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TelQuel n. 422


Gli insorti del Kif

Editoriale di Ahmed R. Benchemsi

Di fronte a migliaia di coltivatori di cannabis arrabbiati, anche l’esercito non ha potuto fare niente

E’ un’anteprima. L’11 aprile, da 5 a 10.000 coltivatori di cannabis (secondo le stime) si sono spontaneamente radunati nella strada principale del piccolo villaggio berbero di Bab Berred, non lontano da Ketama. Il giorno prima, dei gendarmi  avevano perquisito l’abitazione di uno di loro, alla ricerca di semi di hashish. Con un gesto di inedita provocazione, il contadino e la sua famiglia s’erano opposti alla perquisizione. Immediatamente centinaia di abitanti del villaggio, con aria minacciosa, hanno dato man forte al vicino circondando i gendarmi – che hanno prudentemente battuto in ritirata. Il giorno dopo la notizia aveva fatto il giro della regione e migliaia di coltivatori sono scesi dalle montagne e si sono ritrovati a Bab Berred. Quando hanno visto che erano tanti, gli insorti hanno cominciato una marcia di protesta. Accorsi dal vicino comune di Chaouen, diverse squadre di gendarmi e militari non sono riusciti a disperdere i manifestanti, nemmeno   sparando colpi in aria. Alla fine i soldati si sono ritirati, con grande soddisfazione dei montanari, che si dicono pronti a marciare ancora, e anche a “battersi” se necessario.
L’ultima massiccia ribellione della regione risale al 1995. In quell’anno gli appartenenti alla locale tribù dei Beni Mestara, donne e bambini in prima linea, si erano sparpagliati nei campi di cannabis per impedire ai gendarmi di darvi fuoco. In seguito lo Stato si è meglio organizzato. A partire dal 2005, i gendarmi e i militari hanno messo a punto una strategia che prevede dapprima che le zone prese di mira siano accuratamente circondate, quindi evacuate, prima di dare fuoco alle piantagioni di cannabis (o kif). Una soluzione più efficace che ha permesso di ridurre drasticamente le superfici coltivate, passate dai 130.000 ettari del 2003 a 60.000 nel 2008, secondo un recente rapporto dell’ONU. E attualmente l’impegno non solo prosegue, ma si intensifica.
Gli insorti di Bab Berred, per quanto uniti, non avevano parole d’ordine definite, né chiare rivendicazioni. L’unico slogan scandito dai manifestanti era: “E’ una vergogna, il makhzen entra nelle case”. Si tratta delle perquisizioni, che sono perfettamente lecite quando le autorità sospettino che i proprietari vi nascondino dei prodotti illeciti – nel caso di specie, dei sacchi di semi di hashish pronti per essere seminati perché la stagione è quella giusta. La marcia di Bab Berred aveva quindi qualche cosa di disperato. I contadini sanno bene che la coltura della cannabis è vietata. Ma cos’hanno d’altro? Le colture alternative (olive, mandorle) che le Autorità li spingono ad adottare? Occorreranno molti anni prima di ottenere i primi profitti al netto dell’investimento. E saranno comunque inferiori a quelli che garantisce il kif. Uno studio ufficiale ha dimostrato, agli inizi degli anni 2000, che un ettaro ad olive rende 3000 dirham per anno ed un ettaro di mandorle 1500… contro la somma da 26 a 52000 dirham per un ettaro di kif – che è appena sufficiente per i contadini per mangiare e vestirsi appena in modo conveniente.
Parallelamente alla riduzione della superficie coltivata a kif, il Rif vive dunque da cinque anni un processo di impoverimento accelerato. Quanto alle infrastrutture di base (scuole, ospedali, strade), mancano sempre drammaticamente in tutta la regione. Il porto di Tangeri Med, così come Tangeri Free zone, hanno certamente consentito di creare dei posti di lavoro – ma molti di meno di quanto servirebbero, e in ogni caso si tratta di lavori spesso qualificati ai quali i montanari non hanno possibilità di accesso. E allora è l’impasse.  La legalizzazione della cannabis, lo Stato non vuole sentirne parlare per scelta ideologica. Ma non offre niente di serio, di credibile, o di convincente in cambio. Solo la forza bruta, quando si tratta di bruciare i campi o di confiscare degli stock di semi. Bisognerà che vi siano delle sollevazioni popolari, delle sommosse, dei morti, perché lo Stato capisca finalmente che la repressione, da sola, non può sostituirsi alla politica? Speriamo di no. E incrociamo le dita…