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Mondialisation.ca, 5 agosto 2013 (trad. ossin)



La vera causa della sollevazione popolare in Turchia? Il
 
capitalismo


Arkan Akin



A maggio 2013, centinaia di migliaia di persone scendevano in piazza nel mio paese natale, la Turchia. I media parlavano della distruzione di un parco e dell’islamizzazione della società; per niente convinto di queste spiegazioni, volendo partecipare e capire, ho deciso di tornare. A Istanbul mi è apparso evidente che la causa profonda di questo movimento era il capitalismo, tanto sviluppato in Turchia da meritarle il soprannome di “Little America”


Le rivolte popolari non nascono senza ragione

Tutto è cominciato quando qualche decina di attivisti del movimento per il “Diritto alla città” si è opposta alla distruzione del parco Gezi il 27 marzo 2013, affianco alla piazza Taksim, nel cuore di Istanbul.  In quel momento nessuno poteva immaginarsi che quello sarebbe stato l’avvio di una imponente sollevazione popolare. Poche persone organizzate e coraggiose si sono battute contro ciò che consideravano ingiusto e poi, indignate per la violenza della polizia, migliaia e poi ancora centinaia di migliaia di persone sono scese in piazza. Dopo pochi giorni vi erano manifestazioni in tutto il paese e, a Istanbul, la folla aveva costretto alla ritirata le forze dell’ordine ed era cominciata l’occupazione di Gezi.


Non era però la prima volta che dei manifestanti si trovavano di fronte ad una violenta repressione poliziesca. Qualche settimana prima il governo aveva impedito, anche questa volta in modo assai violento, la storica manifestazione del 1° maggio a piazza Taksim. In tema di libertà di espressione, l’ONG Reporters Sans Frontières ha pubblicato nel 2012 un rapporto intitolato “Turchia – La più grande prigione per giornalisti del mondo”.


Nel corso di una delle mie visite al quartiere Gazi (quartiere storicamente rivoluzionario di Istanbul) nel giugno 2013, ho conosciuto un giovane giornalista di “Yuruyus (La Manifestazione). Si tratta del settimanale marxista di Gazi ed è anche una casa editrice.  Questo giornalista mi ha raccontato l’operazione del governo del 18 gennaio 2013 contro “L’Associazione degli Avvocati Contemporanei”:


“Una pattuglia di intervento speciale ha fatto irruzione nei nostri uffici quel giorno. Hanno arrestato dei colleghi e sequestrato tutto il nostro materiale: le videocamere, l’equipaggiamento tecnico, i computer e perfino le matite colorate! Per me la cosa più terribile è stata di vederli portare via dei cartoni pieni di libri che avevamo pubblicato”.


Nei quartieri come Gazi a Istanbul, i più poveri e le minoranze dei quattro angoli del paese sono cresciuti con la repressione di Stato: gas lacrimogeni, gas al pepe, cannoni d’acqua, proiettili di gomma e, per qualcuno, proiettili veri e interventi militari.


La privatizzazione dello spazio e dei servizi pubblici in Turchia non è affatto una pratica nuova. Il progetto “HES” di centrali idroelettriche, che in questi ultimi anni si sono rapidamente moltiplicate, ne sono la prova: le risorse naturali di acqua vengono privatizzate, alcuni fiumi prosciugati e l’ambiente viene privatizzato in nome di un profitto anch’esso privatizzato.


Per tornare al tema, il parco Gezi è stato un inizio, ma non è all’origine di questo movimento di massa. Gezi è stato la scintilla che ha messo insieme decine di associazioni e di partiti, insieme a milioni di individui in tutta la Turchia.


La gente non resta in piazza in eterno
Dopo l’occupazione di Gezi, si sono svolte frequenti manifestazioni di solidarietà al livello locale, nazionale e internazionale.


Mi ricordo di una sera che il parco era pieno di gente. C’era tra l’altro una lunga catena umana di donne che sfilavano e cantavano: “Tayyip dove sei? Le mamme sono qui”, in risposta all’appello televisivo del primo ministro Tayyip Erdogan col quale aveva chiesto alle madri di “richiamare i loro figli dal parco Gezi per la loro sicurezza”. La gente che osservava la sfilata rispondeva cantando: “I vostri figli sono fieri di voi”.


Si sono viste nonne portare cibo al “Mercato rivoluzionario” del parco, dove era tutto gratuito. Si sono visti nazionalisti turchi battersi fianco a fianco di Curdi contro la repressione poliziesca, persone che aprivano le porte della case ai manifestanti che scappavano dalle cariche della polizia.


Si è vista una tavola di Iftar (il pasto della sera col quale si rompe il digiuno durante il Ramadan) “del popolo” allungarsi per più di un chilometro  sul selciato della più grande strada commerciale di Istanbul (Istikler), dove credenti e atei mangiavano insieme per manifestare contro il lussuoso banchetto del governo in piazza Taksim.


Tutti i giorni, per più di un mese, si sono svolte manifestazioni di solidarietà in tutte le città della Turchia. Altre hanno avuto luogo nel resto del mondo, in Cina, in Bulgaria, in Argentina, in Inghilterra, negli Stati uniti, in Svizzera, in Siria, in Spagna, in Cile, in Brasile, in Norvegia, in Germania, nella Repubblica Ceca e in altri paesi. Dall’Italia è venuto un pianista, col suo pianoforte a coda, ed ha suonato ore ed ore per i manifestanti in piazza Taksim.



Pianista italiano in piazza Taksim


Però, malgrado l’entusiasmo e la forza che si vivono durante queste manifestazioni, la gente non resta in eterno in piazza, è ovvio. Questa ondata di contestazione potrebbe anche finire per sparire, ma non certo le tracce che essa lascia a sua memoria. Queste resteranno per sempre impresse nella coscienza della gente ricordandole i sentimenti che procura il fatto di lavorare insieme, più gli uni per gli altri che ciascuno per sé.


Qualsiasi cosa accada poi, il movimento di Gezi ha messo in circolo una nuova cultura di resistenza e di solidarietà nella società turca, e ha messo in moto un processo di grande politicizzazione.


Due osservazioni si impongono ogni qualvolta si pone la domanda: “E’ cambiato qualcosa dall’inizio delle manifestazioni?”. La prima concerne la crescente sfiducia nelle istituzioni pubbliche e private della classe dirigente, come i media per esempio. Questi hanno dimostrato di mentire, di deformare e nascondere i fatti in modo ripetuto e sistematico – in quanto controllati o direttamente dal partito al potere o da padroni che lo sostengono o ancora da altri che hanno imposto la censura editoriale per paura di rappresaglie. La seconda riguarda la caduta di quello che in Turchia molti chiamano il “muro del terrore”, che impediva a tanti di manifestare contro il governo.


Il problema di fondo è stato sempre lo stesso
Noi viviamo in un mondo dove “l’1% dei più ricchi detiene il 40% della ricchezza mondiale” e dove “il 50% degli adulti del mondo non ne detiene che l’1%”, secondo un articolo che si basava su un rapporto dell’ONU pubblicato da The Guardian nel 2006. Questa concentrazione è inerente all’economia mondiale capitalista e la Turchia non fa eccezione.


Lo sfruttamento e l’oppressione del popolo, come la concentrazione delle ricchezze e del potere, sono espressione del sistema capitalista-imperialista.


Quando scambiamo una conseguenza (la repressione poliziesca) per una causa (il sistema capitalista), perdiamo di vista il nostro obiettivo. Molti dei manifestanti di piazza Taksim si sono trovati in questa confusione. Durante il mese di giugno, a Taksim, io rivolgevo questa domanda: “Perché sei qui?”. Una ragazza appartenente ai “Giovani Turchi”, una organizzazione di giovani kemalisti-nazionalisti, mi ha risposto: “Manifestiamo contro la repressione poliziesca e per tornare alla Turchia di Ataturk”.


Un’altra sera, mentre rientravo da una manifestazione a Gezi, un autista di taxi mi spiegava che “la Turchia è il paese più libero del mondo”. Questo nel momento in cui più di 7500 manifestanti erano stato feriti – 5 uccisi e decine ancora in condizioni gravi secondo l’Associazione dei medici turchi. “Io ho viaggiato per tutta l’Europa come camionista, abbi fiducia, lì è peggio. Qui tu sei libero di manifestare pacificamente, nessuno te lo impedisce”, ha aggiunto.


Quando vi è una sollevazione popolare, i rappresentanti delle classi dirigenti fanno grandi sforzi per convincerci che il problema è specifico (islamizzazione, poca democrazia, uso “eccessivo” della forza, autoritarismo…), con l’obiettivo di presentare tutti i problemi socio-economici come fossero indipendenti e isolati, in modo che il popolo non ponga in discussione il sistema nel suo insieme.


Il fatto è che simili problemi non si risolvono con semplici riforme del sistema politico o economico. Al contrario ritornano sempre, sotto altre forme, perché sono inerenti al capitalismo. Il capitalismo si fonda sullo sfruttamento del popolo, è la sua propria natura a provocare la concentrazione del potere e delle ricchezze e ciò porta come naturale conseguenza all’oppressione del popolo.



Il problema di fondo è sempre stato lo stesso, e anche la soluzione: l’anticapitalismo con l’obiettivo di costruire una alternativa autenticamente democratica e anticapitalista.


Tale obiettivo non può essere raggiunto senza una organizzazione ampia e radicata nella società, una organizzazione popolare. Il coordinamento al livello internazionale, con un abbandono dei temi nazionalisti, è anche necessario. E’ una cosa che non si può fare dall’oggi al domani, e però ugualmente dobbiamo stare attenti a non confondere delle conseguenze come se fossero le cause dei problemi socio-economici o politici. Il pericolo, con questa confusione, è di cadere in un riformismo illusorio che non farà che modificare la sola forma del problema, senza darci la libertà per la quale lottiamo.


Come scrive Slavoj Zizek nel suo articolo intitolato Disordini in Paradiso, “Questa scoperta – che il fallimento potrebbe essere intimamente connesso al principio per il quale lottiamo – è un grande passo nell’educazione politica”.