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Afrique Asie - giugno 2007
Un articolo di Habib Tawa
 
 
Turchia: la lotta tra i laici e gli arcaici
 
“No alla charia, no al colpo di Stato militare, sì ad una Turchia democratica”. I media occidentali in generale, e quelli nordamericani in particolare, hanno sottovalutato il senso di queste parole d’ordine che mettono in discussione tanto l’integralismo che l’esercito. E tuttavia esse sono state gridate da un milione di manifestanti durante il corteo del 1^ maggio a Istanbul per la difesa della laicità e contro la nomina a presidente della Repubblica kemalista di una personalità islamista. L’opinione pubblica turca ha dimostrato di essere ben cosciente che la Repubblica era in pericolo: non solo a causa della possibilità che potesse accedere – tutto sommato in modo puramente protocollare - alla magistratura suprema il ministro degli Affari Esteri Abdullah Gul, uno dei leader del Partito dello sviluppo e della giustizia (AKP), una formazione islamista maggioritaria in Parlamento.  Ma anche a causa dello spettro permanente di una ingerenza dell’esercito nella vita politica turca, che potrebbe condurre ad un quarto colpo di Stato. Sostenendo di esserne i garanti, i militari potrebbero infatti addurre come pretesto per intervenire la difesa del regime laico istituito da uno di loro, il generale Mustafa Kemal nel 1923.
Bisogna arrendersi all’evidenza. Se il partito islamico che governa il paese continua a riportare vittorie elettorali ed a guadagnare consensi, non è tanto per il fascino suscitato da un regime islamista e integralista, quanto per i grandi successi economici di questo governo. E soprattutto a causa dei danni che i militari turchi continuano ad arrecare al sistema democratico, ai diritti dell’uomo e alla libertà di espressione. Due casi, tra tanti altri, sono stati occultato dai media occidentali, perfino da quelli turchi. Ma hanno segnato profondamente l’opinione pubblica e hanno permesso agli islamisti di conquistare delle fasce sociali fino a quel momento refrattarie alla loro ideologia, facendo loro credere che l’islam politico potrebbe rappresentare una alternativa più giusta e moderata di quella proposta dai militari.
Il primo caso è quello dell’ordine, dato da un giudice militare, di arrestare lo scrittore e editore Fatih Tas, padrone della celebre casa editrice Aram. Delitto contestato: avere pubblicato in turco l’opera del grande intellettuale nordamericano di sinistra Noam Chomsky sull’interventismo nordamericano (American Interventionism). Ma la giustizia civile ha dovuto fare macchina indietro, in parte sotto la pressione di una campagna internazionale condotta dallo stesso Chomsky, che si è recato a Istambul per assistere al processo in compagnia dell’editore Tas. Fath Tas sarà assolto dall’accusa di “pubblicazione di prodotti di propaganda diretti a mettere in pericolo l’integrità territoriale della Turchia”. Bisogna ricordare che la stessa giustizia militare aveva già trascinato l’editore in giudizio nel 2005, per avere tradotto dall’inglese e pubblicato il libro del nordamericano John Tirman  sui bottini di guerra e i costi umani del commercio di armi nordamericano (Spoils of war: the human cost of America’s Arms trade).
Secondo caso: inizio aprile, un giudice militare turco ordina la perquisizione degli uffici del settimanale Nokta. Cosa si rimprovera a questo magazine liberale che, per di più, non ha niente a che vedere con le idee di Chomsky o della sinistra turca? Di avere pubblicato, da un lato, un memorandum militare confidenziale che chiedeva la messa al bando di un certo numero di ONG e di media, e, d’altro canto, un dettagliato rapporto su un piano di colpo di Stato che i comandanti dell’esercito intendevano eseguire nel 2004 contro il governo di Recep Tayyip Erdogan. Gli uffici del settimanale sono stati perquisiti per tre giorni, durante i quali ai giornalisti è stato intimato di rivelare le loro fonti informative. Sono stati presi documenti e corrispondenze personali ed è stato ricopiato il contenuto di diversi dischi rigidi.
Naturalmente questo attentato flagrante alla libertà di stampa e di espressione non ha suscitato alcuna reazione in occidente e negli Stati Uniti. Se fosse stato fatto dal governo di Erdogan, fondatore dell’AKP, ci sarebbero state invece proteste e sarebbe scoppiato un grande scandalo. Per l’ennesima volta ci troviamo di fronte alla pratica sinistra del “due pesi e due misure”. Da un lato l’Occidente continua a esaltare il regime laico turco, considerandolo uno dei più evoluti nel mondo islamico (d’altronde non ha alcuno scrupolo a collaborare con gruppi iracheni integralisti, sia sciiti che sanniti). Dall’altra muove cielo e terra per un affare banale, come la candidatura di un islamista ad un posto onorifico, ma resta muto quando l’esercito spedisce un ultimatum incostituzionale al Parlamento, mettendolo in guardia dall’eleggere un Presidente della Repubblica islamico. Ultimatum che d’altronde ha provocato il rinvio della seduta elettorale col pretesto della mancanza del quorum. Occorre ricordare che gli ultimi due presidenti della Repubblica sono stati eletti allo stesso modo, senza che la Corte Costituzionale abbia avuto niente da ridire?
Infatti l’attuale tensione tra il governo e l’esercito non è che l’ultimo episodio di un incessante braccio di ferro. Già nel 1996, a proposito di scuole islamiche, era sorto un altro conflitto tra il primo ministro islamista dell’epoca, Necmettin Erbakan, e i generali del Consiglio nazionale della sicurezza turco, autoproclamatosi sentinella della laicità. Il conflitto si risolverà con l’esclusione di Erbakan. Queste peripezie si iscrivono in una lunga storia segnata da tre colpi di Stato militari, sempre seguiti da emendamenti costituzionali che hanno rafforzato lo strapotere e l’intrusione dei militari nella vita politica e civile del paese.
L’ostinazione dell’esercito nel mantenere il suo potere al di sopra della società, della Costituzione e del gioco democratico ha ragioni storiche, sociologiche e culturali. La prima delle quali va ricercata nel Kemalismo, la dottrina ufficiale dello Stato elaborata da Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della Repubblica, e perfezionatasi nel corso dei molti congressi del Partito repubblicano del popolo tra il 1927 e il 1935. Secondo tale dottrina, l’esercito è il guardiano della sicurezza ideologica della nazione turca, esso stesso componente integrante della sicurezza nazionale. Benché il kemalismo abbia il beneficio di un’adesione popolare relativamente larga, sono solo le caste militari ad avere fondato i principi kemalisti sulla laicità, lo Stato nazione e la democrazia occidentale, in una sorta di feticismo kemalista. L’idea che l’istituzione militare sia totalmente autonoma, come un’entità al di sopra della nazione, ha allentato i legami tra la società e gli strati superiori dell’esercito. E ciò non solo dall’avvento della Repubblica, perché era già nella tradizione militare ottomana che si privilegiava la formazione di unità di élite (giannizzeri) caratterizzate da totale separatezza nei confronti del resto della società. I criteri attualmente in vigore per il reclutamento degli ufficiali e dei soldati perpetuano questo stato di fatto. In più, contrariamente a un’idea preconcetta – l’esercito difenderebbe gli interessi delle classi medie e l’economia di mercato attraverso il coinvolgimento di sue figure emblematiche nel sistema economico dominante – esiste una convergenza fondamentale tra l’esercito, la burocrazia civile e le élites politiche e tecnocratiche.
Dopo gli anni 1980, di fronte all’impotenza del potere civile a risolvere i problemi strutturali e arginare la violenza politica facendo costantemente ricorso alla legislazione eccezionale e allo stato di emergenza, le posizioni dell’esercito si sono sempre più consolidate. E questo a scapito delle élites politiche, sia conservatrici che liberali, che non sono riuscite a porre fine all’ingerenza dei militari nella vita politica e nella sfera civile. Questa ingerenza si esercita soprattutto attraverso il Consiglio nazionale della sicurezza, che fu creato nel 1961 per consentire all’esercito di esprimere il suo punto di vista a proposito di questioni ideologiche ed educative. Nel 1973, un emendamento costituzionale consentì al Consiglio di presentare delle “raccomandazioni” al governo civile, raccomandazioni che tuttavia non hanno forza di legge. Un altro emendamento costituzionale introdotto nel 1982 le ha rese tuttavia prioritarie per il governo. Parallelamente, in questo consiglio il numero dei militari è cresciuto a detrimento della componente civile. Ancora oggi, le sue competenze contemplano, oltre al potere di emettere delle raccomandazioni prioritarie, poteri nei seguenti campi: definire i programmi scolastici, organizzare e sovrintendere l’ambito audiovisivo, la rimozione della immunità parlamentare dei deputati curdi, la designazione degli alti funzionari dello Stato nella regione est, il prolungamento dei periodi di servizio militare obbligatorio per alcune categorie di popolazione. Il Consiglio propone altresì le allenze parlamentari dopo le elezioni legislative, definisce i progetti di decreti-legge relativi alla lotta antiterrorista prima di presentarli al Parlamento, gli statuti interni e i programmi scolastici delle scuole islamiche private, il numero di ore d’insegnamento dell’arabo come seconda lingua nelle scuole…
L’esercito ha anche consolidato la sua posizione all’interno dell’istituzione presidenziale. Un consensus implicito vorrebbe che il presidente della Repubblica sia un generale – in servizio attivo o della riserva – o un civile che sia amico dei militari, ai quali sottoporre i grandi temi sensibili. Si è potuto osservare la conferma di una tale deriva sotto la presidenza di Turgut Ozal nel 1989 e sotto quella del suo successore Suleiman Demirel nel 1993. Prima di ottemperare, quest’ultimo è stato vittima di due colpi di Stato e poi si è visto interdire dai militari ogni iniziativa politica. Quanto a Ahmet Sezer, il cui mandato sta per terminare senza che sia stato individuato un successore, si è distinto per il suo conservatorismo e il suo allineamento con le esigenze dell’esercito.
Altro campo in cui l’esercito svolge il suo predominio: il budget del ministero della difesa. Contrariamente a ciò che accade nelle democrazie occidentali, esso sfugge al controllo del potere esecutivo civile come anche a quello del Parlamento, che deve approvarlo senza discuterlo. Lo Stato Maggiore dispone allo stesso tempo di una totale autonomia nella scelta dell’armamento, delle dottrine di addestramento, nelle promozioni ai posti di comando-chiave, il coordinamento tra i diversi servizi di sicurezza e di intelligence. Ha libertà assoluta di organizzare manovre congiunte coi paesi amici o alleati – come è stato nel caso della collaborazione militare con Israele, a proposito della quale il governo non è stato nemmeno consultato.
Nel passato il presidente della Repubblica turco era eletto dal parlamento e non a suffragio universale. Oramai, in virtù di un emendamento costituzionale votato dalla maggioranza e dall’opposizione, sarà eletto a suffragio universale. Come in Francia.
Come si vede, il problema politico che oggi affronta la Turchia non è di sapere se la moglie del ministro degli Affari esteri e sfortunato candidato alla presidenza della Repubblica porti o meno il velo… E’ al contrario di sapere se tutti, in primo luogo i militari, abbiano bene inteso la parola d’ordine gridata da milioni di manifestanti turchi: “No alla charia, non al colpo di Stato, sì a una Turchia democratica!”