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Il Mattino,30/11/2009

Saharawi, un grido di libertà dal deserto


Aminatou Haidar, combattente disarmata e cittadina onoraria di Napoli, da 15 giorni in sciopero della fame

  
di Francesco Romanetti



Da qui non me ne vado. E non mangio, non tocco cibo. Fino alla morte, se necessario. Resto qui senza mangiare, accovacciata tra le poltrone di questa sala d’attesa di questo aeroporto, perché solo così posso far sentire la mia voce e parlare dei miei diritti. E solo così posso dire che ho diritto a tornare a casa, dalla mia famiglia, dai miei figli. Solo così posso far sapere che i miei diritti negati sono i diritti negati a tutto il mio popolo. Che il mio popolo è il popolo saharawi, che la mia terra è Sahara Occidentale, Repubblica democratica del popolo saharawi, e non è Marocco, perché il Marocco è il Paese che occupa il territorio del mio popolo. Questo dice Aminatou Haidar, con il suo sciopero della fame, cominciato 15 giorni fa nell’aeroporto di Lanzarote, nelle Isole Canarie, in Spagna, dove è stata spedita con la forza, caricata su un aereo, dopo che le autorità marocchine le hanno ritirato il passaporto e l’hanno espulsa dalla sua terra. Lei stava tornando dagli Stati Uniti, dove era andata per ritirare un premio per le sue battaglie per i diritti umani. Ma all’aeroporto di Al Aaiun, capoluogo-capitale del Sahara Occidentale, i poliziotti marocchini l’hanno bloccata. E spedita alle Canarie. E la Spagna? E le autorità spagnole? E il governo di Zapatero? Sono stati a guardare. O forse peggio. «Sono indignata per il trattamento che ho subito a Lanzarote - ha fatto sapere Aminatou Haidar - Il governo marocchino e il governo spagnolo hanno agito d’intesa e il governo spagnolo ha svolto un ruolo sporco. Non me lo sarei mai aspettato». Aminatou, la dottoressa Aminatou Haidar, laurea in letterature straniere, ha 42 anni, occhi neri e ciglia lunghe. Il corpo è esile, vulnerabile. Ora indebolito dal digiuno, in passato seviziato dalle torture. Il carattere è forte, ostinato. È per questo che ha potuto resistere a quattro anni di carcere, tra il 1987 ed il 1991, rinchiusa nella «prigione nera» marocchina, senza potere vedere né avvocati né parenti. Nessuno sapeva dov’era. Se era ancora viva, se era morta. «Dasaparecida», perché i «desaparecidos» ci sono stati anche in Marocco. Un’altra volta, nel 2005, il piccolo corpo di Aminatou Haidari resistette a 50 giorni di sciopero della fame. Anche quella volta era in carcere. Ora a lei, combattente senz’armi della resistenza saharawi all’occupazione marocchina, stanno arrivando messaggi importanti. Glieli comunicano mentre se ne sta accovacciata su una stuoia, nell’aeroporto di Lanzarote. Uno è del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon; un altro del Dipartimento di Stato americano. Lo scrittore portoghese premio Nobel, Josè Saramago, ha usato queste parole: «Cara Aminatou Haidar, non mettere in pericolo la tua vita perché davanti a te hai ancora da combattere molte battaglie, e tu sei necessaria». E se coloro che l’hanno espulsa l’hanno definita «militante separatista», Saramago scrive: «Separatisti sono quelli che separano le persone dalla loro terra, le cacciano, cercano di sradicarle». E poi tra i messaggi ce n’è uno con la firma di Rosa Russo Iervolino. Non a caso. Perché dal 2007 Aminatou è cittadina onoraria di Napoli. In onore a lei, alla sua storia e alla lunga lotta del suo piccolo popolo. Cominciò nel 1975. Finito il franchismo in Spagna, sulla via definitiva del tramonto l’era coloniale, l’Onu votava in quell’anno una risoluzione che avrebbe dovuto aprire la strada alla decolonizzazione e all’indipendenza del Sahara Occidentale Spagnolo, territorio di pianure e deserti che si affaccia sulle pescose coste africane dell’Oceano Atlantico. Non la pensava però così il re Hassan II del Marocco, che rivendicò la sovranità sui territori lasciati dagli spagnoli, abitati dalle popolazioni saharawi. Con la «marcia verde» e con operazioni militari, cominciava l’occupazione marocchina del Sahara Occidentale. Ma cominciava anche la resistenza armata del Fronte Polisario, l’organizzazione armata dei militanti saharawi. La guerriglia nel deserto durò fino al 1991, anno in cui venne raggiunto un cessate-il-fuoco. Da allora c’è una situazione di stallo che tuttora perdura. Il referendum stabilito dall’Onu nel ’91, per decidere il destino del Sahara Occidentale, in realtà non si è mai tenuto. Il Marocco, di volta in volta, di anno in anno, ha trovato il modo di ignorare accordi e diritto internazionale. Nel frattempo il piccolo popolo saharawi ha vissuto occupazione e diaspora. Una parte della popolazione - circa 700mila persone - si è rifugiata in Algeria, dove intorno a Tinduf vive in campi profughi e grazie all’aiuto internazionale. Ma la resistenza non si è mai piegata. Semmai ha preso altre strade. Aminatou Haidar appartiene a una «generazione di mezzo», che si è affermata dopo la lotta armata. Che ha combattuto con le manifestazioni non violente, con gli scioperi di massa. Nei territori occupati del Sahara occidentale, dal 2005 si è anche diffusa un’«Intifada» pacifica. Le proteste, la disobbedienza civile, sono andate avanti fino a un certo punto. Poi dal Marocco è stato imposto un giro di vite. Complice un certo silenzio internazionale. Il re Mohammed VI, che dieci anni fa, quando si insediò sul trono, aveva suscitato speranze e aspettative, ha profondamente deluso i saharawi. Sette attivisti saharawi, arrestati a ottobre dopo essere stati in Algeria per un giro di conferenze e di incontri con la popolazione dei campi profughi, sono stati arrestati e rischiano addirittura la pena di morte, dal momento che lo stato di guerra - interrotto con il lunghissimo cessate-il-fuoco in vigore dal ’91 - è formalmente ancora in vigore. Una condizione che consente agli occupanti marocchini di agire con una buona dose di arbitrio. Tutto questo Aminatou lo sa bene. E dice che non vuole cedere. Sta lì. E non tocca cibo.



 

"Se guardi in alto li vedi. Tra una casa e l’altra, nei vicoli e nelle stradine della casbah, penzolano stracci appesi. O meglio, sembrano stracci. Ma sono brandelli di bandiere strappate. Bandiere saharawi. Loro le mettono, poi arrivano i poliziotti marocchini e le strappano. E loro le rimettono. E i poliziotti le ristrappano. È difficile vedere una bandiera saharawi intera. Ma tutti quelli che vedono uno straccio penzolare, sanno che quello straccio era una bandiera». Nicola Quatrano, giudice al tribunale del Riesame di Napoli, magistrato di punta del pool Mani pulite in anni ormai passati, ha messo in piedi l’Osservatorio Internazionale, con altri giuristi e avvocati. Da lì monitora le vicende del popolo saharawi. Ad Aminatou Haidar, militante che si batte per i diritti del popolo saharawi, è stata conferita la cittadinanza onoraria dal Comune di Napoli nell’ottobre del 2007. Stamattina alle 10, nella sala della giunta comunale di Palazzo San Giacomo, verrà lanciato un appello perché venga resa giustizia ad Aminatou e al suo popolo. Perché lei possa ritornare nella sua terra e dalla sua famiglia e perché i saharawi possano esprimere liberamente le loro rivendicazioni. Ci saranno il sindaco Rosa Russo Iervolino («la mia carissima amica Rosa, che ringrazio tanto», ha fatto sapere Aminatou da Lanzarote); il presidente della Regione, Antonio Bassolino. E ci saranno rappresentanti della Camera Penale di Napoli, di Amnesty International, docenti universitari, rappresentanti di associazioni e ong. Naturalmente ci sarà Nicola Quatrano, presidente dell’Osservatorio Internazionale. «Sono in contatto con Aminatou da quando ha iniziato lo sciopero della fame - racconta - Ma ieri ascoltare la sua voce mi ha fatto davvero impressione. Lei è forte, ostinata, decisa. Ma due settimane senza toccare cibo sono tante. Sta male. I medici temono per la sua salute. Oggi, da Napoli, ascolteremo quella voce». f.r.  


 



 


Il quotidiano di Casablanca «Akhbar Al Youm» è stato sequestrato per una vignetta. Mostrava il principe Muolay Ismail, un cugino del re, su una tavola imbandita. Giornalisti intimiditi, censura strisciante e autocensura. Ma non solo. Il Marocco sta usando il pugno di ferro soprattutto con i saharawi. Di qui l’espulsione di Aminatou, di qui l’arresto di sette saharawi che rischiano ora la pena di morte. L’accusa? Nessun atto violento, nulla a che fare con il terrorismo. Solo aver messo in discussione «l’integrità territoriale del Marocco».