TelQuel n. 419



Kelaat Mgouna. L’inferno delle rose


La città delle rose è stata, per quasi 300 desaparecidos, anche il luogo di una tortura senza fine. Ritorno in un bagno penale poco conosciuto, dai guardiani spietati e dalle condizioni degne di un campo di concentramento


Non è la prima volta che Mohamed Nadrani ritorna nel fortino che sovrasta la città di Kelaat Mgouna, a 90 chilometri a est di Ouarzazate. Già nel 2002 ha visitato questo casermone dove ha trascorso gli ultimi quattro anni di sparizione forzata (1980-1984).
Nonostante ciò, in questo giorno di febbraio 2010, vale a dire 30 anni dopo l’inaugurazione della prigione segreta, l’attende una sorpresa. Il guardiano che gli apre la porta altri non è se non uno dei mokhazni (cosi vengono definiti i militari delle Forze Ausiliarie, veri e propri guardiani a difesa del “makhzen”, il sistema di potere della monarchia, ndt) che tanto l’hanno fatto soffrire a suo tempo… e uno dei più crudeli. I detenuti l’avevano soprannominato “Animale” (Ashnit, “ânon” in lingua berbera), per vendicarsi della violenza dei suoi colpi. Dopo la chiusura del bagno penale nel 1991, è stato puramente e semplicemente distaccato dalle Forze Ausiliarie e collocato alle dipendenze dell’Amministrazione locale. E’ lui attualmente il custode di questo luogo della memoria.
Nadrani, se in sua presenza preferisce parlare di lui come di “un guardiano gentile”, si prende malignamente lo sfizio di chiedergli quale detenuto occupava questa o quella cella. “Ashnit” taciturno e a disagio, alla fine si lascia sfuggire:”Erano tempi dolorosi  e brutti”. Bisogna accontentarsi di questa sola espressione di rimorso…
Una volta attraversato il doppio cancello, ci si ritrova in una costruzione militare in pisé e calcestruzzo. Una torre di vedetta e dei camminamenti di ronda sovrastano diversi piccoli cortili, ognuno dei quali conduce a 5 o 8 celle, chiuse da porte di metallo numerate con grandi tratti di pittura gialla. Alle tre “ali” originarie, se ne sono aggiunte due nuove nel 1982 (dotate di impianto elettrico)  e poi altre tre dal 1989 al 1991, subito prima della chiusura. Nella zona più antica, davanti ad una cella su cui spicca un grande numero”1”,  Nadrani si immerge nei cattivi ricordi. “E’ impressionante come tutto sembri piccolo - ci confida - mi riesce difficile credere che queste celle e questi stretti cortili abbiano costituito tutto il mio universo per tanti anni”. In tutto nove anni, trascorsi a chiedersi che cosa succedeva nel resto del mondo, se sua madre fosse ancora viva e se lo credesse morto…

Sparizione forzata a 12 anni
Perfino i “sepolti vivi” di Tazmamart, nel corso del loro calvario senza nome durato dal 1973 al 1991, sono riusciti a far giungere qualche notizia all’esterno, grazie a qualche guardiano corrotto o dotato di un briciolo di umanità.  Hanno perfino potuto ricevere qualche pacco dai familiari. Gli spariti forzati di Agdz e Kelaat Mgouna, invece, non hanno mai potuto avvertire nessuno. I loro cari non avevano alcuna idea di cosa fosse loro accaduto. Solo per aver distribuito degli opuscoli marxisti-leninisti, espresso delle idee indipendentiste, o ancora per avere in famiglia qualcuno che si era unito al Polisario, sono stati cancellati dal mondo da 9 a  16 anni. Una cinquantina di loro, quasi uno su sei, non ne sono usciti vivi.
Se i detenuti di Mgouna non sono mai riusciti a spezzare il muro di silenzio, è perché erano sotto la vigilanza della 32° compagnia delle Forze Ausiliarie Mobili. Questi giovani mokhazni, originari della regione, erano loro stessi sottoposti ad una disciplina di ferro. Ma, soprattutto, avevano chiaro in mente quanto fosse facile passare dall’altra parte della barricata: tra i detenuti c’erano anche tre ex mokhazni, ch’erano stati anch’essi guardie in prigioni segrete. Anche dopo la loro liberazione ed il trasferimento da Agdz a Mgouna, le reclute avevano ben assimilato la lezione.  La stessa  struttura del ksar (agglomerato di abitazioni e servizi, ndt) non favoriva i contatti: la maggior parte dei 48 agenti della compagnia erano allocati sui camminamenti di ronda, al di sopra dei cortili dove affacciavano le celle. “Non si poteva parlare con loro nel modo più assoluto, anche i più umani si sottraevano – ricorda Nadrani – Un giorno uno di loro mi ha gettato un pomodoro (un tesoro per noi), ma quando io ho cercato di ringraziarlo, lui si è voltato dall’altra parte”.
L’altro “tabù” discende dall’origine geografica della grande maggioranza dei desaparecidos. A parte una decina di Marocchini del “Nord”, sono stati in tutto 308 i Saharawi che sono stati a Agdz e poi a Kelaat  Mgouna , a partire dal 1975 e poi a ondate successive fino al 1982. Essi erano presentati alle guardie come dei nemici, ciò che giustificava ai loro occhi ogni sorta di maltrattamento.  Anche le voci che circolavano all’esterno facevano sempre riferimento a combattenti del Polisario. La gente non immaginava nemmeno che le razzie avevano coinvolto famiglie intere, secondo criteri incomprensibili.  “Le domande che venivano fatte durante gli interrogatori erano assai vaghe, del tipo: conosci i nomi degli alti responsabili del Polisario? – ricorda Mohamed Ali El Haissan, rapito a 19 anni – Poi scrivevano arbitrariamente sul dossier: “Polisario”, “mercenario” o “simpatizzante”.
Così venivano prelevati alla rinfusa studenti membri dell’UNEM (Unione degli studenti marocchini, di sinistra, ndt), dei semplici militanti o le mogli dei combattenti del Polisario. Poco importava l’età: sono stati rapiti dei nonagenari e una pastorella di 12 anni nella cui famiglia vi erano militanti del Polisario (El Mamia Bent Salek Ould Abdessamad, 28 anni alla sua liberazione). Tra i più anziani, molti si erano battuti per l’indipendenza del Marocco. Certi “veterani”, morti a Agdz, raccontavano di aver preso d’assalto quella stessa fortezza al  seguito dell’armata di liberazione del sud! Famiglie intere erano spesso deportate insieme, le donne detenute a parte. Una volta la settimana, gli uomini e le donne della stessa famiglia avevano il diritto di incontrarsi. Sui 302 Saharawi, 43 sono morti durante la detenzione (ma solo 2 femmine su 45 detenute). I 265 sopravvissuti dovranno attendere il 1991 per essere liberati, dopo 9 o 16 anni di sparizione forzata.

La visita di Driss Basri
L’altro gruppo di desaparecidos è un gruppetto di cinque militanti “debuttanti”, prelevati il 12 aprile 1976 per avere aderito all’organizzazione marxista-leninista Ilal Amam. Uno di loro, Abdennaceur Bnouhachem (che darà più tardi il suo nome al gruppo) era ancora liceale. Gli altri erano studenti: Mohamed Errahoui, Abderrahmane Kounsi, Moulay Driss Lahrizi e Mohamed Nadrani. Ancora oggi darebbero chissà che cosa per sapere la ragione per la quale, dopo il passaggio al centro di tortura “le Complexe” a Rabat, sono stati trasferiti ai bagni penali del sud, per restarvi nove anni. Logica avrebbe voluto ch’essi , come tutti i loro compagni, fossero giudicati nel grande processo del 1977 e trasferiti in prigione. Ma la repressione non ha niente di logico.
Questi gruppi, provenienti da due mondi diversi, hanno stretto fortissimi legami di amicizia che durano ancora oggi. L’occasione si è avuta nel novembre 1977, con la strana decisione del capo del bagno penale di consentire ai “nuovi venuti” di entrare i rapporto coi Saharawi (“perché vi raccontino come funziona qui”). Le porte di tutte le celle di Agdz sono restate aperte per 17 interi giorni, “Il periodo migliore che abbiamo passato”, secondo Errahoui. “Ci hanno fatto capire che il popolo marocchino e molto gentile”, commenta dal canto suo El Haissan, originario di Tan Tan. I Saharawi hanno insegnato ai “Marocchini” tutti i loro trucchi di sopravvivenza e hanno donato loro anche un po’ di cibo, pur avendone pochissimo. Ma soprattutto c’è stato uno scambio di molte informazioni, storie a perfino canzoni e poemi  (una parte dei quali in hassania – il dialetto arabo usato dai Saharawi, ndt). Poi i contatti sono stati interrotti con la stessa rapidità con cui erano stati consentiti. A parte qualche scambio di lettere (cucite su del tessuto o scritte sulla carta dei sacchi di cemento), i nuovi amici potranno rincontrarsi brevemente solo nel 1982.
Se bisogna riassumere l’inferno particolare di Kelaat Mgouna (e Agdz), si può dire che era fatto di violenza quotidiana, di carestia e freddo intenso. Non l’isolamento individuale come a Tazmamart (con qualche eccezione), ma l’ammassamento per gruppi. Non prigionieri abbandonati alla loro sorte in qualche “segreta”, ma pestaggi brutali che potevano avvenire in qualsiasi momento, con qualsiasi pretesto. Ogni nuovo arrivo di prigionieri era accolto da una doppia fila di Forze ausiliarie sovreccitate che li picchiavano con tutta la forza, puntando al capo e a tutte le zone sensibili. “Peggio che la paura della morte per me, era l’ossessione permanente di essere mutilato, senza possibilità di essere curato”, confida Bnouhachem, che ha sofferto a lungo di turbe dell’equilibrio e del sonno dopo un colpo al capo che gli aveva fatto perdere conoscenza.
A queste torture quotidiane occorre aggiungere i periodi cupi nei quali le guardie punivano ferocemente i detenuti che avevano violato qualche regola. Nel 1979, la scoperta di lettere scambiate Tra Nadrani e un prigioniero in isolamento, “il Libanese”, ivi compreso una piantina del bagno penale, ha portato a vere e proprie sedute di tortura in piena regola. Per l’occasione si è insediata nella prigione una commissione, formata dai responsabili delle Forze Ausiliarie, dal caid (funzionario governativo, ndt), dalla DST (I servizi di informazione, ndt), dalla DGED (Direzione Generale degli studi e della documentazione, ndt) e dal Governatore. Sospettato (a ragione) di aver preparato un piano di evasione, Nadrani è stato condannato all’isolamento. “Il guardiano che mi aveva procurato la matita è venuto a trovarmi anni dopo la nostra liberazione per ringraziarmi di non averlo denunciato – racconta – Mi ha anche informato del fatto che Driss Basri in persona aveva assistito all’interrogatorio”.

Disegnare per sopravvivere
Altro incubo, la fame permanente. La razione alimentare di Kelaat Mgouna, come anche quella di Agdz, era degna di un campo di concentramento. I detenuti venivano serviti dopo i cani, nelle stesse gavette.  Un panino la mattina, qualche legume nell’acqua a mezzogiorno, e un po’ di farinacei la sera. “Una volta un ragazzo ha voluto fabbricare una corona per suo padre con le lenticchie della sua razione – ricorda Mohamed Ali El Haissan – ne ha trovate esattamente 27, invece delle 33 cui aveva diritto!” Qualche volta si gettava loro qualche dattero per bestiame e, nel 1977, un alto responsabile ha disposto  la distribuzione di una mezza scatoletta di sardine a settimana.
Con una simile alimentazione i muscoli si atrofizzano, tutte le funzioni si indeboliscono. E soprattutto il corpo non ha alcuna difesa contro il freddo glaciale della fortezza, costruita a 1500 m di altitudine. “Avevo sempre la curiosa impressione che le notti, fresche anche d’estate, somigliassero in inverno a giganteschi blocchi di ghiaccio nero”, ha scritto Nadrani nel suo libro”La Capitale delle Rose” (di cui Kounsi è coautore). I detenuti dormivano a terra con due coperte logore, alla mercé di tutti i parassiti che brulicavano nelle celle in terra battuta. Gli scorpioni e i serpenti non costituivano il pericolo principale: “Uno dei nostri, El Moumen Ould Hmednah, è morto divorato dai pidocchi”, ricorda El Haissan. Perché l’altra grande preoccupazione era la mancanza di igiene. “Al nostro arrivo, i guardiani ci hanno dato da bere in bidoni dove altri detenuti ammalati di tubercolosi avevano fatto i loro bisogni”, racconta Errahoui. Con un solo rudimentale gabinetto per cortile, posto all’esterno delle celle, era sempre necessario che un guardiano venisse ad aprire, oppure usare dei bidoni sotto gli occhi di tutti.
Al di là dell’estremo disagio fisico, era anche essenziale, per sopravvivere, ammazzare il tempo attivando il proprio spirito. E’ in situazioni come queste che essere in gruppo può salvare la vita. “Ognuno ha cominciato a insegnare agli altri le materie che meglio conosceva, per esempio Lahrizi teneva dei corsi di scienze – spiega Bnouhachem – Nadrani ci insegnava il rifain (dialetto berbero, ndt) e ci raccontava tutti i film che aveva visto, ma ogni volta in modo differente!” Gli studenti tenevano corsi per i compagni analfabeti, tracciando lettere su della sabbia conservata nella stoffa. Ognuno spulciava nella sua vita per raccontare ogni ricordo, che finiva per diventare quello di tutti. “Dopo qualche anno, era sufficiente che uno aprisse la bocca per sapere quello che gli altri avrebbero detto – ricorda divertito Errahoui – ma verso la fine non avevamo più l’energia per fare tutto questo”.  Quanto a Nadrani, è stato grazie al disegno che riuscirà a resistere ad un isolamento di 22 mesi (in seguito è diventato caricaturista e disegnatore). Fabbricando una specie di pennello con dei fili dei suoi pantaloni e una canna, sacrificava la metà del suo surrogato di caffè mattutino per disegnare tutto il giorno sul pavimento in cemento.

Frammenti di informazione alla radio

Isolati com’erano, i desaparecidos di Kelaat Mgouna hanno trascorso tutti quegli anni alla ricerca di ogni minima informazione che potesse fornire loro dei chiarimenti su quanto era loro accaduto. A cominciare dal luogo di detenzione. Ad Agdz, verso l’inizio, un mokhazni aveva nelle mani una lista sulla quale si poteva leggere il nome del bagno penale. Ma a Mgouna i detenuti sono rimasti per lungo tempo senza sapere nemmeno dove si trovavano. “Io avevo visto un’ ape decorare il suo nido con pezzettini di petali di rosa – ricorda Nadrani – Ma siccome il Festival delle Rose della città all’epoca era poco conosciuto, non sono riuscito a fare un collegamento”. Solo dopo due anni (nel 1982) una parte del gruppo Bnouchachem  è stato trasferito in una cella contigua alla stanza dei guardiani. Così li hanno sentiti pronunciare spesso il nome di Kelaat Mgouna e hanno supposto che fosse il luogo di detenzione. L’altra sfida era quella di tenersi informati su quello che succedeva nel mondo (e nel Marocco). Il primo anno i Saharawi hanno fornito loro molte informazioni. Come a proposito di una visita di Hafid Benhachem (l’attuale dirigente dell’amministrazione penitenziaria), che conferma la voce che fosse lui il responsabile delle prigioni segrete del sud. Nel 1982, il gruppo di Ilal Amam è riuscito a comunicare con dei giovani Saharawi sequestrati da poco, preziosa fonte di informazione sugli ultimi cinque anni. Per parlare attraverso il muro di 80 cm di spessore, bisognava utilizzare un bicchiere e infilarsi sotto delle coperte. Il freddo dell’inverno segnerà la fine di queste comunicazioni diventate troppo faticose. Qualche volta il gruppo riusciva a captare frammenti di informazioni alla radio, malgrado la diffidenza delle guardie che cambiavano la frequenza ogni qual volta non trasmetteva solo musica. E’ stato così che il summit di Nairobi del 1982, con al centro la questione dell’autodeterminazione del Sahara, diede loro la speranza che i Saharawi sarebbero stati presto liberati, e loro con essi.
All’esterno, se restava intatto il mistero sull’identità degli occupanti, gli abitanti avevano capito bene col tempo che non si trattava di una prigione come tutte le altre, perché alcuni guardiani si vantavano di picchiare i detenuti.  “Si raccontavano cose terribili, per esempio che una donna e suo marito vi erano rinchiusi entrambi senza saperlo”, racconta Lahcen Azghani, dell’Espace associatif de développement de Kelaat Mgouna. Il giovane Lahcen amava giocare intorno al fortino insieme ai suoi amici fino ai 13 anni, fin quando la zona non venne interdetta nel 1980: “Vi regnava un’atmosfera di terrore, perché bastava che qualcuno si avvicinasse alla collina a piedi, in bicicletta o in macchina, che le Forze Ausiliarie lo riempivano  di botte, senza una parola!” Col tempo tuttavia, senza che si sappia come, l’opinione della gente è lentamente cambiata. All’inizio si parlava di “nemici della patria”, poi di “nemici del Palazzo”, e infine di “gente che fa politica”. “E’ stato solo nel 1986, quando ero studente, che ho saputo esattamente di cosa si trattava, attraverso gli studenti di sinistra che erano in contatto con Christine Serfaty – spiega Azghani – C’era perfino una piantina del bagno penale che circolava sottobanco. Ma era tale la paura che io non potevo nemmeno parlarne nel villaggio”.
Queste informazioni e questa piantina erano filtrati attraverso i cinque del gruppo di Ilal Amam, liberati finalmente nel 1984. Erano loro in quel momento gli unici testimoni della lenta agonia del 278 Saharawi ancora viventi,  che contavano su di loro per informare l’opinione pubblica. Ma siamo nel 1984 e il “Grande Fratello” sorvegliava assiduamente gli ex studenti che tentavano faticosamente di ricostruirsi una vita. Altra difficoltà, l’argomento di Mgouna faceva paura alla maggior parte delle personalità e delle associazioni, anche di sinistra, perché era un po’ troppo questione di Saharawi per i loro gusti… Ci sono stati dei giornalisti che li hanno rimproverati di fare propaganda per il Fronte Polisario. “Mi sono recato una volta da un celebre parlamentare di sinistra e gli ho raccontato tutto per tre ore – dice Nadrani – Poi ho capito che non aspettava altro se non che me ne andassi!”

Le lacrime delle madri saharawi
Quando era possibile, i cinque ex desaparecidos affidavano delle lettere anonime a dei contatti che le portavano in Francia, veri e propri messaggi nella bottiglia. Poi hanno conosciuto Christine Serfaty e hanno contribuito a riempire di contenuti il libro “Notre ami le roi” di Gilles Perrault. Come si sa, è stato questo libro (pubblicato nel 1990) che ha finalmente provocato la liberazione di molti sequestrati. Passando gradualmente attraverso un miglioramento delle condizioni di detenzione negli ultimi anni, il turno dei Saharawi di Mgouna verrà il 21 giugno 1991. Disgraziatamente, solo negli ultimi cinque anni, 13 di loro sono morti, sfiniti dall’interminabile calvario. L’ultimo martire, Yahya Eddahi Ben Mohamed Ennajem, è morto il 23 febbraio 1990. Altri desaparecidos non saranno mai liberati, alcuni perché la loro nazionalità metteva in grave imbarazzo le autorità. Per esempio non si sa quale sia stata la sorte di un misterioso Libico (Mohamed Albahloul Ali Ben Omar) che le autorità hanno dichiarato di aver liberato. Quanto al famoso Marocco-Libanese che aveva denunciato Nadrani per il progetto di evasione da Agdz del 1979, alias Abou Fadi, si chiamava in realtà Mhamed Ahmed El Marrakchi. Nel 1991, invece di essere liberato come gli altri, venne condotto al posto di blocco Al Mansour Addahbi, dove morì in circostanze sospette. Ancora oggi non si sa perché sia stato tenuto sequestrato per almeno 16 anni! Molte altre domande non hanno mai trovato risposta perché tutti i documenti concernenti i bagni di Kelaat Mgouna e di Agdz sembrano essere spariti dagli uffici. Nel 1993, intervistato da Anne Sinclar su TF1, Hassan II può ancora tranquillamente rispondere: “No signora, Kelaat Mgouna è la capitale delle rose…”
Fino ad oggi la terribile storia di questi due bagni penali è stata oggetto di minore attenzione di quella di Tazmamart, per esempio. Secondo gli ex desaparecidos, non v’è alcun dubbio che ciò sia dovuto ad un “effetto Polisario”. Peggio ancora, i Saharawi si sono sentiti discriminati anche nel processo di risarcimento e di reintegrazione sociale della Istance équité et réconciliation. “I sequestrati di Tazmamart hanno ottenuto 3 milioni di dirham per 20 anni e noi 1,5 per 16 anni – precisa Mohamed Ali El Haissan – Per quanto riguarda il piccolo indennizzo familiare concesso a tutte le madri dei sequestrati, nessuno dei nostri l’ha ricevuto, a differenza di quanto è accaduto per il gruppo Bnouhachem”. Legittima la domanda:”Le lacrime delle madri saharawi non valgono nemmeno un dirham?”
 Il gruppo Bnouhachem ha già presentato al CCDH (Conseil Consultatif de droits de l’homme – organismo governativo, ndt), insieme ai loro amici saharawi, un progetto assai dettagliato di trasformazione di Agdz in un centro della memoria sulle sparizioni forzate, con una vocazione internazionale. Ma non si vede ancora niente di concreto all’orizzonte. Ad ogni visita trovano sempre più segni di degrado nei due agglomerati e nei cimiteri attigui, soprattutto ad Agdz dove vi sono delle tombe molto rovinate. Quanto a Mgouna , per la quale il CCDH non ha preso in considerazione alcuna ipotesi di riabilitazione, essi giurano: “Non lasceremo perdere!”




Testimonianza. Dei mokhazni al bagno penale
Il gruppo dei dieci prigionieri”marocchini” (vale a dire non saharawi, nel gergo dei guardiani) costituiva un buffo miscuglio. I cinque giovani di sinistra del “gruppo Bnouhachem” hanno diviso le loro giornate, e stretto amicizia, con altri cinque sequestrati. Si trattava di Lahbib Ballouk, un commerciante arrestato a seguito degli avvenimento del 1973 e liberato insieme agli studenti; Miloud El Abdellaoui, un contadino di Oujda arrestato nel 1976 per ragioni sconosciute, mai liberato e morto a Kelaat Mgouna nel 1986; e… tre agenti delle Forze Ausiliarie. Questi mokhazni erano caduti in disgrazia nel 1976, mentre erano guardiani di altri sequestrati: i membri della famiglia Oufkir (la famiglia del generale Mohamed Oufkir, protagonista di un tentato attentato contro la vita di Hassan II nel 1972. In seguito al fallimento, il generale si è ucciso e tutta la sua famiglia è stata sequestrata in prigioni segrete per quasi venti anni, ndt). L’unico sopravvissuto, Ahmed Hammichi (all’epoca brigadiere), per la prima volta rilascia una dichiarazione: “ Assegnati a Rabat, siamo stati incaricati della sorveglianza degli Oufkir ad Assa, poi alla fortezza di Tamdaght (a 35 km da Ouarzazate), insieme ad altri poliziotti. Laggiù la famiglia era trattata piuttosto bene. Tutti sapevano che gli Oufkir ricevevano e inviavano lettere e pacchi grazie alla complicità di qualcuno.  Personalmente, i miei contatti con loro si limitavano ad aprire le porte per consegnare loro viveri e acqua. Nell’autunno del 1976 siamo stati cambiati di incarico: avevano cambiato il corpo di guardia dopo aver saputo che gli Oufkir ricevevano lettere dai familiari. Due mesi più tardi, nel dicembre 1976, sono stato arrestato insieme ad altri due agenti nella caserma di Rabat, dove siamo stati a lungo sottoposti a tortura. Uno dei miei compagni è evaso, ma è stato riacciuffato e atrocemente torturato. Poi siamo stati mandati a Le Complexe di Rabat per circa sei mesi. Il 5 agosto 1977, contemporaneamente agli studenti,  ci hanno trasferito ad Agdz. Le Forze Ausiliarie si accanivano contro di noi, perché dicevano che avevamo disonorato l’uniforme. Ma nel gennaio 1979 siamo stati liberati e reintegrati in servizio! Io ero nauseato da questo mestiere, ma non avevo alternativa. Dopo ci hanno accordato l’equivalente di sei anni di salario, oltre ad un mese di congedo per ristabilirci, quindi abbiamo ripreso il servizio fino alla pensione. Ma io sono rimasto segato dai questi due anni d’inferno e disgustato dalla violenza”.

Parentesi. Il misterioso trasferimento a Skoura
Dal 5 al 15 aprile 1982, tutti i detenuti di Kelaat Mgouna furono trasferiti a Skoura, a 45 km di distanza. Furono alloggiati nel ksar Ait Chair, una ex casa governativa del periodo del pascià Glaoui, apparentemente adattata a scuola. L’occasione, dopo sei anni di sequestro, per sentire l’odore degli aranci in fiore e per comunicare di nuovo con gli altri gruppi. Così quelli di Ilal Amam hanno potuto avere notizie dei Saharawi, da cui erano separati fin dal periodo di Agdz. Si sono a lungo interrogati sul motivo di questo trasferimento, e alla fine hanno appreso che si era trattato di una precauzione legata alla visita di Hassan II nella regione. Un guardiano ha recentemente testimoniato che la prigione era stata passata al setaccio durante la loro assenza, per nascondere ogni traccia della presenza di detenuti in caso di sorvolo di elicotteri.

Agdz. L’anticamera di Kelaat Mgouna
Nella città di Agdz (a 70 km da Ouarzazate), sul ciglio di un palmeto, si leva una bella fortezza in pisé e rami di palma, circondata da diversi bastioni. Il luogo ha da molto tempo una sinistra reputazione. Oltre al fatto che è stato costruito dal pascià Galoui avvalendosi dei lavori forzati nel 1946, il casermone è stato già utilizzato come centro di detenzione durante il Protettorato. A partire dal 1975, il terrore che suscita raggiunge il parossismo: viene vietato agli abitanti del luogo di avvicinarsi alla fortezza e addirittura di uscire da casa loro dopo le ore 20. Dal gennaio 1976 la bella architettura tradizionale del  ksar viene utilizzata per sistemarvi i detenuti nelle altissime stanze (per la maggior parte ex granai) sistemate intorno a tre piccoli cortili. I primi “inquilini” sono i sopravvissuti di un gruppo venuto dal bagno penale di Tagounit: dei militanti dell’UNFP (Union Nationale des forces populaires, di ispirazione socialista – ndt) arrestati dopo i fatti di Moulay Bouazza (1973). Cinque di essi muoiono quasi subito (tra essi una ragazza, Fadma Ou Harfou), mentre gli altri saranno rilasciati il 7 agosto 1977. Ma è soprattutto per i primi deportati saharawi arrivati nel luglio 1976 che Agdz diventa l’anticamera della morte. Alcuni furono ammassati in 60 nella “caverna”, una stanza senza luce. Malnutriti e quotidianamente pestati, in 27 non riusciranno a sopravvivere. Camminando lungo il cimitero attiguo al bagno penale, con le sue pietre tombali ricostruite dalla commissione dello IER (Instance équité et réconciliation) si può notare che nel solo 1976 sono morte 15 persone, vale a dire nel corso dei primi cinque anni di detenzione. “La maggior parte è morta per quella che noi chiamiamo la malattia delle ginocchia – testimonia Mohamed Ali El Haissan, sopravvissuto a 16 anni di sparizione forzata – Si cominciava con delle macchie nere sulle caviglie e la pelle diventava dura. Quando  il fenomeno raggiungeva le ginocchia, cominciava la febbre e la diarrea e si moriva in un giorno” Si può sospettare una carenza nutrizionale perché fu sufficiente aggiungere qualche dattero al regime alimentare per arrestare l’ecatombe. Ultima crudeltà dei mokhazni, un sudario era appeso in permanenza ad una finestra, e le guardie amavano ricordare che l’unico modo per uscire era di esserne avvolti. Ma nel 1980 il calvario dei detenuti cambia scenario, probabilmente a seguito di uno scambio di corrispondenza tra detenuti nel luglio 1979: le autorità avevano (a torto) sospettato che avessero potuto comunicare con l’esterno.   Fatto sta che il 23 ottobre 1980 tutti i sopravvissuti vennero trasferiti a Kelaat Mgouna. Successivamente Agdz venne utilizzata solo come centro di smistamento verso Mgouna, fino a circa il 1982.



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