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La Voix de la Russie, 6 ottobre 2014 (trad. ossin)


Hong Kong: Pechino non vuole una seconda Tienanmen

Eugène Zagrebnov


La “rivoluzione degli ombrelli” non ha le stesse radici delle rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico. Ma con esse ha un punto in comune: l’ingerenza statunitense

Analizzando i fatti che si sono svolti a Hong Kong la settimana scorsa, gli esperti russi hanno talvolta pensato di fare un parallelo con quanto era accaduto a piazza Maidan a Kiev, talaltra con le manifestazioni di piazza Bolotnaia nel 2011 a Mosca.

E se la chiave di comparazione fossero invece le manifestazioni di Taiwan? A fine marzo di quest’anno, la firma del trattato di libero scambio tra Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese ha provocato una “rivoluzione dei girasoli” che si opponeva ad esso. I manifestanti consideravano questo trattato, che riavvicinava i due paesi sul piano commerciale, un tentativo di colonizzazione commerciale cinese, e una minaccia per l’autonomia e la democrazia di Taiwan.

Circa 500.000 manifestanti, soprattutto studenti, hanno allora occupato il Parlamento a Taibei per quasi un mese. Ed hanno parzialmente ottenuto ciò che volevano: al momento, infatti, il trattato di libero scambio, giudicato vago, non è stato ancora firmato e i negoziati “progrediscono lentamente”, secondo le agenzie di Taiwan.

Quanto agli studenti della “rivoluzione dei girasoli”, essi sono stati accolti in agosto negli Stati Uniti, dove hanno incontrato i membri del Congresso e del Dipartimento di Stato. Nel corso degli incontri, hanno ribadito la loro opposizione “all’unità della Cina”, definendo il loro movimento come la “terza forza” nel panorama politico di Taiwan.


Proteste per provocare la violenza

Lo schema taiwanese è stato esportato a Hong Kong. A differenza delle rivoluzioni colorate nello spazio post-sovietico, si tratta, come a Taiwan, di una protesta pacifica e molto bene organizzata che ha come obiettivo, non l’assalto a questa o quella struttura di governo, ma una provocazione che potrebbe sfociare in una violenta repressione della manifestazione. Basterebbe che la polizia lanciasse dei lacrimogeni per disperdere la folla e gli studenti comincerebbero a evocare, nei social network, lo spettro di un nuovo massacro come quello di Tienanmen del 1989,

 
I leader del movimento, vicini ad un think-tank statunitense

A Hong Kong, come a Taiwan, i leader della rivolta sono giovani, ricchi e influenzati da organizzazioni d’oltre Pacifico. I media occidentali hanno fatto dello studente Joshua Wong, di 17 anni, il leader della “rivolta degli ombrelli”. Ma il quotidiano South China Morning Post (SCMP) sospetta che dietro l’organizzazione delle proteste vi siano Benny Tai, professore di diritto, e Audrey Eu Yuet-mee, presidente del partito civico e unico rappresentante dei “pro-democrazia” alle elezioni del 2017.


Joshua Wong


Tutti e tre hanno un punto in comune: sono vicini al National Democratic Institute (NDI), un gruppo di riflessione legato al partito democratico di Hong Kong, che ha come obiettivo di promuovere la democrazia nella regione. E hanno il sostegno finanziario e mediatico di Jimmy Lai, proprietario del gruppo Next Media, le cui emittenti coprono Hong Kong e Taiwan, diffondendo sistematicamente una posizione “anti Pechino”. SCMP non esclude che l’uomo d’affari abbia potuto giocare un ruolo nell’organizzazione del movimento di protesta.


Abbandonata dalle masse, la rivoluzione arranca

La Costituzione di Hong Kong stabilisce che la Repubblica Popolare Cinese non possa ingerirsi nella politica e nell’economia della regione per un periodo di 50 anni. A Pechino spetta solo la responsabilità della sicurezza e della politica estera. Però Pechino ha sempre approvato, dal 1997, la candidatura del presidente del consiglio legislativo. Il sistema prevede ciò per evitare l’arrivo al potere di un uomo politico che potrebbe rappresentare una minaccia all’economia di Hong Kong e alle relazioni tra Pechino e Hong Kong.

Gli Hongkonghesi non vogliono dover votare una lista di candidati approvata da Pechino. Aspirano a maggiore fiducia e libertà da parte delle autorità cinesi. E’ il motivo per il quale sono scesi in piazza a protestare la settimana scorsa.

Ma unendosi alla protesta studentesca, i cittadini hongkonghesi hanno ottenuto un risultato contrario a quello che desideravano. La retorica anti “Cina continentale” e le esigenze di cambiamento espresse dal movimento degli studenti hanno irritato le autorità cinesi. Inoltre le manifestazioni hanno inferto un sensibile colpo all’economia della regione, soprattutto nel settore del turismo in questa settimana di festa in RPC.

Le proteste, organizzate in brevissimo tempo, si sono subito ridimensionate. Sentendosi manipolati dagli organizzatori della “rivoluzione degli ombrelli”, decine di migliaia di Hongkonghesi sono tornati a casa. Quanto agli studenti, rimasti accampati nelle strade del centro di Hong Kong, si mostrano già stanchi.

E’ evidente che Pechino resta in attesa che la situazione si calmi per poi occuparsi degli istigatori del movimento. Saranno processati e puniti. Ma lo scenario di Tienanmen non si riprodurrà a Hong Kong. Le autorità cinesi si rendono perfettamente conto che si tratta di un tentativo di provocarle per indurle a usare la forza.