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(Articolo pubblicato da Le Journal Hebdomadaire, n. 422, 19-25 dicembre 2009)


Aminatou Haidar: il ritorno a Laayoune


L’attivista saharaoui è rientrata a Laayoune nella notte tra il 17 e il 18 dicembre, grazie al coinvolgimento nella vicenda da parte degli Stati Uniti. Un vero schiaffo per la diplomazia marocchina


Dopo l’espulsione arbitraria verso Lanzarote avvenuta il 14 novembre scorso e uno sciopero della fame durato 32 giorni, l’attivista saharaoui ha vinto finalmente la sua battaglia. Nella notte tra il 17 e il 18 dicembre è rientrata a casa, a Laayoune, a bordo di un aereo, messo a disposizione dalla Spagna, equipaggiato delle attrezzature mediche necessarie, in compagnia della sorella Laila e di Martin de Guzman, direttore dell’ospedale di Lanzarote, dove l’attivista saharaoui era stata ricoverata in terapia intensiva il giorno precedente. All’uscita dall’ospedale, prima di salire a bordo dell’aereo, Aminatou Haidar ha dichiarato ai media presenti che il suo ritorno a Laayoune costituisce “un trionfo del diritto internazionale, dei diritti umani e della giustizia internazionale”.
Anche in questo caso, la vicenda sembra sia stata risolta al di là dell’Atlantico, malgrado la discrezione esibita dai responsabili americani. Il Marocco non sembra aver capito ancora che la battaglia di Aminatou Haidar per il rispetto dei diritti umani nel Sahara Occidentale beneficia di un largo sostegno negli Stati Uniti. Del resto è stato grazie alla pressione dell’Ambasciata americana a Rabat che nel 2006 l’attivista è riuscita ad ottenere il passaporto per poter viaggiare all’estero. L’appoggio del Centro Robert F. Kennedy, che gli ha conferito il suo prestigioso premio nel 2008 e che segue da vicino l’evolversi della situazione nella regione, è stato ugualmente determinante. Per capire il peso rivestito da questo centro, basti sapere che il vincitore dell’edizione 2009, il successore dell’attivista saharaoui, si è visto consegnare il premio alla Casa Bianca, dalle mani del presidente Obama in persona.

La gestione americana
Nei giorni che hanno seguito l’espulsione di Aminatou Haidar, Jeffrey Feltman, assistente di Hilary Clinton incaricato dell’area mediorientale e nordafricana, aveva utilizzato toni molto duri nei confronti dell’ambasciatore marocchino negli Stati Uniti, Aziz Mekouar. Con il passare dei giorni, la richiesta avanzata da alcuni paesi (come Messico e Costa Rica) di inscrivere il caso Haidar all’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU si stava facendo sempre più pressante. Il Marocco è riuscito ad impedirlo solo grazie alla ferma opposizione dell’alleato francese, che ha sistematicamente posto il suo veto.
Nell’edizione del 17 dicembre, il quotidiano El Pais riporta una notizia secondo cui Mohamed VI avrebbe inviato a Washington il suo fedele amico Fouad Ali El Himma e Yacine Mansouri, capo della DGED, per negoziare il ritorno di Aminatou Haidar. Sicuri della loro posizione, una volta arrivati negli Stati Uniti i diplomatici marocchini sono caduti dalle nuvole. “Un responsabile marocchino è rimasto profondamente scioccato dal tono di Hilary Clinton”, riferisce una fonte vicina al governo americano. Di fronte alla collera del Segretario di Stato, i Marocchini non hanno avuto altra scelta che piegarsi al diritto internazionale e acconsentire al rientro di Aminatou Haidar. Nonostante il fallimento, i responsabili marocchini cercano di salvare le apparenze. “In cambio chiedono ai differenti paesi coinvolti, Stati Uniti in testa, di ringraziarli ufficialmente per il loro atto di buona volontà”, rivela la stessa fonte.
Il Partito dell’Autenticità e della Modernità (PAM) guidato da El Himma si era affrettato ad inviare a Washington Fatiha Laayadi, Khadija Rouissi e Mbarka Bouida per sostenere la causa dello Stato marocchino nell’affare di fronte alle ONG e ai Think Tanks americani. Secondo il rappresentante di una nota ONG presente ad una delle conferenze sostenute, la performance degli inviati marocchini era al limite della decenza. La mancanza di rispetto dimostrata nei confronti della Saharaoui ha reso le loro posizioni irricevibili.
L’interessamento americano alla vicenda, maturato all’ombra dei negoziati ufficiali, spiega la brusca virata del Parlamento europeo. Il 17 dicembre, nella sorpresa generale, gli euro-deputati avevano rinunciato all’ultimo minuto a presentare una risoluzione di condanna dell’espulsione illegale della Haidar, al fine di non “compromettere la ricerca di una soluzione diplomatica al caso”. “Ho l’impressione che oggi ci siano le condizioni per giungere ad una soluzione. Questo dibattito supplementare non farebbe che complicare il lavoro dei nostri canali diplomatici”, aveva affermato il leader del gruppo socialista europeo, il tedesco Martin Schulz.

La Spagna sotto accusa
Lo stesso giorno, il ministro degli Esteri spagnolo Miguel Angel Moratinos si era presentato davanti al Parlamento per illustrare la strategia diplomatica spagnola nella vicenda, soggetta a forti critiche interne. Per la prima volta Moratinos ha riconosciuto di essere stato informato dal suo omologo Taieb Fassi Fihri dell’espulsione di Aminatou Haidar fin dal 13 novembre, vale a dire la sera dell’arrivo dell’attivista all’aeroporto di Laayoune.
All’inizio di questa settimana, il Parlamento spagnolo aveva aumentato la sua pressione sull’esecutivo, chiedendo una risoluzione rapida della vicenda e, soprattutto, ribadendo il diritto all’autodeterminazione del popolo saharaoui. Durante gli incontri con gli inviati stranieri, la strategia difensiva adottata dalle autorità marocchine ha fatto leva sul timore di possibili disordini a Laayoune e Smara, nel caso di un ritorno di Aminatou Haidar. Sul posto la situazione resta effettivamente tesa (vedi reportage). Il prossimo round di discussioni informali organizzato da Christopher Ross tra il Marocco e il Fronte Polisario non può più ignorare il problema del rispetto dei diritti umani nel Sahara Occidentale.

La dichiarazione. El Himma volta gabbana
Fouad El Himma, che fino a poco tempo fa utilizzava toni di minaccia all’indirizzo della Spagna e dell’Europa riguardo alla vicenda dell’attivista saharaoui, spiega ora, dalle colonne del quotidiano Al Jarida Al Oula (edizione del 18 dicembre), che la salute di Aminatou Haidar “interessa tutti i Marocchini”. Dal momento che si tratta di una “questione umanitaria”, è possibile cercare una soluzione provvisoria che “le permetta di rientrare a casa dai suoi figli”. Dopo di ché, afferma il fondatore del PAM, l’attivista saharaoui dovrà tuttavia scegliere la sua nazionalità, perché “non è possibile concedere uno status particolare agli abitanti della regione”. Il fondatore del PAM dichiara che la situazione nel Sahara Occidentale “resta nelle mani della comunità internazionale, la quale non riconosce la sovranità marocchina sul territorio, ma sancisce la legittimità della sua amministrazione da parte del Marocco. Per questo sono le leggi marocchine ad esservi applicate, in attesa di una decisione definitiva”. Non bisogna dimenticare che il PAM, come del resto l’intera classe politica marocchina, aveva denunciato con forza “il comportamento della suddetta Aminatou Haidar”. “Ci opporremo, con tutti i mezzi a nostra disposizione, al ritorno della Haidar in Marocco, Stato che lei stessa ha rinnegato”, aveva affermato Biadillah all’inizio di dicembre.




REPORTAGE


Nel Sahara ritorna la tensione


La vicenda di Aminatou Haidar e l’ondata di repressione diretta contro gli attivisti saharaoui hanno fatto crescere la tensione a Laayoune e a Smara. Le forze di sicurezza controllano il territorio. Le autorità marocchine negano l’inizio di una nuova escalation, ma la tensione è palpabile.


Domenica 13 dicembre, il sole è allo zenith e inonda di luce le vie del centro di Laayoune. Seduti nelle terrazze dei bar, gli uomini guardano passare il tempo. I bambini giocano nelle strade, nel complesso l’ambiente sembra sereno. Lo sciopero della fame di Aminatou Haidar, dopo aver fatto il giro del  mondo, non sembra sconvolgere la vita degli abitanti. Le persone interrogate per strada sulla vicenda dell’attivista saharaoui evitano di pronunciarsi in merito e, dopo aver gettato occhiate furtive attorno a loro, mettono generalmente fine alla discussione. “E’ una tematica sensibile da queste parti”, inizia a spiegare un ragazzo seduto a lato del Café Las Dudas, in pieno centro. Nemmeno lui osa finire il discorso: un uomo posizionato sul marciapiede di fronte gli fa segno di interrompere la conversazione. “Nessuno ne parla in pubblico a causa dei poliziotti in borghese disseminati dappertutto. Controllano l’intera città”, spiega Djimi Galia, attivista saharaoui, vice-presidente dell’ASVDH (l’Associazione saharaoui delle vittime di gravi violazione dei diritti umani).
Nel pomeriggio, una deputata spagnola arriva all’aeroporto Hassan I di Laayoune. Rosa Diez, presidente del partito UPyD (centro) e amica di Aminatou Haidar, è stata incaricata dalla militante di consegnare una lettera ai suoi figli, Hayat, 15 anni e Mohamed, 13 anni. La riunione si svolge in presenza del padre, a casa di un membro della famiglia. L’appartamento è situato poco lontano dal centro. “Penso a voi tutti i giorni”, scrive l’attivista saharaoui. Dopo aver letto la lettera il giovane Mohamed si scioglie in lacrime. Hayat, invece, è combattuta tra il sostegno allo sciopero della fame condotto dalla madre e le possibili conseguenze a cui questo potrebbe portare. “E’ il  mio modello, lei è tutto per me. Deve continuare la sua battaglia fino alla fine. Ma allo stesso tempo resta pur sempre mia madre…”. Una mezz’ora dopo l’arrivo della deputata, una quindicina di poliziotti in borghese, travestiti da giornalisti, entrano nell’appartamento muniti di videocamere e macchine fotografiche.
Il padre, sotto stress, fa allontanare tutti dall’appartamento. Rosa Diez si reca allora a casa di Djimi Galia, amica da sempre di Aminatou Haidar, ma anche là arrivano subito i poliziotti. “Ci hanno detto che bisognava avere una autorizzazione del governo per poter continuare la visita. E che se non ce l’avevamo bisognava lasciare subito l’abitazione. Io ho replicato: una autorizzazione? Questo territorio non è sotto la tutela marocchina? Perché allora quando sono a Casablanca, a Fes o a Marrakech non ho bisogno di chiedere un’autorizzazione per vedere i miei amici? Siamo partiti per non creare problemi a Djimi e alla sua famiglia”, spiega la deputata spagnola.

50 prigionieri politici
Le abitazioni degli attivisti saharaoui sono sorvegliate costantemente dalla polizia. “La situazione dei diritti dell’uomo qui è critica”, spiega Brahim Elansari, militante saharaoui, membro di Annajh (estrema sinistra) e dell’AMDH. “I Saharaoui che militano pacificamente per il loro diritto all’autodeterminazione sono messi a tacere; per noi non esiste libertà di opinione, di espressione, di riunione o di manifestare”. Gli attivisti in più denunciano il rifiuto delle autorità marocchine di riconoscere le associazioni saharaoui come l’ASVDH o la CODESA (di cui è presidente Aminatou Haidar), malgrado il via libera del tribunale amministrativo. “Spesso siamo vittime di arresti e di processi arbitrari. Una cinquantina di prigionieri politici saharaoui restano tuttora in carcere”, prosegue Brahim Elansari.
E’ difficile capire se la battaglia di questi militanti per l’autodeterminazione sia condivisa dall’insieme dei Saharaoui. Secondo una fonte della Sicurezza Nazionale di stanza a Laayoune, solo “una trentina di persone” portano avanti la lotta. Per molti abitanti la priorità resta la stessa che altrove: assicurarsi i mezzi per sopravvivere e risolvere i problemi quotidiani. “Il Marocco, il Polisario, Aminatou Haidar, tutto questo non mi interessa. La sola cosa che voglio è trovare un lavoro”, si lascia andare Hassan, un giovane saharaoui senza alcuna prospettiva per il futuro.
“Dal 2008 l’Intifada ha perduto molta della sua forza, cerchiamo continuamente di riflettere sul modo di ricostituire il movimento”, riconosce Brahim Elensari. “Abbiamo già avuto molte perdite nel corso della nostra lotta, e dallo scontro con le autorità abbiamo ricavato più sconfitte che vittorie”, si lamenta un altro militante. Gli attivisti saharaoui non beneficiano di alcuno spazio pubblico e l’adesione alla loro battaglia può essere misurata soltanto dal seguito che ricevono le loro manifestazioni. Tuttavia, la massiccia presenza della polizia ne ostacola sempre più l’organizzazione. Il 10 dicembre, giornata mondiale dei diritti dell’uomo, non è stata autorizzata alcuna conferenza a Laayoune, nemmeno quella dell’AMDH. “Le autorità hanno avuto paura che venisse politicizzata dai Saharaoui”, spiega un membro della sezione locale.
Sotto pressione, gli attivisti devono dunque accontentarsi di azioni simboliche come l’invito allo sciopero della fame di 24 ore in sostegno ad Aminatou Haidar o il rifiuto di indossare abiti nuovi il giorno dell’Aid, come vorrebbe la tradizione. Nonostante ciò i militanti non perdono la speranza. “Nel momento in cui gli sarà concessa l’occasione, tutti i Saharaoui scenderanno in strada”, annuncia Mohamed, un sostenitore di Aminatou Haidar. Martedì sera l’ennesimo tentativo di riunione è stato represso a Matala, quartiere saharaoui di Laayoune, dove hanno luogo la maggior parte delle manifestazioni.

I graffiti della RASD
Che cosa succede a Smara, città distante circa cento chilometri da Laayoune, situata in pieno deserto e considerata come il bastione storico della lotta saharaoui? “Non c’è niente da vedere qui, è tutto calmo”, sostengono i poliziotti al posto di blocco posizionato all’ingresso della città. L’arrivo dei giornalisti, tuttavia, sembra un po’ preoccuparli. “Che cosa siete venuti a fare qui? Chi dovete vedere? Per quale motivo?”. Dei poliziotti in borghese raggiungono il posto di blocco per avere informazioni, seguiti dopo qualche minuto dal responsabile della Sicurezza Nazionale e dalla sua squadra. “Come già saprete, non avete il diritto di intervistare alcune delle persone che risiedono in città senza una autorizzazione ufficiale”. Perché? “E’ così e basta, succede la stessa cosa in tutti i paesi del mondo”, risponde seccato il responsabile, rifiutandosi di fornire ulteriori spiegazioni. Dopo un’ora di attesa e svariate telefonate, dopo aver riempito schede su schede per i servizi di informazione e dopo aver risposto di nuovo alle domande sul motivo del nostro arrivo, siamo riusciti ad entrare in città.
Non c’è molta gente nella strada principale, a parte i militari e la polizia. Alcuni Marocchini, pur badando alle loro occupazioni, osservano a distanza le manovre del responsabile della sicurezza e della sua squadra, che seguono le orme dei giornalisti ovunque essi vadano. In giro non si vede nemmeno un Saharaoui. La tensione è palpabile. Nei quartieri saharaoui, le pareti delle case sono coperte di scritte e disegni, a loro volta cancellati dalle autorità con un sottile strato di cemento. E’ possibile ancora distinguere dei graffiti che rappresentano la bandiera della RASD (Repubblica Araba Democratica dei Saharaoui). A Smara, incontrare gli attivisti saharaoui è impossibile. “Ci sono troppi rischi di rappresaglie all’indirizzo delle loro famiglie, la pressione è enorme”, spiega un militante al telefono. “Dopo l’arresto di Aminatou Haidar ci sono state delle manifestazioni, immancabilmente represse. Tre ragazzi tra i 21 e i 22 anni sono stati arrestati all’inizio di dicembre. Il primo è stato condannato ad un anno di carcere giovedì scorso, con l’accusa di vilipendio alla bandiera nazionale. Gli altri due sono stati trasferiti a Laayoune”.

Chi rappresenta i Saharaoui?
“Le autorità dicono che siamo dei separatisti, degli indipendentisti. Noi difendiamo semplicemente gli interessi dei Saharaoui, reclamiamo il nostro diritto all’autodeterminazione”, spiega a Laayoune Dahha Rahmouni, una militante “scomparsa” durante gli anni di piombo e poi liberata, come Aminatou Haidar, Djimi Galia e Brahim Dahane, dopo il cessate il fuoco del 1991. “Abbiamo incontrato i parlamentari saharaoui qui a Laayoune. Ci hanno detto che se avessero difeso la nostra causa avrebbero finito per danneggiare i loro interessi”.
La ristrutturazione del CORCAS (il Consiglio consultivo per il Sahara), annunciata al momento dell’ultimo discorso reale, rilancia la questione della rappresentanza dei Saharaoui. “Il discorso del re costituisce un ulteriore passo avanti nell’escalation lanciata in quest’ultimo anno, ma allo stesso tempo è la conferma di un fallimento – afferma un militante – poiché dimostra che il CORCAS e le politiche portate avanti fino ad oggi non funzionano”. Dal canto suo Dahha Rahmouni assicura che “lo Stato marocchino non nutre la minima fiducia verso i Saharaoui, nemmeno verso quelli dichiaratamente pro-marocchini. Quale potere ha il CORCAS? Non mi sembra sia stato lui a proporre il piano per l’autonomia”. Poi prosegue: “noi non siamo membri del Fronte Polisario, ma non c’è che lui a rappresentare i Saharaoui e a difenderci veramente, non vedo nessun altro”.
I militanti saharaoui incontrati a Laayoune ritengono che la loro lotta per l’autodeterminazione sia assolutamente legittima. Denunciano la volontà dello Stato marocchino di farli passare per dei “mercenari”. “Quando i Saharaoui arrivano fino a Tindouf, lo fanno per riunirsi alle loro famiglie rimaste dall’altra parte, per incontrare l’altra metà del popolo saharaoui. Entrare nel territorio della RASD non significa complottare con un paese nemico. Se fossero dei Marocchini ad attraversare la frontiera allora potrei comprendere l’accusa di tradimento, ma nel caso dei Saharaoui no!”. Di fronte alla nuova ondata repressiva dispiegata negli ultimi mesi e culminata con l’espulsione di Aminatou Haidar, alcuni militanti di Laayoune pensano che il Fronte Polisario non debba più continuare i negoziati con lo Stato marocchino, “se non vuole correre il rischio di perdere la sua legittimità qui”. Si dicono “delusi” dall’atteggiamento tenuto dalla comunità internazionale di fronte alle continue violazioni dei loro diritti perpetrate dal Marocco. “L’ONU è debole, e i paesi occidentali non pensano che ai loro interessi”.
L’espulsione di Aminatou Haidar, tuttavia, ha permesso di riportare la questione del conflitto nel Sahara Occidentale al centro dell’attenzione. “Pensavamo di essere stati ormai dimenticati, ma adesso si parla di noi in tutto il mondo”, spiega Djimi Galia. “Ancora una volta il Marocco ha dato prova di non preoccuparsi di rispettare le leggi in vigore. Se riusciremo ad attivare un meccanismo di controllo internazionale, sulla questione del rispetto dei diritti dell’uomo, saremo riusciti a fare un passo nella giusta direzione”, assicura un militante. La MINURSO potrebbe incaricarsi di questo compito, cosa che il Marocco ha rifiutato in modo categorico appena qualche mese fa, al momento del rinnovo della missione dell’ONU.
A Laayoune i militanti saharaoui attendono ancora il ritorno di Aminatou Haidar. Al momento del fallito tentativo spagnolo di ricondurla a casa, due settimane fa, i suoi sostenitori si sono subito mobilitati e lo stesso ha fatto la polizia. “Credo che il Marocco si sia ormai reso conto che con il ritorno di Aminatou Haidar potrebbe cominciare una nuova Intifada. Tutti qui vogliono fare qualcosa. Vedrete cosa succederà quando Aminatou rientrerà”, afferma un militante in tono di sfida. Fino a questo momento, dall’espulsione dell’attivista, a Laayoune non ha avuto luogo nessuna manifestazione degna di nota. “Oggi la situazione è ancora calma”, confessa in maniera discreta un giovane commerciante marocchino, che non sembra farsi illusioni su quello che potrà succedere a breve. “Ma come si dice, domani è un altro giorno…”.

Christophe Guguen