ProfileIntervento, giugno 2017 - Annunciando la propria candidatura alla presidenza del Consiglio per il 2023, Luigi de Magistris ha affermato: «Qui a Napoli abbiamo fatto la rivoluzione». come fosse qualcosa di già compiuto (nella foto, il caos di Napoli)

 

Corriere del Mezzogiorno, 22 giugno 2017 (editoriale)
 
A ognuno la propria rivoluzione
Nicola Quatrano
 
Annunciando la propria candidatura alla presidenza del Consiglio per il 2023, Luigi de Magistris ha affermato: «Qui a Napoli abbiamo fatto la rivoluzione». come fosse qualcosa di già compiuto
 
Una immagine del caos napoletano
 
Annunciando la propria candidatura alla presidenza del Consiglio per il 2023, Luigi de Magistris ha affermato qualcosa di davvero impegnativo: «Qui a Napoli abbiamo fatto la rivoluzione». Attenzione, non ha detto «stiamo facendo» o, che so, «faremo», «intendiamo fare», ma proprio: «Abbiamo fatto», come fosse qualcosa di già compiuto. Non risulta che qualcuno (magari un giornalista, che di mestiere dovrebbe fare delle domande) gli abbia chiesto spiegazioni in merito.
 
L’espressione «rivoluzione» deve avere un fascino irresistibile per i politici: già Matteo Renzi, in un recente passato, ha definito tale la sua riforma costituzionale, «copernicana» per la precisione. Non è andata benissimo, è riuscito solo a dimostrare che una rivoluzione può essere bocciata da un referendum. Anche Emmanuel Macron ha usato stesse parole per la sua «révolution en marche». E, detta dal rampollo di casa Rothschild, non può certo trattarsi di una rivoluzione popolare, tutt’al più di una «rivoluzione passiva» o una «rivoluzione senza rivoluzione», qualcosa come un consenso che si accompagna ad un’astensione – questa sì davvero storica in Francia – che sfiora il 56%.
 
I soldati dell'Armata Rossa liberano i prigionieri di Auschwitz 
E non solo i politici: Roberto Benigni ha detto che anche papa Francesco è un «rivoluzionario», aggiungendo che lui da piccolo voleva fare il papa. Non pare possano attribuirsi al comico specifiche «rivoluzioni», salvo forse il falso storico di «La vita è bella», quando ha fatto liberare Auschwitz dalle truppe Usa e non dall’Armata Rossa. Ma c’era un Oscar in ballo, e bisognava pur fare qualcosa per ingraziarsi Hollywood. 
 

La verità è che con le «rivoluzioni» conviene andarci piano, se non si fanno bene rischiano di creare solo confusione. Nella Shangai della Rivoluzione Culturale degli anni 1960 (che pure è stata una cosa, anche tragicamente, assai seria), a un certo punto qualcuno decise che non era «rivoluzionario» passare col verde piuttosto che col rosso. Non tutti erano stati avvertiti, però, o forse non tutti erano veri «rivoluzionari», immaginatevi quindi che ammuina! Fortuna che le macchine erano poche e il traffico quasi tutto di biciclette, sennò sarebbe stata un’ecatombe. Il peggio fu quando qualcuno teorizzò che il vero rivoluzionario deve tenere sempre la sinistra, anche quando sta al volante. Poi ci si ricordò che anche gli imperialisti inglesi guidano a sinistra, e di colpo la cosa cessò di sembrare così «rivoluzionaria».
 
A Napoli comunque abbiamo fatto la rivoluzione, ormai è ufficiale. Difficile è capire esattamente quale. Se si tratta dell’ammuina del traffico, non pare onesto attribuirne tutto il merito all’attuale amministrazione. Per quanto ultimamente i servizi pubblici funzionino malissimo, è da sempre i però che i «rivoluzionari» napoletani scambiano il verde col rosso e la destra con la sinistra.
 
La rivoluzione napoletana potrebbe allora essere la pubblicizzazione dell’acqua, la tutela dei Beni Comuni come anche si dice, per quanto la si debba più che altro a un precedente referendum popolare e oggi venga (senza troppo clamore) contraddetta dal progetto di vendita ai privati della strategica rete del gas. O forse è la partecipazione volontaria dei privati alla tenuta degli spazi verdi. Per intenderci: quegli enormi cartelli pubblicitari che troneggiano su aiuole ben tenute (e talvolta davanti a una stentata rosellina). O la festosa occupazione di locali pubblici da parte di giovanotti che non hanno alcun obbligo, poi, di rendere conto dell’uso che ne fanno. Una specie di privatizzazione… ma no, diciamo una rivoluzione che si consuma con l’occupazione.
 
«La rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa», ammoniva il presidente Mao Zedong, che quando io ero ragazzo si chiamava Mao Tse Tung. A Napoli viene meglio citare i 99 Posse di «Rafaniello» («Voglio fà ‘a rivoluzione»). Si potrebbe anche tentare con Paolo Gentiloni, quando militava in Avanguardia Operaia negli anni 1970 e parlava di «rivoluzione». Lui almeno, a Palazzo Chigi, è riuscito davvero ad arrivarci.
 
 
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