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A due anni dai fatti di Sidi Ifni


Sidi Ifni è una cittadina del Sud del Marocco, capoluogo della fiera tribù degli Ait Baamrane. E’ stata colonia spagnola dal 1454 al 1969 e ha una tradizione di cattivi rapporti con la casa reale marocchina. Il 7 giugno 2008, ha subito una “punizione collettiva” da parte delle forze di polizia al comando del noto torturatore Hamidou Laanigri, per le proteste e la mobilitazione sociale in atto da diversi mesi contro l’emarginazione e la disoccupazione, che aveva trovato il suo apice nel blocco delle attività portuali.
Così ha raccontato gli eventi Le Journal Hebdomadaire del 14/20 giugno 2008:

Sidi Ifni oggi è una città ferita. Una città finita. Qualche giorno dopo la sommossa del 7 giugno, il capoluogo delle tribù degli Ait Baamrane è una città sinistrata. Tutto in città mostra che essa è stata teatro di una vera e propria guerra. Pietre dappertutto, mura sbrecciate, le porte della case divelte. “Quello che è successo è inammissibile. Lo Stato ha mostrato la stessa faccia mostruosa che aveva durante le manifestazioni sociali degli anni di piombo (quelli della monarchia di Hassan II, ndt)”- commenta Khadjia Ryadi, presidente dell’AMDH. Veniamo ai fatti.
Dal 30 maggio la popolazione locale ha deciso di bloccare l’accesso al porto. Un gruppo di giovani disoccupati impedisce alle decine di camion pieni di sardine di lasciare la città. Le mediazioni dei notabili e del governatore non ottengono alcun risultato. “La decisione dei giovani disoccupati di bloccare l’attività del porto era assolutamente spontanea. Il rifiuto di levare il blocco era ugualmente giustificato. Da anni ci fanno promesse senza rispettarle. Questa volta bisognava andare fino in fondo”, ci confida Mohammed Issam, sindacalista e membro del Segretariato locale di Sidi Ifni, attualmente fuori città per paura di essere interrogato. Dopo oramai quattro anni, il Segretariato che raggruppa i principali attivisti e i disoccupati diplomati della città è diventato il portavoce delle rivendicazioni della popolazione degli Ait Baamrane. Rivendicazioni di carattere puramente sociale. “Questa località è forse la sola del paese in cui la popolazione si è ridotta col passare degli anni. Per partire verso la Spagna, soprattutto verso le Isole Canarie, l’arcipelago che si trova proprio di fronte alla costa. Le nostre richieste non sono mai state soddisfatte. A cominciare dal porto che bisognerebbe ampliare perché un maggior numero di giovani vi possa trovare lavoro. Noi abbiamo bisogno di infrastrutture industriali, per esempio una fabbrica di conserve. Una strada che colleghi Sidi Ifni a Goulimine per spezzare l’isolamento della città e soprattutto creare la prefettura di Sidi Ifni. Non è ragionevole che noi dipendiamo da Tiznit, mentre i nostri legami familiari sono più a sud”, spiega M. Issam.
(…)
Tutta la città è stata presa d’assalto, gli arresti si sono moltiplicati. “Irrompevano nelle case insultandone gli occupanti. Non esitavano a saccheggiarle: prendevano bigiotteria, argenti, telefonini. Tutto quanto aveva valore”, racconta M. Issam.
Si parla anche dello sbarco per nave di centinaia di elementi del pronto intervento che hanno dato una mano a sloggiare i diplomati disoccupati che bloccavano l’ingresso del porto.
Alle cinque del mattino è stato imposto il coprifuoco e sono stati eretti numerosi posti di blocco a più di 30 km da Sidi Ifni. Durante la giornata del 7 giugno, i militari hanno cercato di dissuadere tutti coloro che volevano raggiungere il centro città, dicendo che le strade non erano state messe in sicurezza.
Sidi Ifni vivrà al ritmo degli scontri. Le forze dell’ordine utilizzano manganelli, palle di gomma e candelotti lacrimogeni. Gli abitanti rispondono come possono, soprattutto con il lancio di pietre, fino all’incendio della macchina di un pezzo grosso. Un corteo pacifico fatto soprattutto da donne è violentemente represso. Anche la montagna Bouaalam è teatro di intense scaramucce. “Mentre i militari ricercavano i giovani, altri erano torturati nei posti di polizia, delle ragazze venivano violentate”, racconta un militante che preferisce mantenere l’anonimato. “Abbiamo registrato due casi di stupro documentato e numerosi furti, dei casi di torture di minorenni e bambini davanti ai loro genitori. Sidi Ifni è stato il teatro di una punizione collettiva. Noi domandiamo l’apertura di una inchiesta indipendente perché tutti i responsabili siano giudicati. Prima di tutti il ministro dell’interno, il wali di Agadir ed il governatore di Tiznit”, reclama la presidente dell’AMDH.
L’indomani regnava una calma precaria, ma Sidi Ifni presentava l’aspetto di una città saccheggiata. La città resterà accerchiata diversi giorni dopo il “sabato nero”, come lo chiameranno gli abitanti di Sidi Ifni. Al Jazeera parlerà di morti. Una informazione che non troverà conferme. “Ci sarebbero da uno a cinque morti” aveva dichiarato anche Brahim Sbaalil, presidente della sezione locale del Centre marocain des droits de l’homme (CMDH) di Sidi Ifni. Sia il governo che il primario dell’ospedale locale smentiranno.

Il 14 febbraio 2010 siamo a Sidi Ifni. Riscaldati da un sole precario che interrompe solo per qualche ora il tormento della pioggia. I caffè sono pieni nonostante siano le  11 della mattina, e probabilmente anche questo è un segno della grave disoccupazione che affligge la città. Quello che più ci colpisce è la presenza di un certo numero di turisti (giovani surfisti, ma anche coppie anziane dall’aria inconfondibilmente nordeuropea) e l’esistenza di un discreto numero di strutture alberghiere di buon livello.  Eppure davvero la città è lontana dalle rotte turistiche e non è facilmente raggiungibile.
Cerchiamo di parlare con qualcuno dei protagonisti dei fatti del giugno 2008. Non è difficile, basta chiedere di loro: tutti li conoscono e tutti hanno in un modo o nell’altro partecipato alle manifestazioni di due anni fa.
Il primo appuntamento è per il pomeriggio, in una saletta dell’Hotel Suerte Loca, a pochi passi da una stazione della gendarmeria messa in agitazione dal nostro arrivo. I nostri interlocutori sono Mohamed Essami e Mohamed Salem Ettalibi.
Ci dicono che, fin dal 2005, si era costituito un collettivo, il Secrétariat, composto da varie forze politiche (Sinistra socialista unificata, UISP, PJD, Istiqlal) ed altre associazioni della società civile, con l’obiettivo di combattere l’emarginazione della regione di Sidi Ifni. Ci accorgeremo nel corso degli incontri con i dirigenti della protesta, ma anche nelle chiacchiere scambiate con i cittadini comuni, che il tema dell’emarginazione è costante in tutti i discorsi e che è diffuso un certo senso di nostalgia per il periodo coloniale spagnolo. D’altra parte la città, al tempo degli Spagnoli, era dotata di  infrastrutture da grande città: un aeroporto, una piscina comunale, campi di sport, un teatro, dei cinema e perfino uno zoo. L’annessione al Marocco l’ha ridotta al rango di piccolo centro. Questa corrente di nostalgia si è espressa anche durante la rivolta, tanto che alcuni dei manifestanti si sono spinti fino a chiedere provocatoriamente la cittadinanza spagnola, altri hanno sostenuto l’idea di diventare parte di un Sahara Occidentale indipendente.
I nostri interlocutori sono consapevoli di questo e, soprattutto Mohamed Salem Ettalibi, tiene a precisare che la rivolta non aveva tuttavia obiettivi separatisti, ma solo di sviluppo dell’area, e che tutto quanto si è detto a proposito delle tentazioni indipendentiste è stata solo una invenzione messa in campo per giustificare la repressione.
La piattaforma rivendicativa non conteneva infatti alcuna rivendicazione separatista  e si fondava su alcuni punti precisi:
1)    Istituzione della provincia di Sidi Ifni
2)    La creazione di una regione amministrativa saharaiana
3)    Il completamento dei lavori per l’ampliamento del porto
4)    La realizzazione di una strada costiera per Tan Tan, così da rompere l’isolamento
5)    La creazione di nuovi posti di lavoro
6)    Assistenza sanitaria gratuita
Il 30 maggio 2008 è cominciata una manifestazione spontanea che ha bloccato l’uscita dei mezzi dal porto. Il 7 giugno vi è stata l’aggressione da parte delle forze di polizia. Si è trattato – a detta dei nostri interlocutori – di una “spedizione punitiva”. Non un intervento per disperdere il blocco, ma un’operazione diretta a punire una intera città che aveva osato ribellarsi. Così il poliziotti non si sono limitati a intervenire sui gruppi che manifestavano dinanzi al porto, ma hanno occupato l’intera città, sono entrati nelle case, hanno picchiato donne, vecchi, bambini, hanno distrutto tutto, insultato… Dicevano: Siete figli di Spagnoli, figli di puttana… Hanno  torturato, spogliato le donne e le hanno condotte per la strada nude per umiliarle. Ci sono state centinaia di arresti: le scuole e gli altri edifici pubblici trasformati in centri di detenzione.
Tutto accadeva nel silenzio più totale degli organi di informazione, i manifestanti hanno tentato di diffondere le notizie su internet. E’ in questo clima concitato e di incertezza che si è verificato  l’incidente di Brahim Sbaalil, che ha erroneamente parlato di alcuni morti. La falsa informazione è stata ripresa dal Al Jaazera e Sbaalil, dirigente del Centre marocain des droits de l’homme, è stato per questo condannato a sei mesi di prigione ferma.
Durante la repressione molti giovani si sono rifugiati sulla vicina montagna Bouaalam. Anche Mohamed Essami c’è stato, per una settimana: “La polizia picchiava e arrestava tutti, l’unica era di scappare dove non avrebbe potuto raggiungerci”.
Essami è stato arrestato il 7 luglio 2008 e condotto alla famigerata prigione di Inezgane. C’è rimasto fino al 7 gennaio 2010, colpito da oltre 14 capi di imputazione, tra cui: manifestazione armata, manifestazione illegale, partecipazione a banda criminale, furto e blocco stradale, resistenza a pubblico ufficiale. In prima istanza è stato condannato ad un anno e sei mesi di prigione ferma, il processo di appello è fissato per il 24 marzo dinanzi la Corte d’Appello di Agadir.
Prima di essere incarcerato è stato torturato per 48 ore, senza niente da mangiare. Gli hanno fatto firmare un foglio nel quale dichiarava che la famiglia era stata informata dell’arresto, al processo però si è accorto che quella sua firma compariva  invece in calce ad un lungo verbale di interrogatorio mai reso, nel quale lo avevano fatto confessare la propria colpevolezza in relazione a tutte le accuse.
Essami ci parla del carcere di Inezgane: è terribile, il peggiore del Marocco. Può contenere la massimo 600 persone e ci sono stipati 1200 prigionieri. Si dorme per terra e non c’è posto per tutti, occorre fare manovre complicate per sistemarsi. Sono diffusissime le malattie della pelle, non c’è medico, solo due infermieri, le medicine sono a pagamento. Non c’è distinzione tra giovani, vecchi, primipari, recidivi, minori. Sono frequentissimi gli atti di violenza e gli stupri di minori.
La forte adesione popolare alla protesta ha fatto sì che alle recenti elezioni comunali, quasi tutti i promotori sono risultati eletti. Mohamed Salem Ettabili, per esempio, è attualmente vice presidente del Comune di Sidi Ifni.
La scelta elettorale però non ha convinto tutti, vedremo che un altro leader della rivolta, Brahim Barha, è fortemente contrario. La ragione è quella tradizionale della scelta astensionista in Marocco: gli eletti non contano nulla, non decidono nulla e, dunque, è forte il rischio che partecipare alle elezioni serva solo a legittimare un rito di sola copertura.
Anche i nostri interlocutori sono scontenti: è certo – ci dicono – che la maggioranza degli eletti (20/25) sono del Secrétariat, ma l’unica rivendicazione che sono riusciti a vedere realizzata è stata la costituzione della provincia di Sidi Ifni. Per il resto, niente. Essami è soprattutto scontento del comportamento del presidente del comune, Abdelwahbe Belfkih, un saharawi componente del Corcas (l’organizzazione filo marocchina).

Brahim Barah
A Sidi Ifni l’organizzazione “Attac” è conosciuta come a Bergamo La Lega Nord. Il merito è soprattutto di Brahim Barah, militante appassionato e radicatissimo nel territorio.
Incontriamo Brahim Barah nella sede di Attac, appunto, nel tardo pomeriggio del 14 febbraio 2010.
Vi sono diverse persone, tutte impegnate nella associazione. Oltre a Barah, Kaddad Fatima, Afifi Fares, Moulouda Bouchra, Hassan Agderbi, Elkhalil Rifi.
Ci parlano naturalmente della rivolta, ma la loro lettura degli avvenimenti è più radicale rispetto a quella ascoltata in mattinata. Ci dicono che si è realizzata un’esperienza di democrazia diretta, quando nel momento culminante della protesta il ruolo dirigente del Secrétariat (l’organismo espresso dalle forze politiche e associative) é stato esautorato dall’iniziativa dell’Assemblea degli scioperanti, cui ognuno partecipava a titolo personale e non in quanto rappresentante di forze politiche o associazioni, e che l’Assemblea degli scioperanti ha presto assunto il vero ruolo di direzione politica e di rappresentanza del movimento.
Anche loro ci parlano degli orrori della repressione e molti di loro ne sono stati vittime dirette: Elkhalid Rifi è stato spogliato e picchiato, “come ad Abu Ghraib”, ed anche derubato di 1000 dirham.
Afifi Fares si è invece dovuto gettare in mare per sottrarsi ai poliziotti.
Brahim Barah è stato arrestato il 18 giugno 2008 insieme ad altri militanti di Attac. I poliziotti sono andati a prenderlo a casa, armati di tutto punto, hanno perfino puntato una pistola contro il figlioletto di 4 anni, Rafik.
Poi lo hanno torturato e sottoposto ad interrogatori estenuanti, dalle 15 del giorno 18 fino alle 20 del giorno 20 giugno. “Volevano sapere chi finanziava la protesta e quali rapporti c’erano tra il movimento e il Fronte Polisario, e fin qui li capisco, dal momento che io sono saharawi. Altre domande erano poi francamente bizzarre, come quelle relative ai presunti rapporti tra Attac ed il Partito comunista di Catalogna”.
Dice di essere stato torturato sì, ma niente a che vedere con le bestialità subite da altri, in particolare gli stupri di donne e ragazzi.
Barah ci dice che la scelta di alcuni di presentarsi alle elezioni comunali ha diviso il movimento e che, già solo per questo motivo, è stata sbagliata. Lui era contrario, perché le elezioni in Marocco non servono a niente, il potere è nelle mani di pochi soggetti legati al Potere e le istituzioni rappresentative, specie quelle locali, non hanno alcun potere. Ha criticato inoltre aspramente il nuovo sindaco di Sidi Ifni, Abdelwahbe Belfkih, che considera più o meno come un traditore.

La pesca a Sidi Ifni
Ci hanno chiesto più volte di incontrarli perché volevano parlarci dei problemi della pesca a Sidi Ifni. In realtà non ne sanno molto, anche perché nessuno dei due è del mestiere. Sono Azergui Lahcen – uno dei primi organizzatori dei diplomati disoccupati di Sidi ifni, tiene a dire – e Afifi Fares, un giovane appassionato di Bob Dylan. Li incontriamo il 15 febbraio 2010, alle ore 13.00, nel Café Fatima.
Ci forniscono alcune informazioni di massima, ma quando si cerca di approfondire non sanno dare grandi spiegazioni. La storia è quella nota, della grande ricchezza del mare di Sidi Ifni, ricchezza che viene sfruttata da poche grandi imprese non locali. Che peraltro se ne fregano delle regole, praticano la pesca a strascico e non rispettano le pause biologiche, con ciò mettendo a rischio l’intero patrimonio ittico.
Gli abitanti hanno fatto molte manifestazioni per sollecitare maggiori controlli da parte delle autorità marittime, specialmente sulle tecniche di pesca utilizzate, ma sono rimaste senza esito, enorme essendo il potere delle imprese e della “mafia di Tiznit”. Le manifestazioni sono state anche dirette a sollecitare più posti di lavoro per gli abitanti locali.
Ho l’impressione che, sul punto, la protesta non sia stata capace di elaborare una seria piattaforma rivendicativa, limitandosi ad esprimere un confuso malcontento nel quale la preoccupazione per la salvaguardia del patrimonio ittico si salda con il risentimento per lo sfruttamento delle risorse locali da parte di operatori non locali e alla richiesta pressante di posti di lavoro. Il tutto finendo per ridursi ad una mera richiesta al Governo di interventi assistenziali.
Le richieste di lavoro sono infatti generiche e non si accompagnano, per esempio, ad alcuna seria riflessione sulla possibilità di sperimentare forme di impegno cooperativo, ricorso a microcredito o altro di simile. Di conseguenza, quando il governo ha messo a disposizione degli abitanti locali 150 nuovi permessi di pesca, nessuno ne ha approfittato – ci dicono – perché nessuno era in grado di comprarsi un battello.