. Mentre prima eravamo noi, i militanti marxisti e i sindacalisti ad essere coinvolti, adesso tocca agli islamisti. Ma la tortura come strumento illegale utilizzato negli interrogatori è ancora là. I processi iniqui lo stesso. Tra i detenuti islamici, tra i salafiti, ci sono centinaia di casi la cui innocenza è più che evidente. La maggior parte di loro non sono affatto dei criminali e la loro colpa è di avere un’idea della religione differente da quella del regime. I prigionieri di opinione ci sono ancora. Dunque, nella sostanza, niente è cambiato.
Quando si parla di diritti umani, poi, bisogna anche comprendere i diritti economici, sociali e culturali, che tuttora non sono garantiti. Mi riferisco al diritto del popolo marocchino all’autodeterminazione. Il diritto a beneficiare di un dibattito politico vero e di una competizione elettorale corretta. A tutt’oggi le elezioni sono falsate dai brogli e dalla compra-vendita dei voti, e il Parlamento è più che altro una mascherata. Se il partito di El Himma, il PAM (Partito dell’autenticità e della modernità), voluto dalla monarchia per assicurare ancora di più il suo controllo sulle istituzioni, è riuscito a diventare il primo partito del Paese, allora niente è realmente cambiato. Con il PAM la monarchia cerca di arrivare allo strapotere del partito unico, come è il caso della Tunisia, dell’Algeria o dell’Egitto. E’ un altro segnale forte, che ci fa capire come il Marocco di Mohammed VI resti più che mai legato alle pratiche di governo a cui eravamo abituati sotto Hassan II. Vale a dire: la monarchia detta la legge e gli altri fanno da contorno.
Se vogliamo fare una valutazione globale, possiamo prendere in esame ancora degli altri esempi, come la stampa. I giornali indipendenti, negli ultimi anni e negli ultimi mesi in particolare, stanno avendo dei gravi problemi con il regime. Se oggi riprendiamo in mano alcuni giornali pubblicati negli anni settanta, possiamo notare come le libertà concesse allora, sotto diversi aspetti, erano maggiori di quelle di cui beneficiano oggi i giornalisti. Al tempo, quando i giornalisti venivano arrestati, era prima di tutto per le loro appartenenza politica, per la loro attività di opposizione. Adesso la repressione si abbatte su questa categoria poiché, nel libero esercizio della loro professione, lo Stato vede una minaccia diretta ai suoi interessi, economici e politici. Non è più la militanza e l’opposizione ad essere temuta, ma la pericolosità generata dalla diffusione di un pensiero libero.
Il regno di Mohammed VI, per tutte queste ragioni, si iscrive nella piena continuità rispetto all’epoca di Hassan II. Una continuità di fondo che si manifesta a volte con altri mezzi e sotto altre forme, ma pur sempre una continuità, chiara e innegabile. In Marocco non è ancora possibile parlare di transizione democratica, abbiamo ancora la stessa costituzione di sempre, quella voluta da Hassan II: una costituzione che sancisce il potere assoluto del sovrano. D’altronde, secondo me, nessuna monarchia potrà mai essere pienamente democratica. In una monarchia viene meno, alla base, l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Quindi, viene apertamente violato l’articolo 1 della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

J. G. : Nel suo lavoro all’AMDH ha parlato di risultati concreti. Quali sono state le vostre vittorie?
A. B. : Se cerchiamo delle “vittorie”, possiamo trovarle nel quadro delle aperture politiche e sociali di cui abbiamo parlato poc’anzi, per esempio. Per quanto restino delle aperture e dei progressi parziali, sono state comunque importanti per il paese. E l’AMDH è stata tra gli attori principali che hanno le hanno rese possibili. Anche la riforma della Moudawwana (il Codice della famiglia), pur voluta dal re, è stata possibile grazie al lavoro e alle pressioni della società civile, tra cui l’AMDH. Lo stesso vale per l’Istanza di Equità e Riconciliazione (IER). Sono iniziative monarchiche, d’accordo, ma se le abbiamo ottenute è stato grazie al lavoro e alla pressione della gente comune che ha iniziato ad organizzarsi. Nel caso dell’IER, il lavoro dell’AMDH, coordinato con quello dell’OMDH e del Forum Verità e Giustizia, è stato evidente. Nel 2001 si era tenuto il “Simposio”, promosso dalle associazioni appena citate, a seguito del quale fu nominato un Comitato incaricato esclusivamente del dossier sulle gravi violazioni dei diritti umani vissute dal Marocco durante l’era di Hassan II. Del Comitato facevamo parte, tra gli altri, sia io sia Driss Benzekri, futuro presidente dell’IER. L’IER è stata una risposta alla nostra mobilitazione e le raccomandazioni contenute nel suo Rapporto finale, se applicate, costituirebbero da sole la base per un vero cambiamento.
Altri buoni risultati li abbiamo ottenuti nel campo dell’immigrazione definita “clandestina”, in quella che noi chiamiamo la battaglia per il diritto alla libera circolazione. Un lavoro di cui si incaricano soprattutto le sezioni situate nel nord del Paese. E poi la liberazione dei prigionieri di Tazmamart e di tutti i detenuti politici all’inizio degli anni novanta.

J. G. : Quali sono i dossier su cui è concentrato attualmente il lavoro dell’AMDH?
A. B. : Tutto quello che riguarda le violazioni dei diritti umani, perché il lavoro da fare è ancora molto. Parallelamente stiamo portando avanti una campagna di sensibilizzazione sul rispetto dei diritti dell’uomo e di educazione alla cultura di tali diritti. Abbiamo concluso varie convenzioni con istituti scolastici, dove teniamo dei seminari periodici. In più abbiamo un accordo di partenariato con il Ministero dell’Educazione nazionale, in vigore dal 2003. Anche l’OMDH e la sezione marocchina di Amnesty International sono impegnate assieme a noi su questo fronte. Grazie all’appoggio di alcuni paese scandinavi, poi, portiamo avanti delle sessioni di formazione all’interno delle università, dirette sia ai professori che agli studenti.
Per quanto riguarda i dossier specifici, posso elencarne alcuni, come quello relativo ai detenuti islamici, quello relativo ai migranti, alla libertà di espressione e quindi alla libertà di stampa. La lista da fare sarebbe ancora una volta troppo lunga e forse non esaustiva.

J. G. : Quali sono attualmente i rapporti tra l’AMDH e il regime? Il vostro lavoro viene ancora ostacolato? In che modo?
A. B. : I rapporti tra l’associazione e il regime non sono più tesi come durante gli anni ottanta. La nostra attività non è pubblicamente ostacolata, del resto le ho fatto l’esempio poc’anzi della convenzione con il Ministero, ma resta ancora oggi una ambiguità e un’incertezza di fondo. I nostri rapporti possono deteriorarsi improvvisamente a seconda delle rivendicazioni o delle denunce che presentiamo. A seconda delle tematiche toccate dalle nostre campagne. E questo dipende anche dalle singole persone, che di volta in volta rappresentano il regime, con cui ci relazioniamo. Per esempio, nel 2007, alcuni militanti dell’AMDH sono stati arrestati e condannati per aver pronunciato degli slogan durante le manifestazioni del 1° maggio. In seguito alla nostra mobilitazione sono stati liberati, ma il regime ha voluto far passare un messaggio. La settimana scorsa, invece, io e la signora Riyadi, presidente dell’AMDH, siamo stati ricevuti da Hafid Benhachem, il responsabile della Delegazione delle carceri, che, interpellato sulle attuali condizioni di detenzione dei prigionieri islamici, ci ha risposto in modo arrogante e minaccioso. “Se non siete d’accordo sulla linea seguita dal Marocco riguardo al rispetto dei diritti umani non vi resta che lasciare questo Paese, che continuate tanto a criticare”, sono le esatte parole che ha pronunciato il Delegato.

J. G. : L’AMDH, assieme a Ennassir, è la sola associazione a battersi perché ai detenuti islamici sia fatta giustizia.
A. B. : Noi non facciamo distinzioni tra i detenuti islamici, chiamati anche detenuti salafiti, e i detenuti comuni. In ogni caso i diritti umani vanno rispettati, qualunque sia il reato imputato al prigioniero. La maggior parte degli attivisti dell’AMDH sono dei militanti di sinistra, vecchi e nuovi, ma questo non ci porta a fare delle differenziazioni. Anche se le idee di chi si trova in carcere attualmente, e per di più ingiustamente, possono non piacerci o non essere condivisibili, noi sosteniamo la battaglia in difesa dei loro diritti. Ripeto, i diritti umani valgono per tutti e in ogni momento.

J. G. : I detenuti islamici sono dei prigionieri politici o dei criminali?
A. B. : Una piccola parte dei detenuti salafiti ha commesso azioni riconosciute criminali dalle leggi in vigore. E ad un crimine corrisponde una pena. Su questo non si discute. Ma anche in questo caso gli imputati hanno diritto ad un equo processo e al rispetto dei loro diritti di essere umani. Cosa che è venuta completamente meno dopo gli attentati del 16 maggio 2003. La maggior parte dei detenuti coinvolti nelle raffiche di arresti seguite agli attentati di Casablanca sono, invece, completamente innocenti. Sono vittime di arresti arbitrari, di violenze fisiche, di processi iniqui e di trattamenti degradanti. Vittime quindi di gravi violazioni dei loro diritti.
Amnesty International ha pubblicato un rapporto completo su questa vicenda, dove vengono descritti i trattamenti riservati ai prigionieri nel centro di detenzione segreta di Temara. Mi correggo, non ai prigionieri, ma ai sospetti, prelevati e condotti fin lì in segreto. Questo centro, attivo dal 2003, è tuttora in funzione. Anche gli ultimi casi di “sparizioni”, i 27 casi denunciati in settembre dall’AMDH, sono passati per Temara, prima di ricomparire misteriosamente nelle prigioni di Salé e di Kenitra.

J. G. : Cosa succede a Temara?
A. B. : Temara è un centro gestito dalla DST. Si trova nella “cintura verde”, la foresta che circonda Rabat, creata negli anni ottanta per assicurare un buon clima alla capitale. In questa struttura transitano le vittime degli arresti illegali, delle “sparizioni”. Qui gli agenti della DST eseguono gli interrogatori. Per estorcere informazioni o per ottenere confessioni di colpevolezza si servono della tortura, sia fisica che psicologica. La permanenza in questo luogo può durare da pochi giorni a dei mesi. Poi la detenzione viene “ufficializzata” e i prigionieri trasferiti in un carcere regolare, in attesa dell’inizio del processo.

J. G. : Quali sono le condizioni di detenzione dei prigionieri islamici?
A. B. : Le condizioni sono gravi, e non solo per i detenuti islamici. Il sovrappopolamento delle celle colpisce indiscriminatamente tutti i detenuti, in tutte le carceri del Paese. Non vengono garantiti gli standard minimi prescritti dalle leggi internazionali. Mediamente i detenuti hanno a loro disposizione uno spazio di un metro quadrato, massimo un metro e mezzo, quando le convenzioni internazionali fissano lo standard minimo a otto metri quadrati per ogni prigioniero. Nella maggior parte dei casi i detenuti islamici non hanno diritto a visite regolari, non beneficiano dell’assistenza medica e, per i malati gravi, è impossibile ottenere il ricovero ospedaliero. Ma queste condizioni lamentabili e vergognose, ripeto, affliggono in generale anche le altre categorie di prigionieri. I salafiti, in più, non beneficiano dei provvedimenti grazia e dei permessi temporanei.

Rabat, 7 dicembre 2009