Abderrahim Mouhtad, un “rivoluzionario più verde che rosso”


Mi inoltro nella lontana periferia di Casablanca, a bordo di un petit taxi, tra il cemento dei palazzi tutti uguali e l’autostrada che conduce a Rabat. Il luogo si chiama Sidi Bernoussi. La strada per arrivare a Mansour extension ha ancora un vago ricordo dell’asfalto con cui fu costruita. Di fronte a quello che un tempo doveva essere un vecchio mercato di quartiere, cinque o sei capre brucano insoddisfatte tra i cespugli e i cumuli di immondizia accatastati a lato delle macerie. Camminando ancora un po’, sotto lo sguardo incuriosito di alcuni ragazzi che giocano a pallone, raggiungo la rue n. 2. Qualche passo e poi mi fermo davanti ad una porta di metallo, a cui è affisso il numero 66. E’ il posto che sto cercando. Qui abita Abderrahim Mouhtad, il presidente dell’associazione Ennassir (“l’aiuto” in arabo), una piccola organizzazione che da qualche anno fornisce assistenza e sostegno ai detenuti islamici. L’appuntamento è per le tre. Sono un po’ in ritardo, quindi suono il campanello senza pensarci troppo su. Ad aprirmi è lo stesso Mouhtad, con la sua solita aria sorridente.
Il settimanale Tel Quel, in una recente intervista, l’ha definito “un vecchio sovversivo”, o meglio ancora “un rivoluzionario più verde che rosso”. Abderrahim Mouhtad ha fatto parte della prima organizzazione islamica militante marocchina e, a quanto ne so, non ama molto parlare del suo passato, dei suoi trascorsi nelle fila della Shabiba Islamiyya (la Gioventù Islamica). Si mormora addirittura che stia scrivendo un libro su questo capitolo di storia ancora oscuro. Ciò nonostante, accetta di rispondere ad alcune domande che esulano dal tema centrale della nostra chiacchierata. Così, prima di addentrarmi nello specifico dell’associazione, cerco di saperne di più sulla vita di questo personaggio incredibile.


Jacopo Granci : Partiamo dall’inizio. Dove comincia la storia di Abderrahim Mouhtad?
Abderrahim Mouhtad : Come lei sa, ero membro della Gioventù Islamica, il movimento fondato da Muti nei primi anni settanta. La mia vita è stata piuttosto “movimentata”. Tenga presente che ho passato dieci anni all’estero. Ho vissuto in Francia, in Spagna, in Italia, in Belgio, in Libia e in Algeria, prima di essere arrestato dalle forze di sicurezza marocchine. Ma partiamo dall’inizio, d’accordo. Mi sono avvicinato al movimento della Shabiba Islamiyya quando ero ancora un ragazzino, all’età di 15 anni. Dopo i primi contatti ho deciso di entrare nell’associazione, nel 1976, dove ho militato durante la fine degli anni settanta. Avevo fatto una scelta precisa anche se, fino alla mia partenza dal Marocco, non ero mai stato troppo coinvolto nelle operazioni. In quegli anni l’organizzazione venne coinvolta in alcuni omicidi di esponenti della sinistra marocchina, il più noto è quello di Omar Benjelloun. Io mi ero unito al gruppo solo in seguito a quell’episodio. All’inizio degli anni ottanta iniziarono i problemi con lo Stato, fino ad allora piuttosto connivente con gli obiettivi e la strategia della Gioventù Islamica. L’associazione, così figurava legalmente la Shabiba, venne vietata dal regime e i membri dell’ala paramilitare, che operava in maniera clandestina, furono costretti a lasciare il Paese per evitare l’arresto. Tra quei membri c’ero anch’io.

J. G. : Qui comincia la fuga, o l’esilio volontario, se preferisce. Che cosa ha fatto una volta lasciato il Paese?
A. M. : Fuga va benissimo. Nel 1980, dopo lo smantellamento della Shabiba ad opera dello Stato, ero ufficialmente ricercato. Mi trovavo di fronte ad una scelta: consegnarmi alle autorità o lasciare il Paese in fretta. Ho falsificato io stesso i miei documenti, con cui ho abbandonato il Marocco per raggiungere la Francia. All’inizio vivevo in condizioni difficili, anzi è più esatto dire che “sopravvivevo”. A volte rubavo qualcosa da mangiare nei supermercati, qualche borsetta alle signore. Dormivo sotto i ponti, insomma era la miseria. Ma i membri della Gioventù Islamica erano ben installati nel territorio europeo. Ben presto mi hanno preso sotto le loro ali, e proprio là, in Francia, ho ricevuto la mia prima vera formazione militare.

J. G. : Dove esattamente?
A. M. : Questo non posso dirglielo.

J. G. : In che cosa consiste un addestramento militare?
A. M. : Prendere familiarità con le armi, imparare ad usarle e passare del tempo in condizioni ambientali ostili. Per essere chiari, quando parlo di armi intendo fucili, mitragliatori, Braunin, Kalashmikof. Tutte le armi leggere che conosce. Finito l’addestramento mi sono spostato in Libia, dove ho perfezionato la mia formazione militare, poi sono tornato in Europa. Ero cresciuto di grado. Mantenevo i contatti tra le differenti cellule installatesi in Belgio, in Francia e in Spagna. E mi occupavo dell’acquisto del “materiale”, per poi farlo entrare clandestinamente in Marocco. Con gli anni sono divenuto io stesso istruttore ed ho diretto dei campi di addestramento in Algeria.

J. G. : Questo negli anni ottanta. Ma la Shabiba non era stata smantellata?
A. M. : L’associazione era stata ufficialmente interdetta dopo il processo per l’omicidio di Omar Benjelloun. Ma l’ala paramilitare della Gioventù Islamica, in quanto clandestina, era riuscita a sopravvivere, grazie al lavoro di collegamento che veniva fatto tra le differenti cellule installatesi all’estero. In più beneficiava dell’appoggio di alcuni paesi dichiaratamente ostili al Marocco, come l’Algeria e la Libia. Gheddafi ci aveva spalancato le porte, ci forniva tutto il sostegno logistico di cui avevamo bisogno. Quando transitavo in Libia avevo a disposizione un intero palazzo e, a volte, viaggiavo persino in limousine. Il nostro compito, in cambio, era di far il possibile per destabilizzare il regime e rovesciare Hassan II. Non ci siamo mai riusciti.

J. G. : Che genere di operazioni avete tentato?
A. M. : Non posso entrare nei dettagli. I nostri obiettivi erano gli alti responsabili del regime, per farle un esempio Driss Basri (ministro dell’Interno, il n. 2 del regime al tempo, nda) o lo stesso Hassan II.

J. G. :
Come finì questa sua esperienza “rivoluzionaria”?
A. M. : Per quel che riguarda l’organizzazione fu un fallimento. Quanto a me, sono stato arrestato nel 1989 all’aeroporto Mohammed V di Casablanca. Ero rientrato in Marocco già diverse volte, con i miei documenti falsi, sia per questioni di “lavoro” sia per rivedere mia moglie. Ma quella volta era diversa…

J. G. :
Che intende per “diversa”? Per quale motivo venne arrestato?
A. M. : Una storia lunga, che andava avanti da dieci anni. Molto più complessa di quello che le ho raccontato. Deve sapere che non ho mai riferito i dettagli della mio passato jihadista nemmeno alla DST. E non me li chiedevano certo in modo gentile come lei sta facendo adesso. Alla polizia e alla stampa dissi che ero rientrato di mia spontanea volontà in Marocco, ma dietro, tra gli altri, c’erano i servizi segreti algerini. Le ricordo che era il 1989, qualcosa stava cambiando…

J. G. : Mi parli della sua esperienza in carcere.
A. M. : Dopo l’arresto sono stato trasferito a Derb Moulay Cherif, dove sono rimasto due mesi, rinchiuso in un buco, ammanettato e bendato. Sono stato torturato e maltrattato, ma ho resistito. In carcere ho avuto i primi contatti con i detenuti politici di sinistra. Nel 1992, nella prigione di Kenitra, abbiamo iniziato a solidarizzare. Ricordo lo sciopero della fame che portammo avanti insieme, detenuti islamici e marxisti uniti. Eravamo vittime delle stesse vessazioni, subivamo gli stessi trattamenti, di conseguenza abbiamo congiunto i nostri sforzi per condurre una battaglia comune. All’interno del carcere eravamo sistemati in blocchi vicini, i gauchistes nel blocco 5 e gli islamisti nel blocco 6, quindi fu ancora più facile coordinarsi.
Ho passato cinque anni in prigione e nel 1994 sono stato graziato dal re.

J. G. : Che cosa ha fatto una volta uscito di prigione? Ha ripreso i vecchi contatti?
A. M. : No, dopo l’uscita di prigione ero braccato dai servizi di sicurezza. In più io stesso ero cambiato. Ho lasciato perdere la militanza armata e non ho nemmeno pensato di dedicarmi alla politica. Certo alcuni vecchi amici li ho risentiti, anzi li sento tuttora. Al di là di tutto restano persone con cui ho trascorso una parte determinante della mia vita. Tuttavia, l’esperienza in carcere mi ha insegnato che l’unico valore assoluto per cui vale la pena lottare è la difesa dei diritti dell’uomo. Per questo mi sono unito al Forum Verità e Giustizia fin dal momento della sua creazione.
Quasi tutti i vecchi militanti di sinistra, una volta usciti dal carcere, hanno dedicato i loro sforzi alla difesa dei diritti dell’uomo, nell’AMDH, nell’OMDH o nel Forum. Io ho fatto lo stesso, perché ho vissuto la medesima esperienza, anche se per un periodo di tempo più breve. Da allora siamo rimasti in stretto contatto. La difesa dei diritti umani è una battaglia universale. Il nostro impegno non è più diretto al sostegno di un’ideologia, ma al rispetto di un bene universale.
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J. G. : Certo è molto curioso il fatto che lei, un vecchio militante della Gioventù Islamica, sia arrivato a lottare fianco a fianco con quelli che una volta erano i suoi nemici. Mi sbaglio?
A. M. : In carcere ho maturato un profondo rispetto per questi militanti che stavano pagando a caro prezzo la fede nei loro ideali. Stavano pagando con le loro stesse vite, dopo anni e anni passati rinchiusi in una cella. Erano ideali che io non condividevo, certo, e che in parte non condivido tuttora. Prima del carcere vedevo in loro dei nemici. Nemici della religione e nemici della società. Dopo la prigione ho imparato a rispettare queste persone. Ho capito che la loro battaglia era diretta al miglioramento delle condizioni della società e del popolo marocchino. Gli stessi obiettivi che mi avevano spinto ad entrare nella Gioventù Islamica. Forse la strada che avevano scelto per arrivare al cambiamento era sbagliata, come del resto quella che avevo scelto io. Forse erano sbagliati i tempi ed i mezzi impiegati. Sta di fatto che oggi, quelli che considero i miei amici, i miei compagni di lotta, sono quasi tutti dei militanti di sinistra, vecchi e nuovi. Il nostro rapporto è basato sulla stima reciproca. Insieme ci battiamo per il rispetto universale dei diritti dell’uomo, di tutti gli uomini, contro ogni genere di violazione.

J. G. :
E’ questo che l’ha spinta alla creazione di Ennassir?
A. M. : Nel 2003, dopo gli attentati di Casablanca, nel Paese è iniziata la “caccia agli islamisti”. Un’ondata di arresti e processi sommari hanno coinvolto centinaia e centinaia di persone, accusate di appartenere a cellule terroriste e di complicità negli eventi del 16 maggio. Le famiglie dei detenuti si sono rivolte a me. Ero un personaggio noto, come vecchio prigioniero islamico e come militante per i diritti dell’uomo all’interno del Forum Giustizia e Verità. In più Sidi Moumen, il villaggio da cui provenivano quasi tutti gli autori degli attentati, si trova a due passi da casa mia, proprio dietro all’autostrada che si vede uscendo dal portone.

J. G. : Già, ma gli autori degli attentati erano morti nel corso dell’azione.
A. M. : La polizia ha arrestato gli amici e i parenti dei kamikaze. Per loro erano tutti colpevoli. Le famiglie di Sidi Moumen hanno vissuto mesi di terrore. Oltre a questo, nella baraccopoli c’era una presenza salafita ben radicata. Ma torniamo alla sua domanda. Nel 2003 ho bussato a tutte le porte per capire che cosa si potesse fare per aiutare i detenuti e le loro famiglie. Nessuno era a conoscenza delle loro condizioni, degli abusi e delle torture che gli erano inflitte. Ho cercato di parlarne all’AMDH, all’OMDH, al Forum stesso, e a  Benzekri, che era alla testa del CCDH (Consiglio consultivo per i diritti umani). Con Benzekri ci ho parlato personalmente. Ma ogni volta ho ricevuto la stessa risposta. “Mouhtad non toccare questo affare, non scherzare con il fuoco, ti brucerai”. Nemmeno davanti alla mia insistenza ho trovato l’appoggio che chiedevo. La mia intenzione non era di fare politica, il mio unico interesse, come militante del Forum, era di sostenere le nuove vittime delle gravi violazioni dei diritti umani. Da militante dei diritti dell’uomo mi sentivo obbligato a dare una mano a questa gente. Islamisti o meno, salafiti o no, non è questo che mi interessa, non sto sostenendo il loro pensiero o la loro ideologia. Quello che mi preme è che anche gli islamisti, in quanto esseri umani, abbiano il diritto di essere trattati come tali. Se un detenuto ha commesso dei reati deve avere diritto ad un processo equo, se è innocente deve essere scarcerato.
Questo era il mio ragionamento, ma come risposta ho ricevuto solo degli inviti a lasciar perdere la questione. Data l’eccezionalità del momento, mi sentivo dire, i salafiti non potevano essere considerati dei detenuti come gli altri. Non potevo accettarlo.
Nel 2004, dopo mesi di vani tentativi, alle famiglie che ancora mi contattavano per ricevere aiuto ho detto: “o lasciamo stare le cose così come sono, nell’illegalità e nell’abuso, senza fare niente, oppure creiamo un’associazione che difenda pubblicamente gli interessi dei detenuti islamici”. Il Marocco sostiene di voler difendere i diritti dell’uomo e noi, con la nostra associazione, ci siamo inseriti in questo margine. Ecco come è nata Ennassir. Era la nostra unica scelta, il solo strumento di lotta che avevamo. Abbiamo presentato una domanda legale per il riconoscimento, ma non abbiamo ottenuto risposta.

J. G. : Quindi non avete ottenuto il riconoscimento ufficiale?
A. M. : La legislazione marocchina, pur in assenza del riconoscimento ufficiale, permette all’associazione di esistere. Ma ogni volta che abbiamo presentato le nostre iniziative ci siamo trovati di fronte all’ostilità e al rifiuto delle autorità. Non abbiamo mai ricevuto uno spazio pubblico per le nostre riunioni, la sede stessa, come lei può constatare, si trova all’interno della mia abitazione. Non abbiamo mai beneficiato di sovvenzioni o di aiuti da parte dello Stato, come è invece il caso delle altre associazioni. Ancora oggi non abbiamo ottenuto la ricevuta finale che attesti la nostra esistenza. Secondo la legge, se dopo 60 giorni dal deposito legale della documentazione, una associazione non ha ottenuto la ricevuta di ritorno del ministero dell’Interno, può esercitare le proprie funzioni. Ed è quello che stiamo facendo. Le autorità tollerano la nostra presenza, ma non vogliono riconoscerci. Questo gli dà il potere di ostacolare le nostre attività e, nel caso volessero, di farci chiudere con il semplice intervento del prefetto. Se invece fossimo in possesso della ricevuta finale di riconoscimento, allora, per far chiudere l’associazione dovrebbero accusarla di qualche infrazione e portarla davanti al giudice. Per farle un esempio banale, mi hanno costretto addirittura a togliere l’insegna dell’associazione che avevo affisso all’entrata.

Una signora anziana avanza a piccoli passi nella saletta dove ci siamo sistemati. Il viso è semi-nascosto dall’hijab, bianco, che le ricade lungo la schiena fin quasi all’altezza dei piedi. Dietro agli occhiali lo sguardo resta assente, velato di profonda tristezza. Mi rivolge un saluto gentile, si siede sul divano e parla con Mouhtad per qualche minuto. Poi, con la stessa discrezione con cui è apparsa, la vedo dileguarsi nel corridoio che porta all’ingresso dell’abitazione.

A. M. :
Era la madre di Rafik Adnan, in carcere dal 2003. A suo carico non c’è alcuna prova concreta, solo una confessione estorta attraverso la tortura. In realtà Rafik sta pagando per le colpe di suo padre. Abdellatif Adnan era uno dei fondatori della Shabiba, assieme a Muti. Finì in prigione a più riprese, nel corso degli anni ottanta e novanta, prima di morire qualche anno fa. Ora il regime si sta rifacendo sul figlio.

J. G. : Di che cosa si occupa di preciso l’associazione?
A. M. : Ennassir è in contatto diretto con le famiglie dei detenuti e con i detenuti stessi. Cerchiamo di fornirgli aiuto e assistenza, raccogliamo le lamentele per il trattamento che subiscono nelle prigioni, riceviamo i loro comunicati e cerchiamo di trasmetterli e di diffonderli alle Ong e ai media, affinché tutti sappiano quello che sta succedendo. L’obiettivo dichiarato nello statuto dell’associazione è di diffondere informazioni corrette e fruibili a tutti coloro che hanno interesse a conoscere la verità sul “dossier islamista” dopo l’11 settembre e dopo il 16 maggio 2003. Facciamo dei sit-in, delle piccole manifestazioni davanti al Ministero della Giustizia, davanti alla sede dell’amministrazione penitenziaria, davanti alle prigioni, dove ci sono i detenuti in sciopero della fame. Cerchiamo poi di organizzare le visite collettive delle famiglie ai detenuti.
Proprio qui, nei locali dell’associazione, abbiamo ricevuto molti rappresentanti delle Ong internazionali che si battono per la difesa dei diritti dell’uomo. Quando i media, anche internazionali, vogliono sapere quello che succede nel Paese ai detenuti salafiti o quale è la situazione delle loro famiglie, si rivolgono alla nostra piccola associazione. Abbiamo ricevuto l’AMDH, Amnesty International, Human Rights Watch, inviati di radio, televisioni e giornali, tra cui recentemente il New York Times. Anche molti ricercatori, sia occidentali che arabi, sono venuti a parlare con noi.
Nel nostro lavoro siamo aperti a tutti, sappiamo bene che quello dei detenuti islamici è un dossier caldo, un dossier gestito, come approccio politico, dagli Stati Uniti. Quello che succede nelle carceri marocchine non riguarda solo il nostro Paese, ma il mondo intero, dal momento che dipende dalla strategia mondiale di lotta al terrorismo avviata dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Quello che accade in Afghanistan, o in Mauritania o in Marocco, in relazione ai movimenti salafiti, viene deciso altrove, in America.

J. G. : Ennassir segue soltanto i detenuti islamici o tratta anche altri dossier?
A. M. : Personalmente sono membro del Forum Giustizia e Verità, in quanto ex-detenuto politico e testimone delle sofferenze che vengono riservate a questo genere di prigionieri nelle carceri marocchine. So quello che significa la prigione, soprattutto in questi casi. Come membro del Forum mi batto per tutte le categorie di detenuti politici e lotto affinché sia fatta luce su tutte le violazioni dei diritti dell’uomo in Marocco. Ma, come fondatore dell’associazione Ennassir, concentro il mio lavoro solamente sul caso dei prigionieri islamici.

J. G. : Qual è l’atteggiamento del regime nei confronti di Ennassir?
A. M. : Fino ad ora siamo riusciti a fare il nostro lavoro, seppur in mezzo a mille difficoltà. Non c’è mai stato uno scontro diretto con le autorità, che avrebbe portato alla chiusura dell’associazione. A volte ci hanno proibito di tenere dei sit-in, hanno interrotto le nostre manifestazioni. A Rabat, di fronte alla Direzione generale delle carceri, la polizia ci ha caricato e disperso in più di un’occasione. Il limite più grave è che non ci permettono di visitare le prigioni per verificare le condizioni dei detenuti.

J. G. : Non avete il permesso di visitare le prigioni?
A. M. : No, dal 2004 ad oggi solo in due occasioni siamo potuti entrare in un carcere per visitare i detenuti e verificare le loro condizioni. La prima volta a Settat, durante uno sciopero della fame, e la seconda volta in un piccolo carcere a 40 chilometri da Casablanca, dove abbiamo parlato con due detenuti in condizioni di salute pessime. La visita si è svolta nell’ufficio del direttore, sotto strettissima sorveglianza. Come membro del Forum Giustizia e Verità avevo avuto modo di entrare altre volte nelle prigioni per visitare i detenuti islamici. Ma dal 2004, dopo la creazione di Ennassir, per lo Stato marocchino sono un istigatore e una minaccia. Cercano di ostacolare il mio lavoro. Come le dicevo, non ci impediscono di esistere, almeno fino ad ora, ma limitano i nostri margini di azione. Non abbiamo neanche il diritto di raccogliere fondi, oltre al sostegno fornito dagli stessi membri. Senza la ricevuta di riconoscimento legale, non possiamo ottenere finanziamenti da elementi esterni all’associazione. Sono i parenti dei detenuti che fanno una colletta ogni mese per raccogliere il denaro sufficiente a pagare la connessione internet, la carta per la stampante, l’inchiostro, gli striscioni delle manifestazioni.

J. G. : Quanti membri conta l’associazione?
A. M. : Siamo in 427. Tra i membri figurano anche i parenti dei detenuti e, in alcuni casi, i detenuti stessi. Ci inviano delle lettere dove sottoscrivono la loro adesione.

J. G. : Qual è il rapporto di Ennassir con la stampa nazionale?
A. M. : Non abbiamo problemi con la stampa marocchina. Siamo aperti e sinceri nella nostra campagna di sostegno ai detenuti islamici e intratteniamo contatti con quasi tutti i giornali. Dal 2004 ad oggi sono stati pubblicati centinaia di articoli su di noi, non solo da Tel Quel o Le Journal Hebdomadaire. Anche Le Soir, L’Opinion, Al Massae e Le Reporter hanno dato spazio alle nostre iniziative. In generale non abbiamo mai avuto problemi, anzi abbiamo sempre mantenuto delle ottime relazioni. Perfino la stampa internazionale ha parlato di Ennassir, come le ho accennato abbiamo ricevuto giornalisti del New York Times non molto tempo fa.

J. G. : Quali sono oggi le condizioni dei detenuti islamici?
A. M. : Le condizioni sono pessime. Giovedì scorso ero a Rabat per parlare con il responsabile regionale della delegazione delle carceri, per convincerlo a fare qualcosa, a migliorare un po’ la situazione, ma non ho ottenuto nessuna risposta. Mi ha detto: “non posso fare niente, sono stato nominato dal re ed è a lui che devono essere dirette le lamentele, io non ho il potere di intervenire”. L’amministrazione penitenziaria prima dipendeva dal Ministero della Giustizia, ora dipende direttamente dal Primo ministro (in pratica dal sovrano).

J. G. : Può farmi degli esempi precisi?
A. M. : Ai detenuti islamici è proibito quasi tutto quello che è normalmente concesso agli altri prigionieri. La situazione può variare a seconda del carcere, ma in generale non hanno il diritto a ricevere visite regolari, non hanno il diritto ad una alimentazione completa, o almeno dignitosa, la libertà di muoversi all’interno della prigione è limitata e difficilmente riescono a proseguire gli studi.
Per farle capire che i detenuti in Marocco non sono tutti uguali e che gli islamisti rivestono un caso particolare, totalmente a parte, le farò un altro esempio. L’ultima grazia reale ha interessato 25 mila prigionieri. Tra questi 25 mila non c’era neanche un detenuto islamico. Dal 2006 vengono sistematicamente esclusi dai provvedimenti di grazia. Il diritto penitenziario è uno solo e, in teoria, dovrebbe garantire leggi uguali per tutti i detenuti. In teoria. Di fatto l’amministrazione penitenziaria fa quello che vuole, senza rendere conto a nessuno.

J. G. :
Chi sono questi detenuti islamici che il regime sembra temere così tanto?
A. M. : Negli archivi dell’associazione abbiamo migliaia di lettere scritte dai prigionieri. Ce le hanno inviate per raccontarci quello che è successo prima dell’arresto, a volte per confessare i crimini commessi, ma nella maggior parte dei casi per proclamare la loro innocenza e per denunciare gli abusi che hanno subito. I sequestri, gli interrogatori, il carcere duro. A mio avviso possiamo suddividere i detenuti islamici presenti oggi nelle prigioni marocchine in tre categorie. La prima comprende tutti coloro che sono stati arrestati a causa delle loro opinioni. E’ il caso di molti imam, che hanno attaccato la politica americana nelle loro prediche. In realtà queste persone non hanno commesso nessuna infrazione, né con le loro azioni, né con le loro parole. Affermare che lo Stato sionista è il primo fra i terroristi e gli assassini è la verità, è un dato di fatto, non è istigazione all’odio. Ma secondo la legge anti-terrorismo, approvata in fretta e furia dopo gli eventi di Casablanca, un simile comportamento può costare fino a trent’anni di carcere. Queste persone sono dei detenuti di opinione, in uno Stato che riconosce la libertà di opinione. La seconda categoria, la più numerosa, riguarda tutti coloro che furono arrestati in seguito a quanto successo il 16 maggio a Casablanca. Senza che ci fossero prove del loro coinvolgimento negli attentati. Sulla base di semplici sospetti, divenuti poi confessioni dopo il passaggio forzato a Temara. La terza categoria infine comprende coloro che furono realmente implicati negli attentati, che presero parte attiva all’esecuzione del piano, ma restano una percentuale minima. Hanno riconosciuto la loro colpevolezza e si sono assunti le responsabilità del caso. Sanno che dovranno pagare le loro azioni con la prigione, ma non per questo meritano un trattamento disumano.
Aspetti, le faccio vedere una cosa…

Mouhtad va a prendere alcune fotografie e dei ritagli di giornale, in arabo e in francese. Poi inizia a mostrarmeli con cura.


A. M. :
Nel 2005 l’amministrazione penitenziaria ha chiuso la prigione di Otita 2. Era un piccolo carcere situato nel mezzo di una foresta, non lontano da Sidi Kacem. Un luogo irraggiungibile a causa delle cattive condizioni della pista sterrata. Le famiglie in possesso dell’autorizzazione per rendere visita ai detenuti dovevano prendere un taxi e spendere 250 DH per arrivare fin lì. Al ritorno stessa cifra. Le condizioni di vita all’interno erano disumane. Ennassir, assieme ad altre associazioni, nazionali ed internazionali, aveva denunciato tutto questo fin dal 2004. Durante uno sciopero della fame, avviato dai detenuti per chiedere il trasferimento in un altro stabilimento penitenziario, c’è stato perfino un morto, che non ha retto alle privazioni. In seguito a questo evento e in seguito alle pressioni delle organizzazioni per i diritti umani, le autorità hanno deciso di chiudere Otita 2. Ma c’è stato bisogno di un morto e della risonanza internazionale fornita dai media per arrivare ad un simile provvedimento.

L’intervista viene interrotta per alcuni minuti da una telefonata.


A. M. :
Erano alcune famiglie che mi hanno chiamato per avere notizie sullo sciopero in corso nella prigione di Oukasha.

J. G. : Cosa sta succedendo all’interno di questo carcere?
A. M. : Oukasha, nelle gravità delle condizioni generali, è forse oggi uno dei casi più duri. Il direttore della prigione è un criminale. Nel 2008, quando era a capo della prigione di Salé, fu al centro di un’inchiesta. Otto Ong (tra cui l’AMDH e l’OMDH), dopo aver visitato il carcere, hanno pubblicato un rapporto in cui il direttore veniva esplicitamente accusato di maltrattamenti e abusi nei confronti dei detenuti. L’unico provvedimento preso dalle autorità è stato cambiargli di prigione, ben inteso conservandogli il posto di direttore. Prima era a Salé ed ora è a Oukasha. I suoi riguardi verso i prigionieri sono gli stessi di un anno fa. Gli scioperi della fame portati avanti dai detenuti nell’ultimo anno ne sono la prova. Quello cominciato una settimana fa non è che l’ultimo di una lunga serie.

J. G. : Mi parli dello sciopero in corso.
A. M. : Lo sciopero è cominciato martedì 24 novembre. Ennassir ha ricevuto subito il comunicato, dove vengono illustrate le ragioni della protesta. Lunedì 23 novembre il direttore ha ordinato una perquisizione nelle celle di tutti i detenuti islamici ed ha provveduto al sequestro dei beni di prima necessità dei prigionieri. Le porte delle celle sono rimaste chiuse, una volta finita la perquisizione, per tutta la giornata di lunedì ed è stato vietato l’ingresso in carcere dei giornali. Il giorno seguente, vedendo che la situazione non migliorava, i prigionieri hanno deciso di iniziare lo sciopero.

J. G. : In base ai vostri dati, qual è il numero attuale dei detenuti islamici in Marocco?
A. M. : La settimana scorsa ho domandato la stessa cosa al delegato regionale delle carceri, ma non mi ha risposto. Ha detto che non era autorizzato a farlo. Nel 2008, tuttavia, un rappresentante del governo aveva ammesso la presenza di ottocento detenuti islamici nelle prigioni marocchine. A questo numero bisogna aggiungere lo smantellamento di altre 5 o 6 reti salafite, avvenuto negli ultimi due anni, per un totale di circa duecento persone. Quindi, secondo le nostre stime, il numero attuale dovrebbe aggirarsi attorno alle mille unità.
Non siamo capaci di calcolare il numero esatto perché gli arresti e le detenzioni maturano spesso nell’illegalità. E in più l’amministrazione carceraria sposta continuamente i detenuti da una prigione all’altra. Oggi, per esempio, sappiamo che nella prigione di Salé ci sono 460 detenuti islamici, altri 150 si trovano a Kenitra, a Tangeri 45, a Agadir una quarantina, ad Oukasha, qui a Casablanca, sono circa una sessantina. Dopo la celebre evasione degli otto detenuti dalla prigione di Kenitra, l’amministrazione delle carceri ha deciso di sparpagliare i prigionieri islamici in tutti i penitenziari del Regno. Ha cercato di disperderli per indebolirli.

J. G. :
Esiste un dialogo, delle trattative in corso, tra il regime e i detenuti?
A. M. : La delegazione delle carceri aveva avviato una sorta di dialogo con alcune figure di riferimento all’interno del gruppo dei detenuti salafiti, che, ci tengo a precisare, rappresenta un insieme per nulla omogeneo. Tuttavia, dopo la dichiarazione del ministro dell’Interno Chakib Bemoussa, rilasciata nel corso di una seduta parlamentare il 20 maggio scorso, ogni trattativa ufficiale si è interrotta. Alcuni deputati del PJD (Partito della Giustizia e dello Sviluppo, di tendenza islamica moderata, nda) avevano chiesto al ministro di risolvere il problema dei detenuti islamici, riprendendo in mano i processi o concedendo dei provvedimenti di grazia. Bemoussa ha risposto che questi detenuti, per beneficiare di una ipotetica grazia, avrebbero dovuto prima di tutto riconoscere le proprie colpe e poi avrebbero dovuto fornire delle garanzie sul loro comportamento una volta usciti dal carcere. Gli islamisti hanno reagito con un comunicato congiunto:  “non siamo disposti a confessare dei reati in realtà mai commessi”. Da allora non ci sono più stati né incontri né colloqui ufficiali.

Casablanca, 30 novembre 2009



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