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 Antiproibizionismo, agosto 2013 - Oltrepassata la porta blindata, è un universo parallelo. Le piante di marijuana arrivano alle spalle. Le lampade al sodio ad alta pressione, che sostituiscono il sole per dodici ore al giorno, conferiscono al luogo un alone irreale (per il resto del tempo la pianta ha diritto al riposo). I fiori sono enormi, curati, polposi (nella foto, coltivazione della marijuana in Colorado)








Le blog de Corine Lesnes, 17 marzo 2013 (trad. Ossin)



Nel laboratorio delle Montagne Rocciose

La corsa all’oro verde

Corine Lesnes



Oltrepassata la porta blindata, è un universo parallelo. Le piante di marijuana arrivano alle spalle. Le lampade al sodio ad alta pressione, che sostituiscono il sole per dodici ore al giorno, conferiscono al luogo un alone irreale (per il resto del tempo la pianta ha diritto al riposo). I fiori sono enormi, curati, polposi. “Una foto?” propone Andy Williams, il proprietario della serra, per nulla scontento dell’effetto. Foto, sicuramente, benché non sappia di cosa mi devo più meravigliare: di essere ritratta in una piantagione di droga o di essere circondata dall’equivalente di 100.000 dollari in vasi da fiori.


Andy Williams, 44 anni, non ha niente dello spacciatore. Ex ingegnere militare, ha piuttosto l’aria di un padrone di una piccola o media impresa e, nel suo ufficio, campeggia una foto di Joe Di Maggio, il leggendario giocatore di base-ball. Andy aveva già accumulato plurime esperienze nell’industria dell’armamento, quando la marijuana per uso medico ha cominciato a svilupparsi in Colorado. Lui non ne era un consumatore, ma suo fratello Pete aveva qualche esperienza della coltivazione in vaso. Alla fine del 2008 i due fratelli hanno fondato Medicine Man, un dispensario che fattura oggi più di un milione di dollari annui e impiega 31 persone (tra cui la figlia di Pete che pulisce le piante con devozione).


Andy Williams non fuma nemmeno adesso – “non ci riesco”, si scusa – ma è diventato un esperto nel business. Il dispensario si trova in un quartiere popolare, a qualche chilometro dall’aeroporto, cosa che sarà assai utile – sogna – quando i turisti verranno qui da tutto il paese a godersi i paesaggi del Colorado e la sua ganja (Cannabis, ndt). Davanti all’edificio segnalato da una croce verde, il parcheggio non è mai vuoto. Per entrare  attraverso le porte sorvegliate, occorre esibire la carta di paziente affetto da una malattia – talvolta incurabile, ma più spesso relativamente poco importante. Dieci anni fa, quando la marijuana ha cominciato ad essere tollerata, l’età media dei pazienti era di 55 anni. Oggi è di 28 anni. I due terzi di essi soffre di mal di schiena, “cronico”, è vero.


Cinquanta video camere sorvegliano i locali di Medicine Man. Nella sala di controllo, Dan, testa da bulldog, controlla che tutti si comportino bene. Anche lui è un ex militare, e boxeur professionista, che vuole approfittare della manna. “E’ la nuova corsa all’oro”, scherza Pete Williams. Andy, dal canto suo, cerca di ingrandire l’azienda, perché presto la marijuana non sarà più riservata solo ai malati. Ha preso contatti con Chineselnvestors.com, una azienda che mette in relazione le imprese statunitensi con investitori cinesi.


Quattro mesi dopo il referendum del 6 novembre che ha legalizzato il possesso di un’oncia (poco più di 28 grammi) per gli adulti che abbiano compiuto i 21 anni, il Colorado prepara la fine del proibizionismo, una esperienza senza precedenti negli Stati Uniti e nel mondo intero (i Paesi Bassi hanno solo depenalizzato). Il gruppo di lavoro creato dal governo per stabilire le modalità di applicazione dell’emendamento 64, adottato con una maggioranza del 55% degli elettori, ha depositato le proprie conclusioni il 13 marzo. Entro la fine di maggio, il Congresso di Stato dovrà modificare la legislazione. E il 1° gennaio 2014 i negozi potranno vendere la marijuana a tutti e in tutte le forme: erba, ma anche biscotti, bevande gassate, pomate per reumatismi, dolci, sigarette elettroniche…


“Il regime di lotta alla droga è una invenzione statunitense”
A meno che Washington non si intrometta. Dalla sua elezione nel 2008, Barack Obama – egli stesso un gran fumatore quando era giovane – ha brillato per il suo riserbo. La sua amministrazione ha consentito che si aprissero migliaia di dispensari di marijuana per uso medico in tutto il paese, intervenendo caso per caso, solo di fronte ad eccessi troppo evidenti. A Denver, quando 61 dispensari avevano aperto troppo vicino alle scuole, la polizia li ha minacciati di chiusura se non si fossero trasferiti nel termine di 45 giorni. “Quel giorno ho capito – racconta Kayvan Khalatbari, un militante della prima ora – Quando l’unica sanzione è di delocalizzare la vostra iniziativa illegale, è segno che la polizia non ha alcuna intenzione di crearvi dei problemi”.


Ma il governo federale sarà costretto a pronunciarsi. Il 5 marzo il rapporto annuale dell’OICS (Organismo internazionale di controllo sugli stupefacenti), una agenzia dell’ONU, ha invitato gli Stati Uniti a rispettare gli obblighi internazionali “su tutto il loro territorio”. Nei circoli gli esperti si interrogano. Uno Stato può sottrarsi agli obblighi contratti dallo Stato federale? A inizio gennaio, la Brookings Institution, il think tank di Washington, aveva organizzato un dibattito sulla questione. Tra il pubblico, un diplomatico olandese ha protestato. “Voi chiedete sempre agli altri di obbedire a questi trattati internazionali. Se voi vi sottraete, ciò significa che anche altri paesi produttori di droga potrebbero decidere di non rispettarli nemmeno loro?” Il tema è stato ripreso da un economista di origine colombiana. “Il regime di lotta contro la droga è una invenzione statunitense. L’atteggiamento che assumerà il governo USA avrà delle ripercussioni non solo nella guerra contro la droga in America Latina, ma anche nella credibilità della politica statunitense”.



In Colorado gli elettori non si preoccupano delle ripercussioni  nei Paesi Bassi. La marijuana fa nascere un intero settore economico. Esso dispone già dei suoi studi legali, dei suoi esperti contabili, i suoi software di gestione degli stock (“Marijuana freeway”) e di una sua compagnia di assicurazione: “Cannassure”, rifinanziata dai Lloyd. Le banche sono le ultime a tergiversare. Hanno tanta voglia di esserci ma temono di perdere l’autorizzazione federale. Nell’attesa i coltivatori si arrangiano. I “piccoli” accettano solo pagamenti in contanti. I più grossi aggirano l’ostacolo, come Kayvan Khalatbari, che ha aperto una pizzeria.


La marijuana ha anche una sua università: la THC University (dal nome del suo principale componente psicoattivo, il tetraidrocannabinolo). Vi si impara a coltivare le piante, cosa che non è semplicissima: la formazione dura tutta una giornata. A 175 dollari a lezione, i corsi sono frequentatissimi. Oltre alla consumazione, l’emendamento 64 ha autorizzato le piantagioni individuali, una novità negli Stati Uniti. Ogni adulto ha diritto a coltivare 6 piante; obbligatoriamente all’interno dell’abitazione e, se ha figli minori degli anni 21, i vasi devono essere custoditi in un luogo chiuso.


L’Università è una idea di Matt Jones, 24 anni, e del suo compagno Freeman Lafleur, 25 anni, che l’hanno trovata più promettente del loro lavoro di designer di siti web. Per la lezione inaugurale, il 9 febbraio, uno degli iscritti veniva dalla Florida, e un altro dal Nuovo Messico. Le lezioni si tengono in una sala affittata nell’università. “Per un bisogno di rispettabilità - dice Matt Jones – Vogliamo combattere gli stereotipi”.
L’Università ha esitato, per paura di perdere le sovvenzioni pubbliche. Ma il campus è una zona “senza droga”: le apparenze sono salve. Gli allievi si esercitano a fare delle talee da piantine di pomodoro. In seguito fanno una seduta di lavoro pratico nei locali della piantagione Karmaceuticals, dove Brian Chalupa, 37 anni, un ex aiuto-infermiere riconvertito al giardinaggio, spiega loro i segreti del mestiere: la marijuana è una pianta delicata che ha bisogno di un supplemento di  carbonio. E detesta l’acqua di rubinetto non filtrata.


“Il Budweiser della marijuana”
Come Andy Williams, il Medicine Man, sono molti a essere attirati dalla promessa di un boom economico. “Ognuno pensa di poter diventare il Budweiser della marijuana in dieci anni”, dice Brian Vicente, uno dei padri dell’emendamento 64, e che dirige attualmente uno studio di 6 avvocati specializzati nel “diritto” della marijuana. Altri sono idealisti, militanti per la depenalizzazione, come Kayvan Khalatbari, che stava terminando i suoi studi in ingegneria elettrica, quando ha conosciuto un malato di AIDS cui la cannabis attenuava le sofferenze. Nel 2008, con un compagno, 4000 dollari di economie e 200 grammi di “semi”, ha aperto Denver Relief, sulla Brodway, la grande avenue che attraversa Denver. E’ oggi un dispensario high tech, cui si è aggiunta una serra di produzione nella zona industriale. Investimento: 500.000 dollari, che ha appena finito di rimborsare. “E’ eccitante, si ha l’impressione di assistere al decollo di una nuova industria. Ma non lo faccio per diventare miliardario”, attenua.


Denver Relief ha 15 dipendenti a tempo pieno e altri 15 aiutano nella raccolta ogni 35 giorni. L’azienda produce circa 450 grammi al giorno. Come in tutti i dispensari, è strettamente vietato fumare nei locali e le video camere sono obbligatorie. Ogni piantina è numerata. Ecco il 20C24, varietà “Cold Creek Kush”, è in fioritura. Il computer fornisce tutti i dati: lo stato degli stock, la collocazione delle piante, gli acquisti. La legge impone che i dettaglianti producano almeno il 70% di quello che vendono, per limitare le possibilità di trasferimento della produzione verso il mercato nero. I dipendenti, che devono essere tutti privi di precedenti penali, non possono fare uso gratuito della merce, hanno solo diritto ad uno sconto del 50%.


Con un fatturato di un milione di dollari l’anno scorso, Denver Relief è già pervenuto allo stadio della diversificazione: creazione di un fondo di investimento di 100.000 dollari per sostenere le start-up, consulenze per le imprese tradizionali che intendano inserirsi nel mercato. Una volta al mese Kayvan Khalatbari va a Boston, dove è stato incaricato di avviare la realizzazione della marijuana per consumo medico in Massachusetts. “Qui viviamo in una bolla – dice- occorre promuovere la legalizzazione negli altri Stati, altrimenti va tutto in malora” A oggi, diciotto Stati e il Distretto di Columbia hanno autorizzato la marijuana con ricetta medica. Due – il Colorado e lo Stato di Washington – hanno passato il Rubicone e decretato la fine pura e semplice della proibizione. Il ritorno indietro sarebbe difficile – assicura Brian Vicente, il giurista, che vive a due passi dalla capitale. “Il governo federale non ha le risorse né la volontà politica di chiudere i dispensari in 18 Stati”. Paradosso del federalismo: la polizia federale (FBI) non dispone di effettivi sufficienti e niente obbliga la polizia locale a richiamare gli ausiliari.


L’industria della cannabis ha versato l’anno scorso 5,4 milioni di dollari di tasse allo Stato del Colorado, per un fatturato complessivo di 186 milioni di dollari. Gli elettori sperano di ricavare ancora maggiori vantaggi dalla legalizzazione: 40 milioni di dollari – hanno previsto – andranno direttamente a finanziare la scuola, tartassata dalla crisi di bilancio. Fortemente tassata, la coltura dell’erba è molto meno lucrosa di quanto si possa pensare. I piccoli già stanno sparendo: dei 1130 dispensari in attività alla fine del 2010, ne sono rimasti solo 675. “Al momento sono rari quelli che davvero si arricchiscono – assicura Marco Vasquez, capo della divisione marijuana dell’ufficio delle imposte indirette – Costa molto di più coltivare le piante in un ambiente controllato che al mercato nero”. Ma il numero dei consumatori non è variato: 108.000 “pazienti” registrati. E tutti si aspettano che cresca, con la legalizzazione, anche se nessuno sa prevedere di quanto.


La divisione della marijuana è incaricata dei controlli. E’ composta da ex ispettori di polizia che, con decisione, si sono riconvertiti alla regolamentazione della coltura della cannabis. Un simbolo della rivoluzione in corso. Un tempo davano la caccia ai trafficanti, E adesso eccoli controllare che i dispensari di marijuana chiudano all’orario prescritto dalla legge (le 19) e compilino diligentemente la bolla di trasporto al momento della raccolta. “E’ un cambio di paradigma – riconosce Marco Vasquez – Ma cambia il contesto. La società è più tollerante”. Ex aggiunto del commissario di Denver, Marco Vasquez ha passato trentatré anni nella  polizia, una parte dei quali nella brigata per gli stupefacenti. Non era particolarmente favorevole all’emendamento 64. “Se ne è fatta di strada – sospira – Dove ci porterà? Io non ne so niente, rischiamo di andare completamente fuori. Si può autorizzare la vendita della marijuana e nello stesso tempo mantenere in sicurezza la comunità?”


“E’ una sfida mai prima raccolta”
Per ammissione dello stesso poliziotto, il suo gruppo è in situazione di sotto effettivo cronico. “Un quarto del personale che sarebbe necessario”, dice. La divisione doveva essere interamente finanziata dalle tasse di esercizio pagate dai produttori di marijuana (18.000 dollari il primo anno). La somma non era sufficiente e i contribuenti non hanno voluto accollarsi le spese di compensazione. Gli ispettori trovano raramente il tempo di controllare i video girati nei dispensari, ma la dissuasione è sufficiente. “Le aziende hanno tanto da perdere – dice il poliziotto – che rispettano i regolamenti alla lettera”. “Gli imprenditori chiedono solo di rispettare la legge, osservare i regolamenti e pagare le imposte”, conferma il giurista Brian Vicente. “Non vogliono lavorare contro il governo. Vogliono lavorare col governo”, insiste Kayvan Khalatbari.


Il gruppo di lavoro nominato dal governo ha terminato i suoi lavori a fine febbraio. Composto da 24 tra giuristi, eletti, poliziotti, consumatori, medici, ha fatto i conti con ogni sorta di questione inedita, dalle più  importanti implicazioni - si può assumere cannabis e guidare? – ad altre meno importanti - si può fumare un joint davanti casa o solo nel cortile posteriore?

“E’ una sfida mai prima raccolta – ha sottolineato il giurista Jack Finlaw, che rappresenta il governo – Noi creiamo idee e passiamo in rassegna delle questioni che diventeranno un modello per il mondo”.


Sul primo punto – la guida in stato di “ebrezza” da cannabis – i “saggi” hanno fissato la soglia di 5 nanogrammi di THC per millilitro di sangue, riconoscendo che la cannabis sparisce dall’organismo più lentamente dell’alcool. Il secondo punto è stato molto discusso. Impensabile fumare nel portico, hanno detto gli uni. “E se l’abitazione si trova sulla strada di una scuola?” Spirale insidiosa, hanno replicato gli altri. “Se i vegetariani si sentono offesi perché io mangio un succoso hamburger nel portico di casa mia, bisogna per questo vietarlo?”



Il gruppo si è impegolato in una discussione appassionata sulla questione di limitare il diritto alla marijuana ai soli residenti dello Stato. Se tutti possono comprarla, il Colorado diventerà uni Stato di “turismo di droga”, hanno messo in guardia gli oppositori. “Gli altri Stati si butteranno su questa questione e spingeranno il governo federale a intervenire”. All’opposto, limitare l’acquisto ai residenti aumenterebbe il rischio di vedere svilupparsi un mercato nero. La commissione ha tagliato la pera in due. I turisti potranno acquistare, ma solo un ottavo di oncia alla volta (3,54 gr).


Come uscire dal proibizionismo?
Uno degli aneddoti più emblematici della situazione è stato raccontato dal commissario John Jackson. Il povero poliziotto non sa più cosa fare. Quando i suoi colleghi conducono qualcuno in prigione, le guardie rifiutano di conservare la marijuana tra i suoi effetti personali, dal momento che – secondo la legge federale – si tratta di sostanza illegale. “I poliziotti sono obbligati a riprendersi la marijuana – ha spiegato – e no sanno cosa farne”. Tanto che qualcuno la lascia nella macchina di servizio… Il capo della polizia voleva l’autorizzazione a distruggere la droga, anche se essa fa parte dei beni degli arrestati. Non se ne parla nemmeno, ha risposto la presidente del gruppo di lavoro, Lauren Davis, indignata. Sarebbe assolutamente contrario alla Costituzione. L’emendamento è stato respinto. I poliziotti dovranno immagazzinare la droga e restituirla all’arrestato, al momento della scarcerazione. “La situazione è nuova per tutti – ha ricordato la signora Davis – ognuno deve regolarsi”.


Come uscire dal proibizionismo? Tutti gli occhi sono adesso rivolti all’amministrazione Obama. Lascerà andare avanti l’esperienza del Colorado e dello Stato di Washington mentre altri cinque Stati sono pronti a seguirne l’esempio? Porterà la questione innanzi agli organi di giustizia, lasciando alla Corte Suprema il compito di sbrogliare la matassa, rendendola così nuovamente arbitro in una questione di società nella quale il Congresso preferisce non confondersi? Nel 1933, quando gli Stati Uniti hanno rinunciato a vietare le bevande alcoliche, la scelta della attuazione venne lasciata alle comunità locali. Ottanta anni dopo la fine del proibizionismo di alcol, vi sono ancora nel paese delle contee “secche” (dove la vendita di alcol è vietata). 

Alcuni esperti, frustrati dalla mancanza di conoscenza circa le conseguenze sociali della legalizzazione, sperano che il governo consenta la prosecuzione della sperimentazione. “Non possiamo più continuare a decidere al buio la politica sulla marijuana”, invoca Angela Hawken, professoressa di politiche pubbliche all’Università Pepperdine in California.