TelQuel  - 18/24 dicembre 2010 – n. 452

Fes, la martire

di Mohammed Boudarham

Il 14 dicembre 1990, giusto 20 anni fa, il Marocco ha vissuto uno degli avvenimenti più sanguinosi della sua storia: uno sciopero generale ha infiammato la capitale spirituale, provocando decine di morti

I militanti dell’UGTM (Union générale des travailleurs du Maroc) lo chiamano ancora « il venerdì nero ». Era il 14 dicembre 1990. Il paese viveva un momento di pericolosa turbolenza. Il programma di adeguamento strutturale, il famoso PAS, in vigore dal 1983, che imponeva un’ implacabile austerità finanziaria, colpiva al massimo i settori sociali, in primo luogo le classi più povere.  Il Salario Minimo (SMIG) superava appena i 1.050 dirham, quando le fabbriche non erano già chiuse. Il governo di Karim Amrani, che era appena sfuggito ad una mozione di censura nel maggio dello stesso anno, non sapeva più dove sbattere la testa. A questo punto, è bastato uno sciopero generale per rendere la situazione esplosiva.

Una pallottola, poi i blindati…

Alla vigilia di questo “venerdì nero”, le autorità locali di Fes, e di altre località, fanno di tutto per contrastare lo sciopero indetto dall’UGTM e la CDT. “I Muqaddam facevano il porta a porta per intimidire le persone e indurle a recarsi al lavoro il giorno dopo”, ricorda un dirigente sindacale dell’epoca. Il giorno X, Fes ha l’aspetto di una città morta. “La consegna era di restare a casa, mentre noi ci saremmo ritrovati nei locali del sindacato per seguire l’evolversi della situazione”, afferma Hamid Chabat, uno dei dirigenti della sezione UGTM di Fes. Il governatore della città ha un’altra idea. Con un gesto che i sindacalisti dell’epoca hanno definito “suicida”, ordina alle Forze ausiliarie di requisire gli autobus dell’azienda di trasporti comunali e decreta che quel giorno il servizio è gratuito. Si formano folle immense alle fermate dei bus ed è l’inizio di un casino che coinvolgerà tutta la città. A Ain Kadouss, un poliziotto usa la sua arma e spara nel mucchio. Sono circa le 9. Incidenti simili sono segnalati a Bensouda, Bab El Khoukha e Bab Ftouh, quartieri popolari che ospitano tutti i più poveri della capitale spirituale.
Cominciano gli scontri tra la popolazione e le forze dell’ordine, che si estendono agli altri quartieri della città. Alcuni manifestanti ne approfittano per abbandonarsi a gravi atti di vandalismo. Secondo un bilancio parlamentare, vengono dati alle fiamme 6 stabilimenti pubblici, 137 veicoli e 20 società private. La polizia non ha più pietà. Centinaia di persone vengono arrestate. Intorno alle 18, interviene l’esercito. “Sabato mattina, sono uscito alla ricerca di pane. Mi sono ritrovato di fronte un carro armato in strada e sono tornato indietro”, ricorda un abitante del quartiere Dhar Mehraz.

Basri in versione originale

A inizio serata di questo “venerdì nero”, i media ufficiali cominciano finalmente a parlare di quanto accade e fanno un primo bilancio: 30 feriti, tutti tra le forze dell’ordine! Nello spirito di Driss Basri, che dirige all’epoca i Dipartimenti dell’interno e dell’informazione, è un modo di rispondere ai media stranieri (RFI, Reuters, AFP…) che parlano di 20 o 30 morti. Meno di mezzora dopo lo Stato cambia versione e accusa delle “bande criminali” (gli “Aoubach”, come dirà Hassan II) di essere i responsabili dei fatti di Fes. Il 18 dicembre Driss Basri si spinge un po’ più oltre e accusa delle “parti straniere” di essere coinvolte nei moti. In Parlamento intanto si assiste a polemiche forti tra qualche deputato e il governo e anche tra deputati della maggioranza e dell’opposizione. A Fes continuano gli arresti e centinaia di persone vengono condotte davanti ad una giustizia che si mostra assai zelante. Le pene comminate, senza prove, giungono fino a 15 anni di prigione per “ribellione, adunata armata, lesioni e danneggiamento di beni pubblici”. Centinaia di persone vengono condannate senza aver potuto presenziare al loro processo perché si trovavano detenuti, come attesta un documento dell’UGTM. Le versioni ufficiali dei fatti sono contraddittorie. Se il governo dichiara 5 morti, la Procura di Fes ne denuncia 25. Intanto la città resta in stato d’assedio. Le scuole sono chiuse e l’università, con i suoi 43.000 iscritti, è a riposo forzato. Gli ingressi e le uscite da Fes sono strettamente controllate.
 
La verità, 15 anni più tardi

Hassan II, come sempre, tenta di correre in soccorso del suo governo. Il 28 dicembre 1990 ordina al Parlamento di avviare una commissione di inchiesta. I lavori cominciano il 16 gennaio 1991. Presidente ne è il fu Maati Bouabid, dell’Union constitutionelle. Gli inquirenti della commissione si prendono tutto il loro tempo e giungono alle conclusioni il successivo 3 dicembre 1991. In sostanza la commissione afferma che, se le forze dell’ordine sono ricorse alle armi, è stato perché non disponevano di  “mezzi adeguati” per contenere le manifestazioni: lanci d’acqua, caschi, pallottole di gomma, veicoli leggeri blindati… Ma la commissione ha comunque il merito di riconoscere un più alto numero di morti. Non si è trattato di 5 morti e nemmeno di 23, ma di 42 morti e 236 feriti. In totale, secondo la commissione, 460 persone sono state deferite davanti alla Corte d’Appello di Fes (416 giudicati e condannati), mentre il Tribunale di prima istanza non è andato troppo per il sottile: ha condannato tutte le 53 persone che appartenevano alla sua competenza.
A parte le cifre, la commissione d’inchiesta deplora l’assenza di dialogo tra sindacato e padronato, e raccomanda maggiore attenzione verso i quartieri periferici che accolgono la popolazione spinta in città dall’esodo rurale.
E’ stato necessario attendere 15 anni ancora perché l’Instance équité et réconciliation (IER) abbia potuto fare maggiore chiarezza sugli avvenimenti. Nel novembre 2005, un gruppo di investigazione guidato da Abdelaziz Bennani (ex-presidente dell’OMDH) ha valutato il numero delle vittime del 14 dicembre 1990 in 106 morti. 99 di essi sono stati identificati nel cimitero di Bab El Guissa, grazie ai loro familiari e ai registri delle autorità. Altre sette vittime, non identificate, sono state localizzate nel cimitero di Boubker Ben Larbi, adiacente all’ospedale Khattabi.



Bilancio. E altrove

Se Fes ha pagato il tributo più pesante ai fatti del 14 dicembre 1990, in termini di morti e danni materiali, altre città sono state interessate da incidenti di minore gravità. Tangeri (soprattutto il quartiere Béni Makada) ha evitato il peggio con un bilancio di 1 morto e 124 feriti. Secondo la commissione di inchiesta parlamentare, nella città dello stretto, 100 persone sono state condannate dalla giustizia per atti di vandalismo contro edifici scolastici, negozi ed un’agenzia bancaria. Lo stesso per altre città dove i manifestanti sono stati portati in tribunale: 125 persone condannate a Rabat, 72 a Kenitra, 17 a Meknès e 23 a Beni Mellal. Gli inquirenti del Parlamento hanno tuttavia omesso di trattare il tema delle condizioni di detenzione e quello della correttezza del processo.   
 



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