Intanto la guerra si avvicinava, ne sentivamo i suoni sempre più forti. La guerra si avvicinava e noi abbiamo attraversato il fiume, cercando rifugio in Congo Brazzaville. Eravamo in trenta ragazzi, non più quelli della partenza, molti si erano persi lungo il cammino, altri se ne erano aggiunti. Nella città di Liranga siamo stati accolti con diffidenza, le autorità cittadine temevano fossimo dei soldati di qualche fazione venuti ad infiltrarci. I più grandi di noi sono stati arrestati, interrogati, poi rilasciati e arrestati di nuovo.

Dormivamo a un certo punto in una scuola, passavamo le giornate nella ricerca del pane, quando era possibile si faceva qualche lavoretto. Non si stava bene, in una ventina abbiamo continuato il cammino fino al Gabon.
Abbiamo attraversato la frontiera di notte, ma siamo stati lo stesso intercettati dalla polizia che ci ha arrestati e trasferiti in una grande città, Ndende Bitam. Non conoscevano la nostra provenienza perché eravamo senza passaporto e ci hanno espulso in Cameroun.

Nella città di Kiosi i missionari cattolici si sono finalmente presi cura di me. Mi hanno aiutato a perfezionare il francese, mi hanno insegnato qualche lavoretto. Sono rimasto alcuni anni.
Quando il padre missionario che mi assisteva se ne è andato, ho deciso di cambiare. Prima sono andato in Algeria, ma lì era impossibile stare, la polizia era violenta e non c’era nessuna assistenza. Finalmente sono arrivato in Marocco.
Due anni fa, erano passati 4 anni dalla mia fuga.

Qui in Marocco ho ottenuto il riconoscimento di rifugiato dall’agenzia delle Nazioni Unite. Riconoscimento e tesserino, ma nessun aiuto materiale. L’anno scorso abbiamo fatto una protesta davanti all’ufficio delle Nazioni Unite a Rabat: abbiamo dormito una settimana per strada. Solo a questo punto qualcosa si è cominciato a muovere: almeno i rifugiati minorenni come me hanno ottenuto un assegno di 4-500 dhirams (poco meno di 50 euro) al mese.
Nemmeno in Marocco si sta bene: senza documenti non si può lavorare, inoltre c’è del razzismo contro di noi, anche tra gli impiegati delle Nazioni Unite. Ce n’è uno per esempio che parla con me solo in arabo, pur sapendo che io non conosco questa lingua.

Ho fatto un corso di informatica, ma non mi ha aiutato a trovare lavoro. Quando ne trovo uno, appena il padrone viene a sapere che non ho documenti, mi dice: “mi dispiace, non posso assumerti”.

Non so niente della sorte delle mie sorelle. Ho cercato in internet, attraverso Google e i siti delle scuole della mia zona, ma senza risultati. Qualcuno mi dice che non devo farlo, potrei avere altre cattive notizie, e comunque non sarei in grado di fare niente per loro.
Ho chiesto di essere trasferito in un altro paese, mi piacerebbe l’Italia….

Rabat, 14 giugno 2008 
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