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Marochebdo n. 903 (dal 15 al 21 ottobre 2010)


Il rompicapo saharawi

di Mustapha Sehimi

Conflitto - Chi sono quelli che propagandano le idee separatiste in Sahara e con quali mezzi, e come i poteri pubblici li contrastano


Dopo una riunione coi suoi consiglieri, alla fine degli anni 1960, il fu S.M. Hassan II aveva fatto questa previsione: "La causa del Sahara resterà aperta per venti o trent’anni, bisogna prepararsi..." Più di tre decenni dopo, bisogna constatare che questo dossier è sempre al primo posto della vita politica nazionale. Vale a dire che è strutturale - come si dice oggi - e che come tale definisce praticamente l'articolazione e perfino la fisiologia della dialettica nazionale, sia all'interno che all'estero.
Bisogna ricordare, per cominciare, che dal 1974-75, la questione del Sahara ha avuto un peso preponderante, provocando diverse conseguenze.
Una è stata l'avvio del processo di democratizzazione, che ha posto fine allo stato di emergenza imposto dopo le rivolte del 1971 e del 1972 e in conseguenza degli intrighi sovversivi della primavera del 1973 da parte del settore radicale dell'ex UNFP, tendenza Fqih Basri, aiutato e sostenuto dall'Algeria. In effetti, per mobilitare le forze vive della Nazione, bisognava permettere loro di operare alla luce del sole, di qui la soppressione di ogni misura restrittiva nei loro confronti. D'altronde il loro concorso era necessario dal momento che si trattava delle eredi - in un modo o nell'altro - del Movimento nazionale che era stato in prima linea nella lotta per l'indipendenza sotto l'egida del defunto re S.M. Mohammed V.
Il Sahara infatti non era forse la prosecuzione del processo di decolonizzazione, attraverso la riconquista della sovranità, della indipendenza e dell'unità territoriale del regno? La Monarchia nello stesso tempo elargiva il proprio sostegno a questi partiti, ma più ancora restaurava la propria legittimità popolare con la storica Marcia Verde del 6 novembre 1975.

Approccio securitario
In linea generale, comunque, l'approccio dominante restava quello legato alla sicurezza. Prima di tutto perché la stabilità politica e l'integrazione delle opposizioni  - soprattutto dell'USFP - non erano così sicure e continuavano a manifestarsi forze contrarie a questo processo, poi perché il compianto Hassan II, piuttosto incline a un potere senza condivisioni, intendeva mantenere sotto il suo personale controllo questo dossier - se infatti teneva al sostegno dei partiti nati dal Movimento nazionale, non aveva peraltro alcuna intenzione di associarli su di un piano di parità al processo decisionale, né alle strategie di azione sul piano internazionale. E c'è voluto del tempo perché il consenso nazionale esistente intorno al tema della marocchinità delle province meridionali si traducesse in un eguale consenso verso l'approccio e la gestione diplomatica del dossier, come dimostrato dalla forte contrarietà manifestata dalla direzione dell'USFP, guidato da Abderrahim Bouabid, contro il principio del referendum che era stato approvato nel giugno 1981 a Nairobi.
La democratizzazione non poteva, in un simile contesto, che essere inquadrata e anche delimitata, di qui la previsione di elezioni regolate secondo “quote” negoziate o accordate, giacché la priorità era quella della causa nazionale, relegando solo in seconda posizione la piena espressione del pluralismo democratico. Se questa era la linea, non poteva che estendersi il campo di attribuzioni del ministero dell’interno, in quanto responsabile della gestione tanto della politica che del Sahara – un accoppiamento di stampo autoritario e securitario diventato praticamente la faccia dominante della vita nazionale.

Progetto democratico
Col nuovo Regno, lo stato delle cose presentava dunque all’inizio un quadro impegnativo e preoccupante. Fermo fautore di un progetto democratico, S.M. Mohammed VI intendeva venir fuori da questo circolo chiuso, considerato inoltre controproducente. Fin dal settembre 1999, il nuovo Sovrano si è trovato di fronte a manifestazioni a carattere sociale: 24 giovani Saharawi sono stati arrestati e 14 di loro condannati a pene che andavano da 1 mese a 15 anni di prigione. Bisognava chiudere gli occhi e astenersi dal reprimere, come hanno sostenuto le anime belle benpensanti che invocato il pieno esercizio delle libertà? In ogni caso il potentissimo ministro dell’interno Driss Basri venne silurato qualche settimana dopo, il 9 novembre 1999, una decisione che ha ben dimostrato che si era voltato pagina nel senso di una “rottura” con una certa forma della politica e che voleva segnalare la nascita di un “nuovo concetto di autorità”.
I dieci anni successivi sono stati segnati da una lunga serie di agitazioni: esse sono diventate una componente a pieno titolo della politica nazionale nelle province saharaiane. Il 17 novembre 2001 scoppia una nuova situazione di crisi davanti alla sede della wilaya di Smara: 27 manifestanti sono feriti, una sessantina di persone vengono arrestate e 14 di esse processate e condannate a pene che vanno dai sei mesi ai due anni di prigione. Le parole d’ordine con le quali il sit-in è cominciato riguardavano i temi del lavoro e dei trasporti, ma la manifestazione è degenerata presto in saccheggio…

Agitatori separatisti
Dal 21 al 25 maggio 2005 si registra un altro sit-in che degenera. Esso aveva preso spunto dal trasferimento di un certo Waddi Hamed Mahmoud Ben Mohamed Ben Ali dalla prigione di Laayoune a quella di Ait Melloul, nei dintorni di Agadir. Era stato arrestato come un delinquente di diritto comune per ubriachezza in pubblico, trasporto e traffico di droga ed ecco che viene presentato dagli agitatori separatisti come un “militante indipendentista Saharawi”. I suoi “simpatizzanti” hanno organizzato manifestazioni simultanee tra Smara e Dakhla, gli scontri con le forze dell’ordine si sono chiusi con una trentina di denunce ed una cinquantina di feriti, la bandiera marocchina è stata addirittura bruciata, i tre responsabili di questi atto sono stati condannati a pene dai 15 ai 20 anni di prigione.
Il 30 ottobre 2005, un giovane impiegato della Sicurezza Sociale, Hamdi Lambarki Salek Mahjoub, muore dopo essere stato picchiato da agenti del Gruppo urbano di sicurezza (GUS), nel corso di una manifestazione che era degenerata in sommossa. Questa morte rilancia le manifestazioni e il Polisario ne fa un martire – una scuola viene intitolata a lui a Tindouf. E’ in questa stessa località del Sud Algerino e nei campi vicini a Lahmada, che un gruppuscolo diretto da Ali Salem Tamek soggiorna. Tamek? Un percorso individuale fatto di sinuosità e contraddizioni.

Seme di tradimento
Un Saharawi? E’ nato a Assa-Zag, una località del Marocco non contestato. Dunque è più che altro un traditore; nel 1993 tenta di entrare clandestinamente in Algeria. Condannato, poi graziato, recidiva nella sua condotta sovversiva ed è nuovamente condannato, a fine agosto 2002, per attentato alla sicurezza dello Stato – beneficia nuovamente della grazia reale il 7 gennaio 2004 insieme a decine d’altri detenuti. Le sue comparse – Ahmed Nassiri, Brahim Dahane, Rachid Sghair, Degja Lechagr e Salah Loubeihi – sono arrestati, insieme a lui, l’8 ottobre 2009. Vengono incriminati e imprigionati per intelligenza con una potenza straniera. Il tribunale permanente delle Forze Armate Reali si è dichiarato incompetente tre settimane fa, e sarà la Chambre criminelle della Corte d’Appello di Casablanca a giudicare, da venerdì 15 ottobre 2010, sulla ipotesi di reato di attentato alla sicurezza interna dello Stato.
Questi episodi, tra tanti altri, rendono bene l’idea delle manovre continue degli attivisti separatisti nelle province saharaiane recuperate. Chi sono e come operano e di quali appoggi godono? Attualmente siamo di fronte ad una rivendicazione politica separatista. Si tratta di nemici che si sono chiaramente identificati come una minoranza che si presenta come vittima della repressione e della persecuzione dello Stato marocchino e che chiede aiuto alla comunità internazionale.
Si può rinvenire l’illustrazione di tale posizione nella lettera del 22 settembre 2010 indirizzata da tre detenuti – Ali Salem Tamek, Brahim Dahan e Ahmed Naciri – alla segretaria di Stato USA, Hillary Clinton, a proposito della loro liberazione e della violazione dei diritti umani della quale sarebbero vittime, stando in prigione da un anno. Essi si presentano come difensori del diritto del popolo saharawi all’autodeterminazione e come vittime della repressione in quanto militanti per i diritti umani.

Nuovo cavallo di battaglia
I problemi sociali che erano stati i primi temi dell’agitazione dei separatisti sono stati oramai surclassati da nuovi cavalli di battaglia, quali quelli delle libertà e della rivendicazione indipendentista. E’ stato costruito in questa ottica tutto un dispositivo, articolato intorno a diverse associazioni: “Associations des victimes des atteints aux droits de l’ Homme commises par l’Etat marocain au Sahara Occidental”, che raggruppa soprattutto ex detenuti di Agdz e di Qalaat Meggouna; La Commissione avviata da Mohamed Dadach, che rivendica il diritto a militare per l’indipendenza del Sahara all’interno del Marocco”; il “Forum pour la protection des enfants saharaouis”, membro della Codesa e dell’AMDH (Laayoune) e tanti altri comitati locali e stranieri, questi ultimi definendosi anch’essi associazioni per la difesa dei diritti dell’uomo, sia in Spagna che in Francia, che in altre latitudini occidentali e altrove.
Questi “attivisti” chi sono in effetti? Sarebbero una cinquantina di persone che costituiscono il nocciolo duro dell’agitazione. Sono composti da ex detenuti nella maggior parte, qualche personaggio molto noto come Mohamed Dadach, Ali Salem Tamek e, dalla fine del 2009, Aminatou haidar. Quest’ultima, si ricorda, si è fatta conoscere quando è stata respinta all’aeroporto di Laayoune per avere scritto sulla scheda della polizia di frontiera la nazionalità “saharawi”.

Rete di propaganda
Questa rete beneficia della complicità di uomini e donne sul territorio che organizzano, aizzano, federano senza però esporsi – una organizzazione praticamente clandestina, tuttavia identificata dai servizi di sicurezza, ma che non può essere perseguita né arrestata in mancanza di prove tangibili. Bisogna anche ricordare la forte presenza di studenti saharawi nei campus di Rabat, Marrakech e Agadir, alcuni dei quali formano un vero e proprio centro di propaganda separatista, organizzano delle manifestazioni di sostegno e divulgano la notizia anche del minimo incidente nelle province saharaiane.
Non stupisce dunque che nella letteratura indipendentista questi campus siano presentati come “postazioni” o “avamposti universitari”. I militanti attivi sono solo una decina, la maggioranza degli studenti restando poco politicizzata e sensibile piuttosto alle difficoltà delle condizioni materiali e sociali.
I supporti della propaganda separatista sono di diverso tipo. In primo luogo, la proliferazione dei cybercaffé in tutte le località delle province del Sud consente l’informazione, la consultazione delle pagine web della SPS, l’agenzia di stampa del Polisario. In secondo luogo, la stazione di Radio Polisario è bene oscurata a Laayoune, ma è raggiungibile ad una ventina di chilometri da questa città e opera per tenere vivi i legami tra le famiglie divise da una parte e dell’altra. In terzo luogo, un responsabile del Polisario risiede a Las Palmas e intrattiene contatti con le cellule attiviste nelle province saharawi. Infine bisogna fare un cenno particolare ai telefoni GSM che permettono di trasmettere foto durante le manifestazioni ed ai telefoni satellitari.
In totale, una logistica di sovversione nelle mani di strutture teleguidate da Tindouf e dai Servizi segreti del DRS (Département du reinsegnement et de la sécurité algérien) del generale Tewfik Médiène, che segue un’agenda diplomatica che sfrutta ogni opportunità di mediatizzazione.
Questo, a grandi tratti, è lo stato delle cose. Sufficiente a costituire un rompicapo per il Marocco, costretto a confrontarsi ogni giorno con trame continue che si manifestano in diverse forme. Il credo di principio è – e resta – la tutela dell’ordine pubblico. Il Sovrano è, si sa, estremamente puntiglioso su questo punto; niente sarà tollerato che possa creare disordine.

Ordine pubblico
Voci qui e là criticano ciò che chiamano “deriva securitaria”, dimenticando allegramente che la prima responsabilità dello Stato è di preservare la pace civile, la tranquillità dei cittadini e la protezione dei loro beni e ciò nell’ambito dello Stato di diritto e del principio di legalità.
Il diritto disciplina altresì la protezione e la garanzia dei diritti di libertà. Ora, militare per il separatismo e l’indipendentismo è esercitare il diritto alla libertà di espressione? La politica dello Stato sembra accettare questa espressione, a condizione che essa non comporti un turbamento dell’ordine pubblico. Nessuno Stato di diritto può infatti tollerare che, sotto l’ombrello di questa libertà, possano essere messe in atto azioni che pongano in discussione le attribuzioni regali di sicurezza che le sono proprie. Ogni trasgressione deve essere sanzionata dalla Giustizia. In Francia – coi nazionalisti corsi – o in Spagna – con i separatisti dell’ETA -, questa è la regola: l’espressione politica è permessa ma ogni deriva (saccheggi, attentati…) subisce i rigori della legge.

Posizione confortevole
In termini diplomatici la posizione del Regno è confortevole oggi. Con la sua proposta di autonomia nelle province saharawi presentata nell’aprile 2007 al Consiglio di Sicurezza – un progetto giudicato credibile e serio da questo organismo dell’ONU e sostenuto dalla potenze influenti del mondo – ha guadagnato parecchi punti, consolidando le sue posizioni sulla sovranità, indipendenza e integrità territoriale.
Che un Saharawi come Mustapha Salma Ould Sidi Mouloud, ispettore generale della polizia del Polisario – liberato a Tindouf ma non ancora libero… - abbia aderito a questa proposta di autonomia testimonia dei cambiamenti in corso nel movimento separatista. Che il Consiglio di Sicurezza non prenda in considerazione l’estensione del mandato della MINURSO al controllo del rispetto dei diritti umani – come voleva il Polisario – fornisce nuovi dati sul dossier.
La rotta è fissata e bisogna gestire al meglio la complessità dell’affaire del Sahara nella prospettiva dell’unico esito possibile, che è quello proposto, sulla base di un regolamento negoziato, dal Marocco.