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ProfileAnalisi, ottobre 2017 - Cosa succede ai Rohingya del Myanmar, e perché è nato il conflitto. La storia vera, oltre le ideologie e la propaganda (nella foto, rifuigiati Rohingya alla deriva nelle acque thailandesi)

 

Cf2R (Centre Français de Recherche sur le Renseignement) 3 ottobre 2017 (trad.ossin)
 
I Rohingya in Myanmar, la storia vera
Philippe Raggi
 
Il problema di un'ideologia, qualsiasi essa sia, è che il suo modo di guardare la realtà raramente si conforma ai fatti. Lenin diceva che esistevano solo due ideologie, quella borghese e quella socialista[1]. In questo, come su altro, aveva torto. Ce n'è una terza: l'ideologia dell'islam militante o islamismo. Dunque aveva ben ragione Jules Monnerot nel dire che l'islam sarebbe stato il comunismo del XX° secolo[2]. Tale affermazione si rivela e si conferma tutti i giorni, e l'attualità fornisce esempi a getto continuo. Per dimostrare l'assunto esamineremo cosa sta succedendo nell'Asia del sud-est, precisamente in Myanmar, l'ex Birmania.
 
Rifugiati Rohingya, alla deriva in acque thailandesi
 
Il grande pubblico ha scoperto negli ultimi anni, e ancor più negli ultimi giorni, una minoranza di cui aveva sempre ignorato l'esistenza: i Rohingya. Minoranza etnica e religiosa, una di quelle che compongono il Myanmar, accanto alla maggioranza birmana buddista. Malauguratamente, il pubblico scopre il conflitto Rohingya/Birmani attraverso informazioni che gli vengono fornite in modo incompleto; la spiegazione che viene offerta è infatti monocausale. Niente di più pericoloso, soprattutto in materia di geopolitica.
 
Il terzo escluso
 
I Rohingya sono un sottogruppo di popolo bengalese impiantatosi nel territorio dell'attuale Myanmar durante l'agonia della colonizzazione britannica. Poiché Londra aveva utilizzato i Rohingya nella repressione contro i Birmani, sia durante la conquista di quello che sarebbe diventato il Raj britannico, sia in occasione dell'indipendenza birmana, questa minoranza non è mai stata considerata dagli abitanti di questo paese come facente legittimamente parte dei popoli che costituiscono la «nazione birmana». Di gruppi etnici, il Myanmar ne conta parecchi – quasi 130[3] – che non vanno sempre troppo d'accordo col governo centrale di Naypyidaw[4]. Infatti, o con i Shan, o i Chin, o con i Kachin, molti conflitti hanno caratterizzato i rapporti tra il governo centrale e le etnie periferiche, fin dall'indipendenza del gennaio 1948, e soprattutto durante il governo militare che ha guidato il paese dal 1962 al 2011, e che ancora lo controlla in gran parte ancora oggi.
 
I Rohingya parlano quasi esclusivamente il Bengali, e non sono né integrati e ancor meno assimilati ai loro compatrioti buddisti. Da molto tempo discriminati e perseguitati nel paese – non hanno il diritto di uscire dal loro Stato, non hanno carta di identità -, non godono dello status di cittadini, ma solo di quello di «soci» della Birmania; insomma, si trovano in una situazione ben più difficile comparativamente di quella delle altre minoranze etniche o religiose, anch'esse spesso perseguitate.
 
Geograficamente, i Rohingya sono raggruppati nella parte ovest del Myanmar, vicino alla frontiera con il Bangladesh, nel nord della provincia di Arakan (Stato di Rakhine), in un territorio aperto sul Golfo del Bengala. Essi compongono una minoranza di questa provincia, dove abitano in maggioranza gli Arakan (buddisti).
 
Minoranza etnica, i Rohingya sono anche minoranza religiosa essendo mussulmani. E' qui che interviene l'approccio ideologico del conflitto, i fatti vengono alterati e comincia lo Storytelling. Per quanto il conflitto ci venga presentato sotto un angolo visuale esclusivamente religioso (i "gentili mussulmani" contro i  "cattivi buddisti"), potremmo invece dire, utilizzando un'espressione da giurista, che non è l'islam in definitiva il «fatto generatore» del conflitto. Vi sono infatti altre forti minoranze mussulmane in Myanmar, di origine indiana o cinese (Panthay). Ebbene, cosa si constata? Che queste due altre minoranze mussulmane non hanno alcun timore di integrarsi e che non sono affatto oggetto di discriminazione e disprezzo da parte del governo e/o della popolazione, che non c'è conflitto tra loro e i buddisti. Dunque, presentare quanto accade sotto l'angolo visuale di una minoranza mussulmana oppressa per il solo fatto di professare l'islam, non regge. Per contro, quelli che hanno un particolare interesse a che il conflitto venga percepito in questo modo sono gli ideologi: gli islamisti e i mondialisti.
 
L'interesse degli islamisti...
 
I primi ideologi sono gli islamisti, sia locali (Rohingya, Bengalesi), sia regionali (del sud della Thailandia, della Malesia, delle Filippine e dell'Indonesia) e anche ovviamente quelli del movimento islamico filo-califfato (Al-Qaeda, Stato Islamico,  Hizb-ut-Tahrir, ecc.). Mettendo avanti la loro condizione di vittime, i mussulmani non appaiono più mediaticamente col marchio di «barbari terroristi», «oppressori» e «sanguinari», ma come degli oppressi, uno status privilegiato che impietosisce l'opinione pubblica ed esonera da ogni analisi[5], tanto l'emozione mette a tacere la ragione. Inoltre, fare appello all'azione dei mussulmani del mondo contro i responsabili birmani, permette a questi ideologi, non solo di aprire un nuovo fronte per combattenti jihadisti, ma anche di mobilitare i mussulmani del mondo (Umma) contro l'empio nemico in una causa transnazionale e globale.
 
Sottolineiamo che, in questo conflitto, le vittime non stanno da una parte sola. Anche i  Rohingya ammazzano e distruggono, con altrettanta ferocia e odio di quanto non facciano gli estremisti buddisti, civili e militari. I Rohingya non solo isolati e senza strutture combattenti. Hanno gruppi armati, mobili e addestrati, come Harakah al-Yaqin che si fa chiamare  Arakan Rohingya Salvation Army (ARSA) quando comunica con i giornalisti occidentali. Infine questo conflitto non è limitato al solo territorio birmano dell'Arakan. Un certo numero di combattenti Rohingya sono dei jihadisti militanti, con stretti legami con il Harakat al Jihad al-Islami del Bengladesh vicino, essendo stati addestrati dall'ISI (i servizi segreti pakistani), spesso educati nelle madrase pakistane, e con esperienza del teatro afghano. Particolari rapporti sono stati notati, tra l'altro, soprattutto tra gli insorti di tre province del Sud thailandese e i mussulmani birmani delle organizzazioni Rohingya Solidarity Organization (RSO), Arakan Rohingya Islamic Front (ARIF) e dell'Arakan Rohingya National Organization (ARNO). Va notato en passant che la maggior parte di questi gruppi islamisti armati hanno sede nel Bengladesh e che godono della benevolenza degli Stati Uniti e del Regno Unito.
 
... e quello dei mondialisti
 
Gli altri ideologi sono i mondialisti. Questi ultimi si servono di un altro armamentario ideologico: i «diritti dell'uomo», e ciò per semplici ma colossali interessi finanziari. Questi mondialisti appartengono a due gruppi che non sono senza legami tra loro: degli interessi privati e degli interessi statali. I primi, dei grandi gruppi petroliferi, soprattutto britannici e statunitensi, come Exxon, British Petroleum, ma anche Shell, ecc. Infatti si può constatare che il gruppo Total, presente in Myanmar dal 1992, subisce da due decenni attacchi incessanti da parte di ONG anglo-sassoni, di organizzazioni «umanitarie» spinte e finanziate dai gruppi petroliferi; l'obiettivo di queste azioni, presentate come difesa dei «diritti umani», è infatti di accusare il gruppo francese di "collusione col sanguinario regime birmano" e quindi di ottenere il ritiro alla Total della sua licenza di sfruttamento delle risorse in idrocarburi (gas e petrolio) in Myanmar, in particolare nel campo di gas off shore di Yadana (dove Total opera per il 31,2 %[6]), un ritiro che si farebbe a profitto dei suoi concorrenti[7].
 
Gli altri mondialisti sono gli Stati Uniti, in una azione che non mira tanto a colpire Naypyidaw in quanto tale, ma piuttosto la Cina, la più importante sostenitrice del regime birmano, in un gioco da biliardo a più sponde. Ricordiamo che è stato costruito un oleodotto che collega lo Yunan (Kunming) alle rive del Golfo del Bengala (porto di Kyaukphyu, nella provincia dell'Arakan); un oleodotto finanziato dai Cinesi e che ha un gran valore per Pechino come mezzo di rifornimento energetico. E' agevole capire che dei torbidi nella regione, un conflitto armato e un oleodotto danneggiato o reso non funzionante, e un paese (il Myanmar) messo al bando dalle nazioni per le sue violenze dirette o indirette su una parte della popolazione, creerebbe molti problemi alla Repubblica Popolare Cinese[8].
           
Questi due diversi tipi di ideologi, al di là delle loro rispettive motivazioni, possono solo gradire, se non favorire, la pubblicizzazione di questo conflitto. Agli uni, consente di mobilitare a livello mondiale, non solo l'Umma, ma la tendenza islamista radicale e jihadista in un nuovo focolaio di scontri e torbidi regionali;  Agli altri,  consente di perseguire i propri interessi economici e destabilizzare un rivale di peso, tutto ciò attraverso l'opera di organizzazioni che inalberano intenti «umanitari» e che essi finanziano e manipolano[9].
 
Fino a poco fa beniamina delle capitali occidentali, Aung San Suu Kyi viene oggi accusata di tacere su questo conflitto. Bisogna dire che l'ex ispiratrice dei mondialisti – beniamina dei difensori dei diritti umani, diletta creatura delle classi alte e Premio Nobel per la pace – che era stata utilizzata contro la giunta militare negli anni 1990-2010, essendo birmana e buddista non può prendere le distanze dalla maggioranza del suo popolo composto all'88% da buddisti. Peraltro, ella conosce quale importanza ha Pechino e il carattere vitale dell'oleodotto cinese. Ha precisa cognizione dell'influenza che hanno sulla popolazione i buddisti nazionalisti, che siano quelli del Movimento 969 del monaco Ashin Wirathu o della Fondazione filantropica Buddha Dhamma diretta dal monaco Tilawka Biwuntha. Dunque Aung San non difenderà mai la causa dei Rohingya e la sua immagine di icona della democrazia costruita negli anni 1990 verrà verosimilmente sempre più offuscata nei media mainstream. Deve quindi molto temersi che questi scontri non cesseranno, tenuto conto del fatto che essi vengono alimentati e auspicati sia all'interno, da estremisti buddisti e da militari, oltre che dagli stessi Rohingya, che all'esterno del paese, dagli ideologi islamisti e mondialisti.
 
Note:
 
[1] Les Origines intellectuelles du léninisme, Calmann-Lévy, 1977.
[2] Sociologie du communisme, échec d'une tentative religieuse au XXe siècle, Paris, Libres-Hallier, 1979.
[3] Ufficialmente, vi sono 135 etnie in Myanmar.
[4] Nome della nuova capitale politica e amministrativa del paese. L'ex capitale, Yangon, resta comunque la capitale economica.
[5] E' interessante leggere il libro di François Thual, Les conflicts identitaires, Ellipses, 1995.
[6] http://www.total.com/fr/medias/actualite/communiques/myanmar-total-met-en-production-le-projet-gazier-badamyar?xtmc=exploration%20production%20myanmar&xtnp=1&xtcr=3
[7] Cfr lo studio di Eric Denécé, direttore del Centre Français de Recherche sur le Renseignement(CF2R), sulle ONG in Birmania (http://www.cf2r.org/fr/editorial-eric-denece.php)
[8] L'oleodotto potrà approvvigionare di petrolio brut la Repubblica Popolare cinese per un 6% del totale delle sue importazioni. Il trasporto di gas è già operativo. (https://www.ft.com/content/21d5f650-1e6a-11e7-a454-ab04428977f9 )
[9] Questa strumentalizzazione di utili idioti arriva al punto che bisognerà riqualificare alcune ONG in «GONG», Governative ONG, come direbbe Eric Denécé.