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 Analisi, marzo 2012 - ... non bisogna nemmeno dimenticare che l’”Anglosfera” – la Gran Bretagna e le sue colonie – è costituita da società di popolazioni coloniali, che sono cresciuti sulle ceneri di popolazioni indigene, vinte e quasi sterminate. Occorreva giustificare le pratiche del passato, nel caso degli Stati Uniti si trattava di un ordine della Divina Provvidenza. Logicamente vi è dunque spesso una simpatia istintiva per i figli di Israele quando seguono una strada simile





Zcommunications.org, 15 febbraio 2012 (trad. Ossin)



Il declino USA in prospettiva – 2° parte
Noam Chomsky


Durante gli anni del declino deliberato ed autoinflitto a casa nostra, le “perdite” sono continuate altrove. Negli ultimi dieci anni, per la prima volta in 500 anni, l’America del Sud ha cominciato a liberarsi della dominazione occidentale, un’altra perdita significativa. La regione ha cominciato la sua integrazione ed ha avviato la soluzione di qualcuno dei terribili problemi di queste società dirette da élite europeizzate, minuscole isole di estrema ricchezza in un mare di miseria. Si sono anche liberati di tutte le basi USA e del controllo del FMI. Una nuova organizzazione, la Comunità degli Stati Latino-americani e caraibici (CELAC), riunisce tutti i paesi dell’emisfero, salvo gli Stati Uniti e il Canada. Se il CELAC riuscirà ad imporsi, questo sarà un nuovo segno del declino USA, questa volta nella regione che ha sempre considerato come il “cortile di casa”.


La perdita dei paesi del Medio oriente e dell’Africa del Nord costituirebbe un segno ancora più inquietante, essi sono stati sempre considerati dai pianificatori come “una straordinaria fonte di potere strategico, e una delle più grandi riserve di ricchezze materiali della storia dell’umanità”. Il controllo delle risorse energetiche di questi paesi comporta un “sostanziale controllo del mondo”, secondo le parole del consigliere di Roosevelt, Adolf A. Berle.


Tutto sommato, se si realizzassero le previsioni di un secolo di indipendenza energetica per gli Stati Uniti, 
grazie alle risorse energetiche dell’America del Nord, il controllo del Medio oriente e dell’Africa del Nord diventerebbe meno importante, ma è relativo: l’obiettivo principale è sempre stato il controllo e non l’accesso diretto. Tuttavia le conseguenze probabili per l’equilibrio del pianeta sono così disastrose che ogni dibattito assume il carattere di un esercizio accademico.


La Primavera araba, altro avvenimento storicamente importante, piò rappresentare almeno una “perdita” parziale nella regione. Gli Stati Uniti e i loro alleati hanno fatto di tutto per impedire che ciò accadesse – fino ad oggi con successi rimarchevoli. La loro reazione alle sollevazioni popolari è stata conforme allo scenario abituale: sostenere
le forze più favorevoli all’influenza e al controllo USA.

I dittatori preferiti vengono sostenuti fino a quando riescono a mantenere il controllo (come nei grandi paesi petroliferi). Quando questo non è più possibile, gettateli via e cercate di restaurare il vecchio regime per quanto possibile (come in Tunisia e in Egitto). Lo schema generale è familiare: Somoza, Marcos, Duvalier, Mobutu, Suharto, e tanti altri. In un caso, la Libia, i tre poteri imperiali tradizionali sono intervenuti con la forza per prendere parte ad una ribellione e rovesciare un dittatore imprevedibile e indomito. Sperano così di ottenere un controllo più diretto delle ricchezze della Libia (prima di tutto il petrolio, ma anche l’acqua, importantissima per le grandi imprese francesi), di potere istallare una base per l’Africa Command dell’esercito USA (oggi costretto a stabilire la propria base in Germania) e ostacolare la crescente penetrazione cinese. Così vanno le cose, nessuna sorpresa.


Ciò che è decisivo è ridurre la minaccia di una democrazia razionale, capace di far pesare in modo significativo l’opinione pubblica sulla politica. Anche questo ha carattere routinario ed è comprensibile. Se si guarda ai
sondaggi di opinione fatti da istituti USA nei paesi arabi si capisce perché l’Occidente teme una democrazia autentica, nella quale l’opinione pubblica peserebbe in modo significativo sulla politica.


Israele e il partito repubblicano

Simili considerazioni portano direttamente alla seconda grande inquietudine trattata dal numero di Foreign Affairs che ho citato nella prima parte di questo saggio: il conflitto israelo-palestinese. La paura della democrazia potrebbe difficilmente essere più visibile che in questo caso. Nel gennaio 2006, vi è stata una elezione in Palestina, considerata regolare e trasparente dagli osservatori internazionali. La reazione istantanea degli Stati Uniti (e di Israele ovviamente), seguiti garbatamente dall’Europa, è stata di punire severamente i Palestinesi perché avevano votato male.

Non è un fatto nuovo. E’ molto conforme al principio generale ed abituale, riconosciuto dalla ricerca universitaria: gli Stati Uniti sostengono la democrazia se, e solo se, i risultati siano conformi ai loro obiettivi strategici ed economici, secondo la triste conclusione del neo-reaganiano Thomas Carothers, l’universitario più rispettato e più prudente, specializzato nell’analisi delle iniziative di “promozione della democrazia”.


In linea più generale, sulla questione israelo-palestinese gli Stati Uniti si trovano da 35 anni alla testa del fronte del rifiuto, che pone ostacoli alla realizzazione di un consenso internazionale che permetterebbe un accordo politico su basi fin troppo conosciute perché le si debba ricordare. La solfa occidentale è che Israele vuole negoziati senza condizioni, mentre i Palestinesi le rifiutano. E’ piuttosto vero il contrario. Gli Stati Uniti e Israele chiedono condizioni molto strette, che sono in più destinate a garantire che i negoziati conducano o alla capitolazione dei Palestinesi sulle questioni chiave o da nessuna parte.


La prima precondizione è che i negoziati siano supervisionati da Washington, ciò che equivale a chiedere che l’Iran supervisioni i negoziati per il conflitto tra sciiti e sunniti in Iraq. Negoziati seri dovrebbero svolgersi sotto gli auspici di una parte neutrale, preferibilmente dotata di un certo rispetto internazionale, il Brasile forse. I negoziatori dovrebbero cercare di regolare i conflitti tra i due antagonisti: Stati Uniti e Israele da una parte, il resto del mondo o quasi dall’altro.


La seconda precondizione è che Israele possa essere libera di estendere le sue colonie in Cisgiordania. In teoria gli Stati Uniti si oppongono a ciò, ma lo fanno con un colpetto sulle spalle, continuando a fornire contributi economici, diplomatici e militari. Quando gli Stati Uniti hanno qualche limitata obiezione, essi hanno tutta la possibilità di far prevalere il loro punto di vista, come nel caso del progetto E1 che collega la Grande Gerusalemme alla città di Ma’aleh Adumin, dividendo letteralmente la Cisgiordania, una grande priorità, condivisa dai pianificatori israeliani, ma che provoca qualche perplessità a Washington. Dunque Israele è dovuta ricorrere a mezzi oscuri per fare avanzare parzialmente il progetto.


La pretesa opposizione statunitense si è trasformata in vera e propria farsa nel febbraio scorso, quando Obama ha opposto il suo veto ad una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU che chiedeva fosse difeso ciò che corrisponde alla posizione ufficiale degli Stati Uniti (aggiungendo che le colonie sono illegali, a prescindere da ogni espansione, osservazione indiscutibile). Dopo di allora si è parlato poco di porre termine all’espansione delle colonie, che procede dunque, con provocazioni ben calcolate.


Così, mentre i rappresentanti palestinesi e israeliani si preparavano ad incontrarsi in Giordania nel gennaio 2011, Israele
ha annunciato nuove costruzioni a Pisgat Ze’ev ed a Har Homa, località della Cisgiordania che sono state dichiarate appartenenti all’immensa regione di Gerusalemme, annessa, colonizzata ed edificata come capitale di Israele, tutto ciò in violazione delle disposizioni del Consiglio di sicurezza. Altre costruzioni realizzano il piano che mira a separare da una parte il centro politico, culturale e commerciale dei Palestinesi nella vecchia Gerusalemme e, dall’altra, la parte della Cisgiordania che sarà lasciata all’amministrazione palestinese.


E’ comprensibile che i diritti dei Palestinesi siano marginalizzati nei discorsi e nella politica degli Stati uniti. I Palestinesi non hanno né potere né ricchezza. Non offrono quasi nulla di interessante per i piani degli Stati uniti; infatti essi sono un dato negativo, rappresentano un elemento inquinante che commuove la “piazza araba”.


Israele per contro è un alleato di valore. E’ una società ricca con una industria high-tech sofisticata e ampiamente militarizzata. Per decenni Israele è stato un importante alleato militare e strategico, particolarmente dopo il 1967, quando questo paese ha reso un gran servizio agli Stati uniti e ai loro alleati sauditi, distruggendo il “virus” nasseriano, stabilendo una “relazione speciale” con Washington su basi che sono sopravvissute fino ad oggi. Israele è anche diventato un importante luogo di investimento statunitense nell’industria di punta. Infatti le industrie di punta nei due paesi sono complementari, soprattutto le industrie militari.


Al di là di queste considerazioni elementari su questi grandi poteri politici, vi sono poi dei fattori culturali che non devono essere ignorati. Il sionismo cristiano in Gran Bretagna e negli Stati uniti ha preceduto di molto il sionismo ebraico, e costituiva un fenomeno molto importante tra le élite, che ha avuto chiare implicazioni politiche (come la Dichiarazione Balfour, che ne è il risultato). Quando il generale Allenby ha conquistato Gerusalemme durante la Prima Guerra mondiale, è stato salutato dalla stampa USA come un Riccardo Cuor di leone che aveva finalmente vinto la sua crociata e cacciato i pagani dalla Terra santa.


La tappa successiva è stata per il Popolo eletto di tornare nella terra che gli era stata promessa dal Signore. Esprimendo un punto di vista abbastanza comune nella élite, il segretario all’interno del presidente Roosevelt, Harold Ickes, descriveva la colonizzazione ebraica della Palestina come una vittoria “senza paragoni nella storia dell’umanità”. Questi punti di vista sono facilmente comprensibili nel quadro delle dottrine provvidenzialiste che hanno influenzato la cultura popolare e quella delle élite fin dall’origine del paese: la credenza secondo cui Dio ha un progetto per il mondo e sono gli Stati Uniti a realizzarlo, con la guida di Dio, è stata espressa da molti leader.


Inoltre il cristianesimo evangelico è una grande forza popolare negli Stati Uniti. Ed è estremamente popolare anche l’evangelismo estremista, che è stato rivivificato dalla nascita di Israele nel 1948, e ancora più rivivificato con la conquista del resto della Palestina nel 1967 – considerati altrettanti segni della prossima fine del mondo e della seconda venuta di Gesù Cristo.


Queste forze hanno assunto una importanza significativa dagli anni di Reagan, quando i repubblicani hanno smesso di pretendere di essere un partito politico di tipo tradizionale, chiudendosi in una inflessibile uniformità per consacrarsi alla difesa dei grandi ricchi e delle grandi imprese. Tuttavia questa piccola parte di società che viene così coccolata dal nuovo partito ricostruito non può fornire sufficienti suffragi, bisogna dunque rivolgersi altrove.


La sola scelta possibile era di mobilitare forze che sono sempre stati presenti, benché raramente come forza politica organizzata: prima di tutto gli innatisti che tremano di paura e odio, e gli elementi religiosi, che sono degli estremisti secondo i criteri internazionali, ma non negli Stati Uniti. Uno dei risultati è la cieca credenza nei supposti profeti biblici, e dunque non solo il sostegno a Israele, alle sue conquiste e alla sua espansione, ma un amore appassionato per Israele, un altro punto importante del catechismo che deve essere recitato dai candidati repubblicani – e i democratici non sono molto differenti.


A parte ciò non bisogna nemmeno dimenticare che l’”Anglosfera” – la Gran Bretagna e le sue colonie – è costituita da società di popolazioni coloniali, che sono cresciuti sulle ceneri di popolazioni indigene, vinte e quasi sterminate. Occorreva giustificare le pratiche del passato, nel caso degli Stati Uniti si trattava di un ordine della Divina Provvidenza. Logicamente vi è dunque spesso una simpatia istintiva per i figli di Israele quando seguono una strada simile. Ma sono naturalmente gli interessi geostrategici ed economici a prevalere, e la politica non è incisa nel marmo.


La “minaccia” iraniana e la questione nucleare
Occupiamoci finalmente del terzo argomento trattato dai periodici citati più su, la “minaccia iraniana”. Tra le élite e nella classe politica si ritiene generalmente che sia la principale minaccia per l’ordine mondiale – ma non è quel che pensa il resto della popolazione. In Europa i sondaggi mostrano che Israele viene percepita come la principale minaccia per la pace. Nei pesi arabi, questo primato viene attribuito anche agli Stati Uniti, tanto che in Egitto, alla vigilia della rivolta di piazza Tahrir, l’80% della popolazione riteneva che la regione sarebbe più sicura se l’Iran avesse delle armi nucleari. Lo stesso sondaggio rivelava che solo il 10% della popolazione considerava l’Iran come una minaccia – diversamente dei dittatori al potere che sono preoccupati per loro.


Negli Stati Uniti prima della massiccia campagna di propaganda di questi ultimi anni, la maggioranza della popolazione era d’accordo col resto del mondo nel dire che, essendo firmatario del Trattato di non proliferazione nucleare, l’Iran ha diritto di arricchire l’uranio. E ancora oggi una grande maggioranza è favorevole all’utilizzo di mezzi pacifici nelle relazioni con l’Iran. Vi è anche una forte opposizione al coinvolgimento degli Stati Uniti nel caso in cui scoppiasse una guerra tra Iran e Israele. Solo un quarto della popolazione ritiene che l’Iran sia un motivo di preoccupazione per gli Stati Uniti. Ma non è raro che vi sia una differenza, spesso un abisso, tra l’opinione pubblica e le decisioni politiche.

Perché l’Iran viene considerata una minaccia così terribile? La questione è raramente dibattuta, ma è facile trovare una risposta seria – ma non nelle dichiarazioni esaltate, come sempre. La risposta più autorevole è data dal Pentagono e dai servizi di intelligence nei loro periodici rapporti al Congresso sul tema della sicurezza mondiale. Essi dicono che l’Iran non rappresenta una minaccia militare. Le sue spese militari sono assai modeste, se le si ponga a confronto con quelle degli altri paesi della regione, e ovviamente minuscole se comparate a quelle degli Stati Uniti.


L’Iran non ha grandi potenzialità militari. Le sue scelte strategiche sono difensive, concepite con l’obiettivo di contenere una invasione abbastanza a lungo perché la diplomazia possa entrare in azione. Se l’Iran riuscisse a dotarsi di armi nucleari, dicono, ciò si iscriverebbe in questa strategia difensiva. Nessun serio analista crede che il clero al potere desideri vedere il proprio paese e i propri beni annientati, la conseguenza immediata di una eventuale loro iniziativa di guerra nucleare. E non è nemmeno necessario di enunciare tutte
le ragioni per le quali ogni governo iraniano sarebbe obbligato ad avere una politica di dissuasione nelle attuali circostanze.


Il regime rappresenta certamente una grave minaccia per una buona parte della sua popolazione – e non è ahinoi il solo caso del genere. Ma la principale minaccia per gli Stati Uniti e per Israele è che l’Iran potrebbe costituire un freno al loro libero uso della violenza. Un’altra minaccia è rappresentata dal fatto che gli Iraniani cercano di estendere la loro influenza nei paesi vicini, l’Iraq e l’Afghanistan, addirittura oltre. Questi atti “illegittimi” sono definiti “destabilizzazione” (o peggio). Per contro l’imposizione con la forza dell’influenza Usa sul mondo contribuisce alla “stabilità” e all’ordine, secondo le tradizionali dottrine sulla questione di sapere
a chi il mondo appartiene.


E’ logico tentare di impedire all’Iran di diventare uno degli Stati nuclearizzati, tre dei quali hanno rifiutato di firmare il Trattato di non proliferazione nucleare – Israele, l’India e il
Pakistan, tutti e tre hanno beneficiato dell’assistenza USA per sviluppare le loro armi nucleari, assistenza che continua fino ad oggi. Non è impossibile raggiungere tale obiettivo con mezzi pacifici. Un approccio che gode di un sostegno internazionale assai maggioritario è quello di assumere delle iniziative che trasformino poco a poco il Medio oriente in una zona libera da armi nucleari, e che si applichino sia all’Iran che a Israele, e anche alle forze USA che operano nella regione, e che potrebbe estendersi all’Asia del sud.

Il sostegno a tali iniziative è tanto forte che il governo Obama è stato costretto a dare il suo accordo formale, ma con riserve. La più importante è che il programma nucleare iraniano non sia collocato sotto gli auspici dell’Agenzia internazionale dell’energia atomica (AIEA); inoltre nessuno Stato (vale a dire gli Stati Uniti) potrà essere sollecitato a fornire informazioni sulle “istallazioni nucleari israeliane e sulle loro attività, compresi i precedenti trasferimenti verso Israele”. Obama accetta anche la posizione israeliana secondo cui ogni proposta deve essere condizionata ad un accordo di pace globale che gli Stati Uniti e Israele potrebbero ritardare indefinitamente.


Questo saggio non è per niente esaustivo, inutile dire. Vi sono molti punti che non sono stati trattati, come
i cambiamenti nella regione Asia-Pacifico. All’enorme dispositivo militare USA saranno aggiunte nuove basi, soprattutto nell’isola coreana di Jeju e nel nord ovest dell’Australia. Si tratta della politica di “contenimento della Cina”. Vi è anche la questione della base USA di Okinawa. La popolazione dell’isola si oppone da anni alla presenza della base e ciò provoca regolarmente delle crisi nelle relazioni USA-Giappone-Okinawa.


Mostrando a qual punto le opzioni fondamentali siano restate immutate, gli analisti strategici USA descrivono il risultato del programma militare della Cina come un “classico dilemma securitario, ciò che accade quando le strategie nazionali e i programmi militari, considerati difensivi da coloro che li hanno concepiti, sono invece percepiti come minacciosi da altri”, scrive Paul Godwin del Foreign Policy Research Institute. Il dilemma securitario si pone nella questione del controllo dei mari che bagnano la Cina. Gli Stati Uniti considerano il loro programma di controllo di essi come “difensivo”, mentre la Cina lo giudica “minaccioso”; allo stesso modo la Cina considera le sua attività nelle regioni vicine come “difensive”, mentre gli Stati Uniti le considerano una minaccia. Una simile discussione non sarebbe neppure ipotizzabile a proposito dei mari che bagnano gli Stati Uniti.

Questo “classico dilemma securitario” è logico, ancora una volta, solo se si accetti il presupposto che gli Stati Uniti hanno il diritto di controllare quasi tutto il mondo e che la sicurezza degli USA richieda un controllo quasi assoluto.


Laddove i principi della dominazione imperiale non sono molto cambiati, la capacità di porli in atto è molto diminuita; il potere si è più largamente distribuito in un mondo che si diversifica. Ne derivano molte conseguenze. E’ peraltro importantissimo avere presente che – malauguratamente – niente elimina le due nuvole nere che ricoprono ogni considerazione
a proposito dell’ordine mondiale: la guerra nucleare e la catastrofe ambientale, entrambe capaci di minacciare la stessa sopravvivenza della specie.


Queste due terribili minacce persistono e si aggravano.



Titolo originale : American decline in perspective, part 2

 


http://www.zcommunications.org/american-decline-in-perspecti...




Il declino USA in prospettiva - 1° parte