Le Grand Soir, 15 juillet 2013 (trad. ossin)


Conseguenze e lezioni del « putsch » familiare di Doha

Alain Chouet (*)



Trattato sotto tono nelle rubriche “popolari” della stampa occidentale, l’abdicazione il 25 giugno 2013 dell’emiro regnante del Qatar, Hamad bin Khalifah, a favore di suo figlio Tamim di 33 anni, costituisce di fatto un vero e proprio sisma politico, sia all’interno dell’emirato che nell’insieme del mondo arabo. Niente sembra infatti giustificare questa transizione brutale e inattesa, in una società dove il rispetto dell’età è  fondamentale , dove le successioni si operano normalmente in favore dei fratelli e dove non ci si può sottrarre a questi obblighi se non a prezzo di un vero e proprio “colpo di Stato”, come l’aveva fatto Hamad bin Khalifah contro suo padre nel 1995. E, di fatto, l’abdicazione dell’emiro sembra essere stata ottenuta al termine di un consiglio di famiglia burrascoso, dove la fronda era guidata dalla “Sceicca” Mozah, madre del principe Tamim, spesso presentata come eminenza grigia del regime del Qatar. Ma questa  “protesta collettiva” privata non ha come soli obiettivi gli appetiti di potere di questo o quel ramo della famiglia.


Il Qatar ha costruito la sua recente e colossale fortuna sulla “monocoltura” del gas naturale. E’ stata questa fortuna che ha permesso al Qatar, nel corso degli ultimi quindici anni, di gestire la sua difficile collocazione tra due vicini potenti e pericolosi. A sud, l’Arabia Saudita con la quale vi è una rivalità sul piano religioso e che aveva giurato la sua rovina, giungendo perfino a chiedere, senza successo, agli Egiziani di cacciare l’Emiro manu militari, a cavallo degli anni 2000. A nord, l’Iran sciita e i suoi 75 milioni di abitanti, profondamente ostili ai Wahabiti, e che condivide con l’Emirato lo sfruttamento della stessa falda di gas nel Golfo Persico, situazione in prospettiva carica di contenziosi.

Trovandosi in una simile situazione di minaccia, il Qatar ha adottato a modo suo le medesime strategie poste in essere dal suo rivale saudita negli anni 1980: da una parte, assicurarsi col denaro e con investimenti massicci l’appoggio politico e la protezione armata delle grandi potenze militari dell’occidente  d’altra parte, tentare di fare lo stesso gioco e, se possibile, soppiantare l’Arabia saudita nel controllo dell’islam mondiale, investendo molti milioni di dollari, attraverso i Fratelli Mussulmani e lo jihadismo salafista. E’ così che si è potuto vedere lo zampino del Qatar in tutti i teatri politici e militari dell’attivismo islamista, da Gaza al Mali, dalla Siria alla Libia, dalla Tunisia all’Egitto, con la compiacenza ignorante, ingenua o interessata dei decisori occidentali.


La realizzazione di questa politica è stata affidata a Hamad ben Jassem, cugino dell’Emiro, nominato Primo Ministro nel 2003, in aggiunta al posto di Ministro degli Affari esteri che occupava dal 1992, conosciuto a Parigi con l’acronimo familiare di “Hachebeji” dal personale politico francese di tutte le tendenze, che andava a bussare servilmente alla sua porta. Il problema è che, per formare la sua fortuna, il Qatar ha  fatto  degli investimenti enormi e talvolta sproporzionati, per l’estrazione e il trasporto del suo gas naturale. Tenuto conto della situazione attuale e delle sfavorevoli prospettive di evoluzione del mercato mondiale del gas, è diventato difficile per la famiglia regnate del Qatar assicurarsi la prosperità finanziaria con investimenti diversificati e più o meno giudiziosi nel mondo intero e, nello stesso tempo, continuare incessantemente a finanziare l’espressione dell’islamismo politico sunnita fondamentalista nel mondo arabo e mussulmano. Il consiglio di famiglia ha risolto la questione deponendo l’Emiro in carica, e silurando il suo ministro attivista, portando al potere un giovane di 33 anni noto per il suo gusto per gli affari, il suo orientamento filo-occidentale, la sua scarsa propensione a finanziare il fondamentalismo salafista , e del quale si spera bene, tenuto conto della sua giovane età, che sarà in grado di mantenere il controllo. Ed è molto significativo constatare che una delle prime decisioni del giovane principe è stata quella di fare dei vistosi cambiamenti al vertice dell’emittente Al Jazeera, diventata nel corso degli ultimi dieci anni lo strumento privilegiato di influenza, di propaganda e di agitazione politica fondamentalista al servizio della politica estera dell’Emirato.


Tali cambiamenti sono stati percepiti come una vera rivoluzione nell’insieme del mondo arabo, dove hanno subito provocato un’ondata di rimescolamenti di posizioni a cascata e altre più importanti conseguenze. Prima di tutto in Egitto, dove i Fratelli Mussulmani, costanti nella loro politica di ambiguità, facevano esattamente il contrario di quanto avevano promesso e la cui azione di governo, allo stesso tempo rapace e inetto, li ha portati al conflitto frontale con la nomenclatura militare, che resta il principale operatore economico del paese. L’esercito avrebbe potuto anche, aspettando l’inevitabile sanzione popolare, lasciar fare ai Fratelli Mussulmani fintanto che drenavano il denaro del Qatar. Ma la prevedibile interruzione del flusso, annunciata dalla deposizione dell’Emiro,  ha precipitato le cose e spinto il comando militare a mettere termine alla cogestione con l’islamismo politico a costo di un vero e proprio putsch. E, con l’occasione, la classe politica e mediatica egiziana ha anche preteso e ottenuto la chiusura degli uffici e delle strutture di Al Jazeera al Cairo.


Rivale del Qatar, col sostegno degli Emirati Arabi Uniti e del Kuwait, l’Arabia Saudita ha immediatamente reso pubblica la propria soddisfazione e il proprio appoggio alla rivolta, sbloccando aiuti e prestiti per diversi miliardi di dollari, destinati a consentire all’esercito di tenere fuori i Fratelli mussulmani dai futuri quadri politici.

Le conseguenze della transizione in Qatar non sono meno spettacolari per quanto concerne la ribellione siriana, di cui l’Emirato sosteneva pubblicamente, sul piano politico, finanziario e militare, le fazioni più apertamente islamiste. Durante la riunione della Coalizione nazionale siriana, che si è tenuta in Turchia il 6 luglio, per decidere della successione a Moaz al-Khatib, il suo ennesimo capo dimissionario, è stato il candidato dell’Arabia Saudita, Ahmad Assi Jarba, che i suoi avversari definiscono  il “candidato Bandar” – il principe Bandar, capo dei servizi speciali sauditi – a risultare eletto, a spese del suo rivale Mustafa  Sabbagh, fino quel momento sostenuto dal Qatar. Nello stesso tempo  Ghassan Hitto, primo ministro del governo provvisorio ribelle,  imposto da Hamad ben Jassem nel marzo 2013 durante il summit di Doha, ha presentato le dimissioni. E non c’è dubbio che la “defezione” del Qatar si tradurrà rapidamente sul campo in sfavorevoli conseguenze per i gruppi jiahdisti già fortemente provati .


L’onda d’urto si estende fino al Marocco, dove il vecchio partito borghese conservatore dell’Istiqlal, che aveva accettato di entrare in un governo di coalizione col partito “Giustizia e Beneficenza” (l’emanazione locale del Fratelli Mussulmani, uscita vincitrice con una maggioranza relativa alle ultime legislative), ha rotto il 10 luglio l’accordo di governo, dimissionando i suoi ministri e avviando una crisi che dovrebbe sfociare in nuove elezioni.  L’onda d’urto si estende così a tutto il mondo islamico in cui si esercitava l’attivismo del Qatar. L’ufficio di rappresentanza  dei Talebani afghani, aperto a Doha lo scorso 18 giugno, ha chiuso precipitosamente il 9 luglio senza che si sappia bene se abbiano preferito andarsene loro o se siano stati discretamente “invitati” a sloggiare. In Turchia, dove il Primo Ministro Erdogan e il partito AKP, sostenuti politicamente e senza dubbio anche finanziariamente dal Qatar, assistevano in tutti i modi la ribellione siriana e giocavano in tutta l’aera mediterranea  la carta del sostegno ai Fratelli Mussulmani e ai regimi islamisti, si ritrovano soli in mezzo al guado mentre scoppiano le difficoltà interne dimostrate dai recenti avvenimenti di piazza Taksim.

Le conseguenze di una interruzione annunciata delle ingerenze del Qatar si sentirà rapidamente anche nel resto del mondo arabo. In particolare in Tunisia, dove la cessazione del sostegno incondizionato al partito En- Nahda potrebbe costringere quest’ultimo o a transigere sui suoi principi islamisti, o ad aprire più largamente sul piano politico a forze meno connotate sul piano religioso. Altrove, soprattutto in Libia e a Gaza, l’avvenire sembra più incerto e fosco. In Libia, perché i gruppi salafisti che rivaleggiano per il controllo del territorio dispongono di fonti di reddito che consentono loro di sopravvivere senza aiuti esterni. A Gaza perché l’interruzione della manna del Qatar, che si era sostituita da un anno in modo massiccio all’assistenza concorrente ma più modesta dell’Arabia Saudita e dell’Iran, non mancherà di provocare un rimescolamento senza dubbio violento delle carte in seno ad Hamas.


In ogni caso, l’insegnamento più evidente del colpo di Stato ovattato di Doha è che l’islamismo politico, il suo dominio sociale, la sua influenza culturale, la sua espressione jiahidista violenta, esistono prima e soprattutto per merito dell’assistenza finanziaria che ricevono dalle petro-monarchie wahabite e per la cecità, la tolleranza, la compiacenza, addirittura il sostegno politico, che queste monarchie “comprano” alle potenze occidentali, Francia in testa.

Alain Chouet (nato il 24 agosto 1946 a Parigi) è un ufficiale dell’intelligence francese, coautore di diverse opere concernenti l’islam e il terrorismo.



(*) Laureato alla Scuola di lingue orientali (arabo), titolare di una laurea anche in Diritto (Paris II) e di un diploma di studi superiori in Scienze Politiche (Paris II).
E’ stato segretario dell’ambasciata francese a Beirut (1974-1976), poi a Damasco (1976-1979).
A Parigi è stato nominato capo dell’ufficio di coordinamento, ricerche e operazioni anti-terroriste (1980-1985), poi in missione all’ambasciata francese a Rabat (Marocco).
Entra nella intelligence come consigliere tecnico del direttore per gli affari relativi all’islam e al terrorismo  (1996-1999). Viene nominato capo del servizio di informazioni e sicurezza della Direzione Generale della sicurezza esterna nel 2000-2002.
E’ ricercatore associato all’European Security Intelligence and Strategy Center, conferenziere alla Facoltà  di studi sulle minacce criminali contemporanee, Università di Parigi II.

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