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 Analisi, marzo 2012 - Nel mese di febbraio un nuovo tassello si è aggiunto al già complesso quadro della transizione egiziana, caratterizzato da incertezze legate alla frammentazione politica, al confuso calendario delle elezioni presidenziali, e al deterioramento della situazione di sicurezza nel paese...






Medarabnews - 22 febbraio 2012

 
 

Il braccio di ferro tra Washington e il Cairo, e il controverso ruolo delle “ONG” USA
 

Nel mese di febbraio un nuovo tassello si è aggiunto al già complesso quadro della transizione egiziana, caratterizzato da incertezze legate alla frammentazione politica, al confuso calendario delle elezioni presidenziali, e al deterioramento della situazione di sicurezza nel paese: una crisi diplomatica fra il Cairo e Washington definita da più parti come la più grave degli ultimi decenni.


A scatenare tale crisi è stato il processo che avrà inizio il 26 febbraio e che vede imputati quasi una ventina di cittadini americani – oltre a egiziani, tedeschi, palestinesi e giordani, per un totale di 43 persone indagate – nell’ambito di un’inchiesta che ha coinvolto ONG egiziane e straniere impegnate nella “promozione della democrazia” in Egitto.


Tutto ebbe inizio nel mese di dicembre, quando le forze di sicurezza egiziane fecero irruzione negli uffici di queste associazioni non-profit sequestrando documenti e computer. Le organizzazioni americane coinvolte sono state accusate di aver operato in Egitto senza aver ottenuto una licenza da parte del governo, e di aver violato le norme sui finanziamenti stranieri.


Ne è seguita un’interdizione a lasciare il suolo egiziano, emessa nei confronti di alcuni degli americani indagati. Sette di loro si sono rifugiati nell’ambasciata americana al Cairo per evitare un possibile arresto. Fra essi spicca il nome di Sam LaHood, direttore della sezione egiziana dell’ International Republican Institute (una delle organizzazioni USA coinvolte), e figlio di Ray LaHood, segretario ai trasporti ed ex deputato repubblicano al Congresso.


Il coinvolgimento di una figura come LaHood ben spiega perché il caso sia così esplosivo, al punto da provocare una seria crisi diplomatica fra Egitto e Stati Uniti: le “ONG” americane coinvolte, infatti, non sono anonime associazioni non-profit, ma istituti legati a doppio filo con il Congresso americano.


I due principali sono il summenzionato International Republican Institute (IRI) e il National Democratic Institute (NDI), affiliati rispettivamente al partito repubblicano ed al partito democratico. Ad essi si aggiungono Freedom House e l’International Center for Journalists.


E’ per questa ragione che gli Stati Uniti hanno reagito duramente, minacciando di tagliare gli aiuti americani all’Egitto, pari a circa 1,55 miliardi di dollari all’anno (comprendenti 1,3 miliardi in assistenza militare e 250 milioni di finanziamenti economici), che fanno del Cairo il secondo beneficiario di aiuti americani in Medio Oriente dopo Israele.


Questa minaccia non ha tuttavia scoraggiato l’Egitto. Anzi, la crisi si è ulteriormente ingigantita nel momento in cui le organizzazioni americane sono state accusate da alcuni giornali governativi di aver fomentato i recenti disordini in Egitto.

“L’America è dietro l’anarchia”, e “I finanziamenti americani puntano a diffondere l’anarchia in Egitto”, sono solo alcuni dei titoli apparsi su giornali come al-Ahram e al-Gomhuria, entrambi tradizionalmente utilizzati per propagandare il punto di vista dello Stato egiziano.


Questa campagna mediatica a sua volta ha preso spunto dai commenti fatti lo scorso mese di ottobre – ma rivelati solo ora – dalla ministra egiziana per la pianificazione e la cooperazione internazionale, Fayza Abul Naga, attraverso il cui dicastero passano gli aiuti finanziari americani.


Abul Naga ha affermato che il finanziamento di determinati gruppi della società civile farebbe parte di un chiaro tentativo da parte americana di pilotare la transizione egiziana dopo la caduta di Mubarak “in una direzione che realizzi gli interessi americani ed israeliani”.


L’ironia per cui proprio una delle poche donne che in Egitto occupano posizioni di potere ha osato sfidare Washington, ha contribuito a mandare su tutte le furie gli americani. I quotidiani statunitensi hanno messo in evidenza il fatto che Abul Naga è “un avanzo del vecchio regime”, essendo in carica dai tempi di Mubarak – un dittatore che del resto è stato sostenuto da Washington fino a pochi giorni prima della sua caduta.


In ogni caso, alle accuse della ministra egiziana si sono aggiunte quelle dei giudici titolari dell’inchiesta. Costoro hanno affermato che il materiale sequestrato nell’ambito dell’indagine evidenzierebbe che le organizzazioni americane non svolgevano attività tipiche di associazioni della “società civile”, ma attività eminentemente politiche, volte ad influenzare l’evoluzione della situazione in Egitto.


Tali affermazioni hanno perfino fatto temere, a Washington, che le accuse a carico degli americani potessero aggravarsi, diventando vere e proprie accuse di spionaggio.


Nel frattempo, fra le ONG egiziane si è diffuso il timore che l’inchiesta potesse rientrare in un tentativo da parte dello SCAF, la giunta militare al potere, di reprimere i gruppi della società civile nel paese che si sono battuti contro la tortura e il ricorso ai tribunali militari,  e di distogliere l’attenzione dalla questione del passaggio dei poteri a un governo civile.


Al di là di questi legittimi timori, tuttavia, la maggior parte degli egiziani sembra sostenere lo SCAF ed i giudici in questo caso giudiziario, come dimostrano alcuni sondaggi. In particolare, una rilevazione Gallup ha evidenziato che il 74% degli egiziani disapprova che i gruppi della società civile in Egitto vengano finanziati da fondi americani.


Dal canto loro, anche i Fratelli Musulmani hanno manifestato il proprio appoggio all’inchiesta, affermando anzi che, se gli Stati Uniti dovessero cancellare per rappresaglia gli aiuti all’Egitto, ciò potrebbe portare a una revisione del trattato di pace con Israele.


Essam el-Erian, membro di spicco del movimento islamico e presidente della Commissione affari esteri del parlamento, ha dichiarato che gli aiuti americani all’Egitto rientrano tra “gli impegni presi fra le parti che hanno firmato l’accordo di pace, pertanto se vi è una violazione da una parte, ciò dà il diritto di revisione all’altra parte”.


Il contesto storico degli aiuti USA all'Egitto

Al di là di quello che sarà l’esito del processo giudiziario, e delle eventuali conseguenze che esso potrà avere sulle relazioni bilaterali fra Washington e il Cairo, per comprendere meglio la questione sarà bene inserirla nel contesto storico dei rapporti fra i due paesi, e della politica americana di “promozione della democrazia” in Medio Oriente e nel mondo.


Gli aiuti annuali di Washington a favore del Cairo – che, come già accennato, ammontano a circa 1,55 miliardi di dollari – sono un corollario del trattato di Camp David che nel 1979 sancì la “pace fredda” fra l’Egitto ed Israele, e della riconversione del sistema produttivo egiziano negli anni ‘70, passato da un’economia centralizzata di stampo socialista ad un’economia di mercato.


In cambio degli aiuti, gran parte dei quali andavano all’establishment militare egiziano, Washington si assicurò la fedeltà del Cairo al campo occidentale, la sua non belligeranza con Israele, e la sua acquiescenza nelle questioni legate al conflitto israelo-palestinese.


Washington, tuttavia, ben presto condizionò i propri aiuti all’Egitto anche alla possibilità che nel paese operassero gruppi americani per la promozione di riforme democratiche.


Le attività di questi gruppi sono sempre state al centro di un braccio di ferro tra Washington e il passato regime, ed allo stesso tempo sono emblematiche della fondamentale contraddizione alla base della politica americana in Medio Oriente.


Tali gruppi, infatti minavano le fondamenta di un regime dittatoriale che per altro verso Washington finanziava e sosteneva allo scopo di garantire la propria egemonia nella regione e di salvaguardare uno status quo in Palestina che andava a vantaggio di Israele calpestando i diritti del popolo palestinese.


Il regime di Mubarak ha sempre cercato di tenere sotto controllo le organizzazioni americane per la “promozione della democrazia”, ed ha cercato di fare in modo che fosse il governo egiziano a stabilire in quale maniera venissero spesi gli aiuti finanziari americani.


Washington, dal canto suo, ha cercato di fare in modo che parte degli aiuti all’Egitto andassero direttamente a queste organizzazioni aggirando la supervisione del ministero egiziano per la pianificazione e la cooperazione internazionale.

Un dispaccio diplomatico del 2006, reso noto da Wikileaks, riferisce le lamentele di un funzionario del ministero degli esteri egiziano che denuncia le “arroganti tattiche di promozione delle riforme in Egitto” da parte del governo americano.


L’arma migliore che il regime di Mubarak trovò per contenere l’azione delle organizzazioni americane pro-democrazia fu quella di mantenerle in una sorta di “limbo giuridico”, permettendo che operassero nel paese senza però concedere loro una licenza ufficiale, in modo da poter facilmente rivalersi nei loro confronti o addirittura chiuderle all’occorrenza (cosa che sembra stia accadendo con l’inchiesta attuale, la quale fra i capi di imputazione cita proprio il fatto che tali organizzazioni operavano senza licenza).


I timori di Mubarak nei confronti di queste organizzazioni in effetti non erano infondati. Nell’aprile dello scorso anno, il New York Times rivelava che alcuni dei gruppi e degli individui direttamente coinvolti nelle rivolte che hanno provocato la Primavera Araba, fra cui esponenti del Movimento 6 Aprile in Egitto, erano stati addestrati e finanziati da organizzazioni americane come l’IRI, l’NDI e Freedom House.


Alcuni giovani attivisti egiziani coinvolti nella rivoluzione del gennaio 2011 avevano preso parte a un incontro a New York, nel 2008, dove venne loro insegnato ad usare i social network e tecnologie informatiche e di telefonia cellulare per “promuovere la democrazia”. Fra gli sponsor dell’incontro vi erano società come Facebook, Google e MTV, oltre che il Dipartimento di Stato americano.


Paradossalmente, dunque, sebbene l’amministrazione americana sia stata colta di sorpresa dalla caduta di Ben Ali in Tunisia, e poi dal crollo di Mubarak in Egitto – al punto che, solo quando era ormai evidente che il destino del presidente egiziano era segnato, l’amministrazione USA diede chiaramente il proprio appoggio alla rivolta popolare (dopo che appena pochi giorni prima il segretario di stato Hillary Clinton aveva lodato Mubarak come un “pilastro di stabilità” nella regione) – proprio le organizzazioni finanziate da Washington diedero un contributo importante alla riuscita di queste rivoluzioni filo-democratiche.


Del resto, come riferisce lo stesso articolo del New York Times, in alcune interviste gli stessi attivisti arabi “formati” dagli Stati Uniti si lamentarono dell’ipocrisia di Washington, che li aiutava ed allo stesso tempo appoggiava i governi che essi cercavano di cambiare, addestrandone e finanziandone i servizi di sicurezza.

 

Promozione della democrazia o degli interessi USA?

Ma la stridente contraddizione alla base della politica americana in Medio Oriente ed i suoi aspetti paradossali non finiscono qui.


L’accusa forse più grave che i giudici egiziani hanno rivolto alle “ONG” americane – e cioè quella di non agire come organizzazioni della società civile, ma di perseguire finalità politiche e di promuovere gli interessi del governo americano – appare tutt’altro che infondata.


Come già accennato sopra, istituti come l’IRI, l’NDI o la stessa Freedom House sono tutt’altro che “non governativi”. I primi due sono affiliati ai due principali partiti americani. Il consiglio di amministrazione dell’NDI è presieduto dall’ex segretario di stato Madeleine Albright, quello dell’IRI dal senatore John McCain, ex candidato presidenziale repubblicano. Freedom House fu fondata da Wendell Willkie e Eleanor Roosevelt, di appartenenza rispettivamente repubblicana e democratica.


Queste organizzazioni fanno parte del complesso e mastodontico sistema di “promozione della democrazia” affiliato al governo americano. Tale sistema nacque negli anni ’80, sotto l’amministrazione Reagan, ed aveva in parte lo scopo di prendere il posto del decennale programma di operazioni sotto copertura della CIA che, all’indomani della seconda guerra mondiale, aveva cominciato a fornire appoggi e finanziamenti a partiti filoamericani, o perlomeno anticomunisti, dall’Italia, alla Francia, al Giappone.


All’epoca della Guerra Fredda, naturalmente, la politica americana in generale e della CIA in particolare era concentrata principalmente sulla dimensione anticomunista, e ciò significò che il sostegno americano andò anche a forze antidemocratiche, purché fossero ostili al blocco sovietico.


Con il crollo dell’Unione Sovietica e l’inizio dell’era unipolare americana, il nuovo sistema nato sotto l’amministrazione Reagan avrebbe dovuto lavorare davvero alla “promozione della democrazia” ed operare realmente “alla luce del sole”. Nella realtà, le cose spesso non sono andate così.


In alcuni casi, come ad esempio in America Latina, l’IRI in particolare ha svolto parte del “lavoro sporco” che in passato veniva compiuto essenzialmente dalla CIA, contribuendo a rovesciare governi e ad insediarne altri.


In oltre un centinaio di paesi l’IRI e l’NDI hanno fornito assistenza materiale, formazione, consulenza in materia di campagna elettorale, ed a volte diretto appoggio finanziario, a specifici partiti allo scopo di influenzarne le politiche, e in tal modo di alterare il panorama politico di questi paesi in una maniera ritenuta vantaggiosa per gli Stati Uniti.


Ciò non esclude che in molti contesti questi istituti americani abbiano compiuto anche un lavoro importante, contribuendo ad alimentare la sensibilità democratica, formando attivisti per i diritti civili e addestrando osservatori per monitorare i processi elettorali.


Ma, come hanno osservato alcuni analisti americani più imparziali ed avveduti (si potrebbe citare Paul J. Sullivan della Georgetown University, o Marlene Spoerri del Carnegie Council for Ethics in International Affairs), queste organizzazioni svolgono anche attività che non sarebbero mai tollerate in America o in Europa occidentale.


In Egitto, l’IRI e l’NDI hanno fino a poco tempo fa operato esclusivamente a sostegno dei partiti laici. Di fronte all’evidente e inarrestabile ascesa dei partiti islamici, l’amministrazione Obama ha aperto la strada alla possibile collaborazione di queste organizzazioni americane anche con i partiti islamici, nel contesto di una complessiva (e del resto ineludibile) apertura del governo americano alle formazioni politiche islamiche, ma questo nuovo orientamento della Casa Bianca non è affatto condiviso pienamente o accettato senza riserve negli Stati Uniti.


L’algerino di nazionalità canadese Ahmed Bensaada, nel suo recente libro “Arabesque Américaine: Le rôle des États-Unis dans les révoltes de la rue arabe” ha chiarito come all’interno della macchina americana di “promozione della democrazia” i legami tra Stato, politica, denaro e spionaggio siano “talmente stretti che viene da domandarsi come sia possibile che alcune di queste organizzazioni USA siano considerate ‘non governative’ o ‘senza scopo di lucro’”.


Bensaada illustra chiaramente quali siano i pilastri del sistema americano di esportazione della democrazia (e degli interessi americani), dalla United States Agency for International Development (USAID), dipendente dal Dipartimento di Stato e fondata già nel 1961 dal presidente Kennedy, al National Endowment for Democracy (NED), finanziato direttamente dal Congresso e che a sua volta contribuisce al finanziamento di IRI e NDI, alla Middle East Partnership Initiative (MEPI), anch’essa facente capo al Dipartimento di Stato e che nel 2002 fu affidata a Liz Cheney, figlia dell’allora vicepresidente Dick Cheney.


L’ “ONG” Freedom House, anch’essa implicata nella recente inchiesta egiziana, a sua volta riceve circa l’80% dei suoi finanziamenti dal NED, da USAID e dal Dipartimento di Stato.


Bensaada mette poi in evidenza come le organizzazioni americane di esportazione della democrazia, con la diretta collaborazione di società come Google, e social network come Facebook, Twitter e YouTube, formino alle nuove tecnologie i “cyber-dissidenti” dei paesi destinati ad “importare” il modello democratico americano – come del resto conferma anche l’articolo del New York Times precedentemente citato a proposito dell’Egitto.


Non bisogna poi dimenticare che l’importazione del modello democratico “made in USA” comporta anche l’importazione di un “modello economico”. Bensaada ricorda, ad esempio, come alla fine di giugno dello scorso anno rappresentanti di General Electric, Boeing, Coca-Cola, Marriott e Dow giunsero a Tunisi per discutere le prospettive di investimento nella “nuova Tunisia”.


Naturalmente ciò non significa che le rivolte della Primavera Araba siano state scatenate dagli USA, i quali, come è stato accennato sopra, sono anzi stati colti impreparati dalla caduta degli alleati Ben Ali e Mubarak (un’impreparazione che, fra l’altro, si spiega con il carattere “policentrico” del sistema americano di “esportazione della democrazia”, costituito da una molteplicità di attori che agiscono spesso con notevole indipendenza e in assenza di un unico centro di comando).


Tuttavia in queste rivolte, originate in primo luogo dall’assenza di democrazia, dalle disuguaglianze sociali e dal carattere oppressivo di Stati fondati su politiche eminentemente securitarie, gli Stati Uniti – e più in generale l’Occidente – hanno giocato un ruolo, sia attraverso attività specifiche come quelle portate avanti dalle organizzazioni americane di esportazione della democrazia, sia attraverso un più generale processo di “osmosi” che ha contribuito alla diffusione di alcuni ideali di libertà, democrazia ed uguaglianza che peraltro appaiono per molti versi in crisi nel mondo occidentale di oggi.


Resta poi da aggiungere che, se alcuni degli ideali della Primavera Araba sono stati presi a prestito dall’Occidente, ciò non significa che essi non vengano reinterpretati e riforgiati in maniera “indipendente” nei paesi arabi che hanno vissuto le rivolte popolari (a prescindere dall’effettivo successo di tali rivolte e dal carattere più o meno duraturo dei cambiamenti da esse generati).


Questo processo di “emancipazione” è altresì incoraggiato dalla persistente contraddizione della politica americana (ed occidentale) in Medio Oriente a cui si è accennato sopra. Tale politica, infatti, se da un lato si propone come “esportatrice di democrazia e di diritti umani”, dall’altro non rinuncia alla sua componente egemonica sotto il profilo economico e geostrategico (nel cui ambito non esita ad appoggiare governi non democratici e dittatoriali), e soprattutto si dimostra assolutamente restia ad affrontare e risolvere l’annosa questione israelo-palestinese riconoscendo ai palestinesi i loro diritti legittimi.