Legittimo sospetto

Dopo un anno e ventisette giorni di detenzione, oggi 5 novembre 2010 è stata fissata finalmente (dopo un rinvio della precedente udienza del 15 ottobre 2010), davanti al Tribunale di prima istanza di Ain Seba’a (a Casablanca), la prima udienza del processo contro i sette attivisti saharawi arrestati all’aeroporto di Casablanca al rientro da un viaggio negli accampamenti di Tindouf.
Ricordiamo che l’8 ottobre dell’anno scorso sette militanti saharawi, Brahim Dahane, Lachgare Degia, Ahmed Nassiri, Ali Salem Tamek, Yahdih Ettarrouzi Rachid Sghavar e Saleh Lebaihi erano stati arrestati al loro rientro da un viaggio a Tindouf. Un arresto molto mediatizzato, presentato all’epoca come una specie di resa dei conti finale coi “traditori al soldo del Fronte Polisario”, e che aveva visto la discesa in campo dello stesso Re Mohammed VI che, il 6 novembre successivo, nel corso di un discorso per il 34° anniversario della Marcia Verde, aveva solennemente proclamato che “è finito il tempo del doppio gioco e della debolezza… O si è patrioti o si è traditori. Non c’è via di mezzo tra patriottismo e tradimento”. In mezzo vi era anche stato lo sfortunato (per il governo marocchino) tentativo di espulsione di Aminattou Haidar, che la dirigenza marocchina era stata costretta a rimangiarsi sotto l’urto dello sdegno internazionale.
Date queste premesse, era forte la preoccupazione per la sorte degli arrestati, tanto più che essi erano stati deferiti davanti al Tribunale militare di Rabat e accusati di reati gravissimi (la traduzione giuridica della tesi del “tradimento”), puniti addirittura con la pena di morte.

Reati contestati:

art. 190, del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato ogni Marocchino o straniero che ha, con qualsiasi mezzo, intrapreso una offesa  alla integrità del territorio marocchino. Quando essa è commessa in tempo di guerra, il colpevole è punito con la mo”.rte. Quando è commessa in tempo di pace, il colpevole è punito con la reclusione da cinque a venti anni.
art. 191 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza esterna dello Stato, chiunque intrattenga intelligenze con agenti di una autorità straniera aventi come oggetto o come effetto di nuocere alla situazione militare o diplomatica del Marocco. Quando essa è commessa in tempo di guerra, la pena è della reclusione da cinque a trenta anni. Quando è commessa in tempo di pace, la pena è della prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram.”
art. 206 del codice penale: “E’ colpevole di attentato alla sicurezza interna dello Stato e punito con la prigione da uno a cinque anni e di una ammenda da 1000 a 10.000 dhiram chiunque, direttamente o indirettamente, riceva da una persona o da una organizzazione straniera e sotto qualsiasi forma dei doni, dei presenti, prestiti o altri vantaggi destinati o impiegati in tutto o in parte a condurre o remunerare in Marocco una attività o una propaganda di natura tale da recare offesa  alla integrità, alla sovranità o all’indipendenza del Regno o a minare la fedeltà che i cittadini devono allo Stato e alle Istituzioni del popolo marocchino”.
art. 207 del codice penale: “Nei casi previsti dall’articolo precedente, deve essere obbligatoriamente disposta la confisca dei fondi o degli oggetti ricevuti. Il colpevole può inoltre essere interdetto, in tutto o in parte, dall’esercizio dei diritti previsti all’art. 40 (diritti civici, civili e familiari)”.

L’iter processuale
Nel corso di questo anno, e soprattutto dopo la brutta figura internazionale nella vicenda di Aminattou Haidar, le Autorità marocchine hanno scarcerato dapprima Lachgare Degia, per motivi di salute e, qualche mese dopo, anche Yahdih Ettarrouzi Rachid Sghavar e Saleh Lebaihi.
Infine, il 23 settembre 2010, a seguito di dichiarazione di incompetenza del Tribunale militare di Rabat, le accuse più terribili, quelle di “attentato alla sicurezza esterna dello Stato” previste dagli artt. 190 e 191 del codice penale, sono cadute e, conseguentemente, gli atti sono stati rimessi al Tribunale civile.
Dunque la situazione processuale dei sette attivisti è notevolmente migliorata (e già questo costituisce una vittoria importante per i militanti per i diritti umani che hanno lavorato su questo dossier). Gli imputati devono ormai rispondere dei soli delitti previsti dagli articoli 206 e 207 del codice penale, per i quali è prevista una pena massima di cinque anni di prigione e 10.000 dirham di ammenda.
Tale derubricazione del reato comporta un’altra importante conseguenza, per ciò che concerne lo stato di libertà dei 3 attivisti ancora detenuti. Stando a quanto riferito dagli avvocati della difesa, infatti, per i reati contestati (che sono “delitti” e non “crimini”) il termine massimo di carcerazione preventiva è di un mese. Nel caso di specie, i tre sono detenuti da oltre un anno, dovrebbero dunque essere immediatamente scarcerati.

Il collegio difensivo:
Mohamed Bokhled
Bazid Lahmad
Mohamed Lahbib Erguibi
Mohamed Fadel Laili
Nour Eddine Dalil (Casablanca)
Rachid Kenzi (Casablanca)
Abdalla Shalouk

Il processo
La precedente udienza del 15 ottobre 2010 era stata rinviata per la mancata traduzione degli imputati detenuti. Asseritamente per un errore della Procura che aveva inoltrato l’ordine di traduzione al carcere di Casablanca piuttosto che a quello militare di Rabat.
In realtà una gazzarra indescrivibile, messa su da un gruppo di avvocati marocchini che niente avevano a che fare col processo, aveva impedito qualsiasi discussione, perfino quella sullo stato di libertà dei tre imputati che sono illegalmente detenuti da oltre un anno.
All’udienza del 5 novembre è successo anche di peggio, con aggressioni verbali e fisiche, e due giornalisti spagnoli feriti. Il rapporto di Elise Taulet e Michèle Decaster, che segue, illustra vividamente gli avvenimenti.
Anticipiamo intanto che, come reazione delle Autorità, si registra solo un ineffabile comunicato, diffuso dalla agenzia MAP l’8 novembre 2010, nel quale  il Ministero della Comunicazione si dice “sbalordito” non per l'indegna gazzarra sviluppatasi sotto gli occhi almeno compiacenti delle forze di sicurezza, ma piuttosto per le informazioni riportate dalla stampa spagnola a proposito degli “alterchi registrati a margine dell’udienza tenuta il 5 novembre” nei confronti del “cosiddetto gruppo Tamek”.
“Si è trattato – spiega il comunicato – solo di qualche diverbio tra cittadini che difendono l’integrità territoriale e alcuni separatisti conosciuti per la loro connivenza con lo straniero”. Quanto ai due giornalisti spagnoli rimasti feriti, non si comprende in base a quale salto logico, finiscono per essere essi stessi responsabili della loro aggressione. “Secondo le informazioni assunte dai competenti servizi …(infatti) essi hanno deliberatamente trasgredito le procedure giuridiche e amministrative vigenti, giacché l’inviato della radio Cadena Ser non dispone di accredito legale per esercitare in Marocco, mentre il corrispondente di TVE non aveva l’autorizzazione a filmare, che viene ordinariamente rilasciata dal Centro cinematografico marocchino ai canali stranieri, su autorizzazione scritta del Ministero della Comunicazione”.
Invano ci si aspetta una parola sull’aggressione e sui suoi responsabili, perché il comunicato prosegue insistendo sulla “flagrante violazione della Legge marocchina”.
Né si legge una parola di deplorazione nei confronti degli scalmanati che hanno inscenato minacciose manifestazioni “patriottiche” all’interno del Tribunale brandendo le foto del re e paralizzando l’attività giudiziaria, perché tutta la colpa è delle “provocazioni messe in atto, abitualmente, dagli elementi separatisti”, che cercano in modo esecrabile di coinvolgere giornalisti stranieri.

Va registrato infine che,  il 9 novembre scorso, gli avvocati hanno presentato domanda di liberazione per i tre detenuti. Bisogna attendere una o due settimane per la decisione.

Ciò che è importante rilevare:

1)    La Giustizia marocchina non è in grado (o non vuole) celebrare il processo. Le incredibili manifestazioni, svoltesi all’interno dello stesso Palazzo di Giustizia, non sono state minimamente impedite da parte delle forze di polizia e il Tribunale ha omesso spudoratamente di esercitare i poteri di Polizia dell’udienza che gli competono.
2)    La Giustizia marocchina non è in grado di svolgere un processo equo. Il clima di odio e di intimidazione verso gli imputati determina una situazione di “legittimo sospetto” che dovrebbe imporre il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria.
3)    Il governo marocchino non garantisce l’incolumità fisica e morale degli osservatori internazionali. Per quanto sia discutibile che degli osservatori (la cui unica credibilità risiede nella loro posizione di imparzialità) prendano parte, sia pure come “scudi umani”, alle scaramucce, resta che la presenza ai processi di esponenti della comunità internazionale deve essere tutelata e garantita dai governi, e che il governo marocchino non ha fatto niente per proteggerne l’integrità fisica e morale.



Dal Rapporto redatto da Elise Taulet, avvocato a Parigi, e Michèle Decaster, segretario generale dell’AFASPA

(…) La vigilia dell’udienza del 5 novembre, abbiamo ricevuto rassicurazioni circa la presenza dei detenuti e dunque nessun ostacolo avrebbe impedito la celebrazione del processo.
Bisogna anche segnalare che si era alla vigilia delle celebrazioni del 35° anniversario della Marcia Verde.
La mattina (del 5 novembre) usciamo dall’Hotel Ibis Voyageurs con l’avvocato italiano Francesca Doria per recarci al tribunale di Ain Sbaa, quando l’autista di un taxi si offre di condurci. Si rivolge a Francesca in un italiano perfetto: “Lei è italiana! Abita a Napoli!” Ci accorgeremo poi che una vettura con due poliziotti a bordo ci ha seguito fino al Tribunale. Nei pressi vediamo un centinaio di persone manifestare. Si tratta di abitanti di una bidonville che protestano contro l’arresto di due giovani che si erano opposti alla distruzione delle loro baracche.
Incontriamo i difensori dei diritti umani saharawi (ASVDH, CODESA, CSPRON, FAFESA) e tre osservatori svedesi che sono già sul posto. Erano potuti entrare all’interno del tribunale per chiedere di essere ricevuti dal giudice che pensavano di poter incontrare verso mezzogiorno. Quando ci raggiungono anche gli osservatori spagnoli e inglesi, ci avviciniamo alla garrita posta all’ingresso del tribunale. Siamo in tutto 23 (2 francesi, 1 Inglese, 1 italiano, 5 svedesi e 14 spagnoli) . L’Ambasciata svedese ha inviato due osservatori e quella Finlandese uno.
(…)
Mentre attendiamo in un caffè vicino, un gruppo di marocchini comincia a provocare gli studenti saharawi seduti al nostro tavolo scandendo slogan filo-marocchini. Li rivedremo più tardi nell’aula di udienza.
Verso le 13 entriamo in Tribunale senza difficoltà. Nell’ingresso sono state installate delle barriere per filtrare l’accesso all’aula di udienza. Pur essendo giunti in largo anticipo, troviamo i 16 banchi riservati al pubblico quasi completamente occupati da 90 persone… Gli unici posti disponibili sono nella penultima fila e qui ci sediamo insieme a due interpreti. Ci rendiamo conto che uno dei tre uomini seduti dietro di noi registra le nostre conversazioni con un telefono portatile.
(…) L’aula si riempie poco alla volta, soprattutto di avvocati che erano stati presenti alla precedente udienza. Ne contiamo una quarantina. Il corridoio centrale si riempie ben presto di una folla accalcata che non consente di accedere al banco dei giudici (…) Riusciamo a intravvedere le famiglie degli imputati e i loro amici fuori dall’aula: non possono entrare.
(…)
Intorno alle 13.50, mentre il frastuono che regna fuori dall’aula si calma per un momento, alcuni avvocati usciti dall’aula di udienza rilasciano una dichiarazione alla stampa, sottolineata da applausi, subito seguita dall’inno marocchino. Immediatamente il pubblico seduto in aula si alza, serra i pugni, intona l’inno marocchino e si unisce agli slogan e ai canti nazionalisti. Si capisce chiaramente che il pubblico è composto di comparse che interpretano la loro parte.
Intravvediamo dei ritratti del Re e delle bandiere marocchine che si agitano nel corridoio sulle teste dei Saharawi circondati dalla folla. Questi ultimi mantengono un atteggiamento impassibile, nonostante le grida e gli insulti. Tra di loro, le famiglie dei detenuti che non sono potute entrare nell’aula.
Nell’aula alcuni uomini salgono sui banchi, alcuni li scavalcano. Un vecchio si fascia della bandiera marocchina. Un avvocato che aveva brandito un ritratto del re durante l’udienza del 15 ottobre, entra in aula, con una bandiera marocchina appesa alla toga e il ritratto del re in mano. La gazzarra dura più di un quarto d’ora.
Alle 14.05 suona la campanella. I quattro imputati a piede libero attendono penosamente. Quando i tre prigionieri entrano, sono tutti in piedi. Si intravvedono solo le loro braccia alzate, le dita a forma di V. Scandiscono un breve slogan indipendentista al quale il pubblico risponde con un canto nazionalista.
Al gesto di un avvocato, torna il silenzio. Egli prende la parola, ma dal fondo della sala non riusciamo a sentire nulla. Tanto più che la gente che ci sta davanti continua a cantare. Sapremo più tardi che questo avvocato marocchino ha chiesto il rinvio dell’udienza a causa della mancanza di posti per i difensori. Riprendono gli slogan degli imputati, sono sommersi da quelli degli avvocati e del pubblico.
Alle 14.20, la Corte si ritira. I detenuti sono fatti uscire dall’aula. In nessun momento il Presidente ha svolto le funzioni di Polizia dell’udienza e non si è potuta tenere alcuna discussione. Non si è potuto porre la questione del superamento dei termini massimi di custodia preventiva. Solo più tardi sapremo che l’udienza è stata rinviata al 17 dicembre 2010.
Quando i magistrati si allontanano, la tensione subito sale. Invettive e insulti vengono rivolti ai saharawi e agli osservatori. Un giornalista spagnolo viene allontanato manu militari per aver scattato una foto, mentre a molte altre persone (fotografi marocchini, pubblico, avvocati) viene consentito di fare foto coi telefonini. Sapremo poi che due giornalisti spagnoli sono stati aggrediti fisicamente dal pubblico e uno dei due, trattenuto dalla polizia per più di un’ora, sarà costretto a cancellare le foto che aveva scattato.
L’aula non si svuota. Le scene che si susseguono nella più grande confusione e in un clima di violenza fisica e verbale sono difficili da descrivere. Uomini in toga urlano in tono quasi isterico contro gli osservatori. I pochi poliziotti in uniforme lasciano fare, come anche i numerosi poliziotti in borghese presenti in aula.
Il difensore dei diritti umani Larbi Messaoud viene proiettato fuori dall’aula da uomini infuriati. Un fotografo, che tiene stretto il suo apparecchio, viene scaraventato con violenza sul banco e riempito di botte da due uomini, uno dei quali è un avvocato, sotto gli occhi di Elise Taulet.
Rifiutiamo di lasciare l’aula, così come ci viene chiesto da più persone in abiti civili, perché alcuni osservatori spagnoli e sei Saharawi, tra cui i quattro imputati a piede libero, sono circondati da una trentina di persone. I Saharawi si lasciano insultare e noi vediamo degli avvocati che aggrediscono fisicamente gli imputati a piede libero, ivi compresa la donna. La camicia di Ettarouzi Yahdih viene completamente strappata. Quando lo incontreremo la sera, ci mostrerà tracce di colpi e di un morso all’avambraccio destro. La polizia conduce tutti e quattro nella sala dei prigionieri.
Siamo raggruppati in fondo all’aula con degli osservatori spagnoli, una donna e un militante saharawi. Mentre Michèle Decatser continua a prendere appunti, quattro uomini la invitano ad andarsene perché non ha niente da fare in Marocco. Bruscamente uno degli uomini le afferra il bloc-notes e se ne scappa. Michèle Decaster riesce a fermarlo e a recuperare i suoi appunti. Un giornalista marocchino, indignato per quanto accaduto, si interpone per proteggerla. Viene insultato da altri Marocchini furiosi che lo minacciano. E’ livido, mostra la sua tessera di giornalista, gronda di sudore, si slaccia la cravatta.. Nello stesso tempo una marocchina tenta di afferrare nuovamente il bloc-notes dalle mani di Elise Taulet. Dei poliziotti in borghese, vedendo che le cose si mettono male, si posizionano davanti ai banchi dove ci troviamo e la situazione si calma.
Poco dopo i quattro imputati a piede libero vengono fatti entrare nell’aula di udienza, sei poliziotti in uniforme si posizionano davanti. Sopraggiungono nell’aula che si è un po’ svuotata una dozzina di poliziotti in borghese che formano un cordone lungo il quale gli imputati possono passare. Noi non siamo autorizzati a seguirli.
L’avvocato che si era avvolto nella bandiera marocchina torna nell’aula, senza toga, e ordina alla quarantina di persone ancora presenti di andarsene. Queste obbediscono e si alzano. Ma l’avvocato cambia idea e tutti si siedono di nuovo. Infine chiede loro di alzarsi nuovamente. Il pubblico lascia l’aula.
Anche noi ci apprestiamo a seguirli quando le porte si chiudono. All’esterno le manifestazioni contro i Saharawi che non sono mai cessate riprendono più forti. Per “nostra” sicurezza, i poliziotti ci trattengono. Undici osservatori internazionali si ritrovano quindi chiusi nell’aula di udienza insieme a quattro saharawi.
Alcuni uomini che sembrano poliziotti, ma che non si sono in alcun modo qualificati, ci dicono che “i cittadini sono molto arrabbiati perché ci hanno visto scattare delle foto” Per “nostra” sicurezza, quello che sembra essere il capo ci chiede di consegnargli i nostri apparecchi fotografici e, visto che non lo facciamo, ci minaccia di una perquisizione corporale integrale “da parte di uomini per gli uomini e di donne per le donne”. Di fronte alle nostre proteste, precisa che è una disposizione del Procuratore del re. Noi ubbidiamo e consegniamo sei apparecchi fotografici, dei quali essi annotano marca e nome del proprietario, prima di lasciare l’aula.
Circa tre quarti d’ora più tardi, dei poliziotti in uniforme ci scortano fuori dell’aula e ci conducono senza alcuna spiegazione nel sotterraneo del Tribunale. Ci ritroviamo fuori all’uscita del parcheggio. Rifiutiamo di andarcene senza i nostri apparecchi fotografici ma questi poliziotti sembrano ignorare che ci erano stati presi. Finalmente ci restituiscono dapprima tre apparecchi, poi gli altri. Non ci viene fornita alcuna spiegazione. Sono circa le 17.
Mentre stiamo per andarcene, veniamo a sapere che i Saharawi che non erano potuti entrare nell’aula di udienza sono chiusi in un’aula dalla quale non possono uscire a causa delle minacce dei manifestanti marocchini. Decidiamo dunque di aspettarli. Il console Spagnolo che è venuto per incontrare i giornalisti spagnoli feriti rilascia una dichiarazione alla stampa. Delle persone che attendono all’esterno lo chiamano ripetutamente col nome di “Franco”. Egli discute con le autorità e ci spiega che si farà carico della sicurezza di tutti gli osservatori internazionali ma che non ha titolo per proteggere i Saharawi. Resterà fino alla fine.
(…)
Verso le 18,15… vediamo arrivare dal corridoio di accesso al Tribunale un gruppo di Marocchini che si precipitano sui Saharawi . Dei poliziotti in borghese si posizionano a difesa dei saharawi. D’improvviso si spengono le luci . Le urla che sentiamo ci fanno temere il peggio. La luce ritorna, si spegne di nuovo e si sentono grida. La confusione è totale.
Quando torna la luce, vediamo i Marocchini dare la caccia ai Saharawi che scappano attraverso il parcheggio. I poliziotti non tentano minimamente di fermare questa caccia all’uomo. Ci invitano invece a lasciare il Tribunale e chiudono i cancelli dietro di noi.
(…)
Restiamo ancora un momento davanti ai cancelli del tribunale. I poliziotti in borghese ci chiedono un’altra volta di andarcene perché, secondo loro, “se i giovani ritornano, vi aggrediranno e noi non possiamo farci niente. E’ molto pericoloso, bisogna andarsene”. Il Console di Spagna organizza la partenza degli osservatori. La polizia chiama dei taxi che ci conducono ai rispettivi alberghi.
(…)
Parigi, 7 novembre 2010


Presenze internazionali:


1. Elise TAULET, Francia
2. Michèle DECASTER, Francia
3. Francesca DORIA, Italia
4. Bryony PYONOR, Gran Bretagna
5. Cecilia ASKLOF, Svezia
6. Ylva LENNARTSSON HARTMANN, Svezia
7. Thomas Framby, Svezia
8. Kavi BERG, Svezia
9. Frideborg OGNISSANTI, Svezia
10. Ines MIRANDA NAVARRO, Spagna
11. Concepción HIDALGO RODRIGUEZ, Spagna
12. Gemma ARBESU SANCHO, Spagna
13. Jesus Maria MARTIN MORILLO, Spagna
14. Luis MANGRANE CUEVAS, Spagna
15. Jose M. PEREZ VENTURA, Spagna
16. Juan Francisco SOROETA, Spagna
17. Aranzazu CHACON OMAZARA, Spagna
18. Rosa Esther BORRAS GALENDE, Spagna
19. Martin RODRIGUEZ FERNANDEZ, Spagna
20. Javier RUIZ GARCIA, Spagna
21. Itziar ITURRI ARRAZOLA, Spagna
22. Matilde PAREJO BUENO, Spagna
23. Olaia SAGREDO GALLASTEGUI, Spagna

Vi erano inoltre due rappresentanti dell’Ambasciata di Svezia, una dell’Ambasciata di Finlandia e un rappresentante di Human Rights Watch, oltre a sei giornalisti spagnoli:
Luis De Vega per ABC journal
Eduardo Marin per Radio Cadena Ser
Antonio Pareno per TVE
Zacarias Garcia per agenzia EFE
Marta Garde per agenzia EFE
Erena Calvo per El Mundo



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Il processo contro i sette attivisti saharawi

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