Marocco, dicembre 2007 - L’associazione Bayt Al Hikma è stata la prima a recarsi a rendere visita ai familiari degli accusati per l’affaire di Ksar El Kébir. Khadija Rouissi, la fondatrice, ci spiega il come e il perché di un atto tanto raro quanto coraggioso.



 

(nella foto, Khadija Rouissi)



Tel Quel - (8/14 dicembre 2007)

 

Ksar El Kébir
Khadija  Rouissi “Chiedo il non luogo a procedere”


L’associazione Bayt Al Hikma è stata la prima a recarsi a rendere visita ai familiari degli accusati per l’affaire di Ksar El Kébir. Khadija Rouissi, la fondatrice, ci spiega il come e il perché di un atto tanto raro quanto coraggioso

di Youssef Mahla



Perché siete andati a Ksar El Kébir?

La delegazione di Bayt Al Hikma ha intrapreso il viaggio il 30 novembre, contrariamente ai numerosi consigli che invitavano alla prudenza. Ma è andato tutto bene. Noi abbiamo reso visita ai diversi gradi dell’autorità giudiziaria, dal presidente del tribunale al direttore della prigione locale, passando per il sostituto procuratore. Ma non abbiamo avuto l’opportunità di incontrare gli accusati attualmente detenuti. Questo è increscioso.

 


La vostra azione di lobbyng interviene a processo in corso (ndr: l’udienza del 6 dicembre è stata rinviata al 10). Chiedete clemenza per i sei accusati?

Noi chiediamo il non luogo a procedere. Consideriamo piuttosto un crimine la violazione dell’altrui intimità. Sono gli accusati ad avere il diritto di denunciare quelli che li hanno filmati ed hanno diffuso le immagini senza alcuna autorizzazione. Se li si lascia continuare su questa strada, tutti ci troveremo presto dei fqihs (preti, ndt) o dei poliziotti in casa.



Difendete l’omosessualità?

Noi difendiamo le libertà individuali, tra cui quella di disporre liberamente del proprio corpo. In Marocco come altrove, alcuni nascono diversi. Il nostro problema è culturale perché non esiste una tradizione di rispetto dei diritti dell’uomo di natura trasversale, che riguardi la vita sociale e non solo quella politica o ideologica dell’individuo.

 

Avete reso visita alle famiglie dei detenuti?

A due di loro. Abbiamo direttamente constatato la gravità dei danni fisici: vetri fracassati e tracce di lanci di pietre dappertutto. I danni psicologici sono ben più impressionanti. Abbiamo visto famiglie ancora in stato di shock che ci ripetevano la stessa cosa: “Siamo sfuggiti alla morte (per lapidazione)”. E’ terribile. La paura e l’ingiustizia regnano tra quella gente che non può ancora mettere il naso fuori casa, a qualunque ora. Quando non sono apertamente osteggiate, alcune famiglie sono tenute in quarantena, evitate da tutti come fossero appestate. I figli non vanno più a scuola per paura di essere segnati a dito o, peggio, portati via.



Che cosa avete dato a queste famiglie?

Prima di tutto un sostegno psicologico ed un ascolto. E’ importante quando la gente si sente sola e abbandonata da tutti. Abbiamo inoltre messo a punto, con l’aiuto di altre personalità della società civile, la questione dei detenuti che sono privi di un qualunque avvocato.



Perché nessun avvocato ha accettato in un primo tempo di difendere gli accusati?

Perché – e non si dirà mai abbastanza – la gente ha paura delle rappresaglie. Non solo gli avvocati della città, ma anche i vicini, gli amici, i quisque de populo… E’ la paura di essere tacciati di omosessualità, di essere esposti un giorno o l’altro ai fulmini di una folla isterica. Perché nessuno ha dimenticato cosa è successo la settimana scorsa.

 

Cosa vi aspettate dal processo in corso?

Che renda giustizia a tutti. Veramente. Il grande timore è che anche i giudici siano, in un modo o nell’altro, sensibili alla influenza (della pressione popolare).

 

Il problema è complesso, generale, va oltre il caso singolo. Il problema non va oltre il caso specifico della città di Ksar El Kébir?

Certo. E’ giunto il tempo di sensibilizzare i poteri pubblici, e soprattutto la società, circa la necessità di rispettare le libertà individuali. Tutti devono porsi all’altezza del compito, anche le associazioni dei diritti dell’uomo, la cui cultura in materia di libertà individuali è da perfezionare. Al di là della divulgazione arbitraria di registrazioni video, al di là del ruolo pericoloso giocato da alcuni media, quanto successo a Ksar El Kébir rischia, come si è visto, di essere sfruttato, strumentalizzato, dagli oscurantisti di tutte le risme. Se si tace, c’è da aspettarsi il peggio (anche uccisioni).

 

 
  
 
  
 
 

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