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 Analisi, aprile 2012 - Una non notizia, tanto era prevedibile: Luis Moreno Ocampo ha deciso di non aprire una indagine sui crimini israeliani a Gaza. Ultimo atto, prima di insediarsi nella sua nuova cattedra di Harvard, di un procuratore la cui filosofia è apparsa sempre chiarissma: servire gli interessi del più forte (nella foto, Luis Moreno Ocampo)








L’autunno del Procuratore
Triestino Mariniello

Il primo Procuratore generale della Corte penale internazionale (CPI), Luis Moreno Ocampo, ha sprecato l’ultima possibilità di accendere una piccola luce sul suo mandato all’Aja, caratterizzato prevalentemente da ombre. Utilizzando una metafora calcistica, potremmo dire che il Procuratore ha fallito un rigore in piena zona Cesarini, in modo così clamoroso da alimentare i dubbi che l’errore sia stato intenzionale. Ormai è giunta a termine la sua esperienza all’Aja e per lui sembra profilarsi un futuro dietro la cattedra ad Harvard, presso una delle più prestigiose facoltà di giurisprudenza al mondo. Mentre l’Assemblea degli Stati Parte della CPI ha già provveduto a nominare il nuovo Procuratore generale, il 3 aprile 2012, Ocampo ha comunicato la sua (ultima) decisione di non aprire le indagini in relazione ai presunti crimini internazionali commessi a Gaza tra il 27 dicembre 2008 ed il 18 gennaio 2009, durante l’operazione militare “Piombo fuso” condotta dalle forze armate israeliane.

Va ricordato che, a pochi giorni dalla fine dell’attacco militare israeliano, il ministro della giustizia dell’Autorità nazionale palestinese si era impegnato ad accettare la giurisdizione della CPI, presentando una dichiarazione ai sensi dell’articolo 12(3) dello Statuto di Roma. Ad auspicare un intervento da parte della giustizia penale internazionale, erano stati anche una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, guidata dal Giudice Richard Goldstone ed il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu. Come rilevato dal Report Goldstone, a Gaza furono commesse gravi violazioni del diritto umanitario e dei diritti umani. Secondo la commissione d’inchiesta, l’operazione militare “Piombo Fuso” costituisce “un attacco deliberatamente sproporzionato organizzato per punire, umiliare e terrorizzare una popolazione civile, diminuire radicalmente la sua capacità economica, sia di lavorare sia di provvedere a se stessa, e per imporle con la forza un senso di sempre crescente dipendenza e vulnerabilità”.

Secondo tale Report, in tantissimi casi le condotte delle forze israeliane, che hanno fatto anche ricorso ad un uso improprio del fosforo bianco, potrebbero costituire crimini di guerra ed il blocco di Gaza può integrare un crimine contro l’umanità. Secondo la commissione delle NU, l’elevato numero di vittime civili e i numerosi attacchi deliberati e intenzionali contro i civili dimostrano che l’attacco israeliano costituisce una violazione dei principi fondamentali di diritto internazionale dei conflitti armati. Amnesty International ha calcolato che in tre settimane a Gaza vennero uccisi intenzionalmente 940 civili, tra cui 300 bambini e 115 donne.

Sebbene Goldstone abbia, in seguito alle forti pressioni da parte di Israele, modificato il proprio punto di vista sui fatti di Gaza, va rilevato che le conclusioni a cui era giunta la commissione da lui presieduta, sono state accolte con la Risoluzione 64/10 del 5 Novembre 2009 dall’Assemblea Generale dell’ONU, che ha proposto di istituire:
“Indagini che siano indipendenti, credibili e in conformità con gli standards internazionali, sulle gravi violazioni del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani riportate dalla Fact Finding Mission, al fine di assicurare giustizia”.

L’ufficio del Procuratore ha impiegato ben tre anni per partorire una decisione pilatesca, di sole due pagine, in cui dichiara che non rientra nella sua competenza stabilire se la Palestina possa essere ritenuta uno Stato ai sensi dello Statuto di Roma e pertanto accettare la giurisdizione della CPI. In modo apodittico e rinunciando ad entrare nel merito di una questione problematica da un punto di vista strettamente internazionalistico, Ocampo dichiara che, nei casi controversi, spetta alle Nazioni Unite (UN), in particolar modo al Segretario Generale o all’Assemblea Generale, o all’Assemblea degli Stati Membri dello Statuto di Roma, fornire un’interpretazione del concetto di Stato ai sensi dell’articolo 12 dello Statuto della CPI. A tal proposito, come esplicitamente dichiarato dal Procuratore, non assume rilevanza alcuna il fatto che la Palestina abbia lo status di osservatore presso le Nazioni Unite e che 130 governi, varie organizzazioni internazionali, comprese alcune appartenenti alle NU e recentemente anche l’UNESCO, l’abbiano riconosciuta come Stato.

Il contenuto esangue che caratterizza la decisione del Procuratore in un caso così importante a livello internazionale induce nel lettore un immediato senso di smarrimento, portandolo lontano dal comprendere in virtù di quale base normativa le Nazioni Unite o l’Assemblea degli Stati Parte sarebbero competenti ad interpretare un concetto giuridico presente nello Statuto di Roma. Se è vero che la CPI tenta di riproporre sul piano globale l'idea classica dell'autonomia e terzietà del potere giurisdizionale, perché allora chiamare in causa degli organi politici per delle decisioni che spetterebbero soltanto alla corte stessa?

Con la decisione in esame il procuratore riconosce l’impunità di coloro che a vario titolo si sono resi responsabili dei delitti più gravi commessi durante l’attacco a Gaza. Si tratta di quella stessa cultura dell’impunità che continua ad alimentare il clima di violenza in quel contesto e che mette in discussione qualsiasi speranza di riuscita di un processo di pace. Così facendo, inoltre, il Procuratore nega definitivamente qualsiasi forma di giustizia alle migliaia di vittime della guerra di Gaza. L’unica possibilità, infatti, era un procedimento dinnanzi ad una giurisdizione penale internazionale, tenuto conto che, come rilevato da un Comitato di Esperti nominato dalle NU, “Israele non ha condotto alcuna indagine sulle decisioni prese ai massimi livelli riguardo alla progettazione ed esecuzione dell’operazione a Gaza. Una delle denunce centrali della Fact Finding Mission era che la sistematica e deliberata natura della distruzione a Gaza ha lasciato la Missione senza dubbi sul fatto che ‘la responsabilità risiede in primo luogo a livello di coloro che hanno progettato, pianificato, ordinato e supervisionato l’operazione”. Tali presunte gravi violazioni vanno oltre la responsabilità individuale dei soldati e persino dei comandanti, e includono accuse rivolte a coloro che hanno preso le decisioni ai gradi più alti della catena di comando.
Eppure non dovremmo essere sorpresi dalla scelta di Ocampo, visto che, decidendo di non accertare le responsabilità per i crimini internazionali commessi a Gaza, il Procuratore non ha fatto altro che confermare la linea politica che ha caratterizzato tutto il suo mandato: indirizzare il paradigma punitivo della Corte verso quei contesti graditi alle super potenze mondiali o nei confronti dei quali le superpotenze non abbiano alcun interesse. In questa sede possiamo citare soltanto alcune delle scelte effettuate che contribuiscono a confermare che il titolare dell’accusa davanti alla CPI si è orientato soltanto verso i cittadini di Stati che non ricoprono posizioni di rilievo sullo scacchiere delle relazioni internazionali.

Fino ad ora sono sette le situazioni  - tutte riguardanti paesi africani - che il Procuratore ha ritenuto meritevoli dei suoi sforzi investigativi. Nonostante la CPI abbia “potenzialmente” giurisdizione universale e nonostante il suo Statuto sia stato ratificato al momento da 120 paesi, ci sembra di capire che secondo Ocampo, crimini internazionali quali genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra, vengano commessi soltanto nel continente africano. Come nel caso della Palestina, suscitano perplessità le scelte del procuratore di non occuparsi di altri contesti conflittuali, quali l’Iraq, l’Afganistan o la Colombia. Vale la pena ricordare al riguardo che, dinnanzi ad innumerevoli reports presentati da organizzazioni non governative sui crimini commessi dai militari britannici in Iraq, il Procuratore ha riconosciuto che erano stati commessi omicidi e v’erano stati trattamenti inumani, integranti la fattispecie di crimini di guerra, ma non riteneva tali reati sufficientemente gravi da suscitare l’attenzione della giustizia penale internazionale.

Basta poi andare sul sito della Corte per scoprire che, dal 2006, il suo ufficio sta monitorando la situazione rispettivamente in Colombia e in Afghanistan, senza tuttavia giungere ad una conclusione. Al riguardo, si potrebbe sostenere che i tempi della giustizia penale internazionale sono inevitabilmente lunghi. Eppure, tale affermazione sembra essere smentita dal comportamento del medesimo procuratore nel caso della situazione in Libia, quando, su richiesta del Consiglio di Sicurezza, ha aperto con inaudita tempestività le indagini nei confronti di Gheddafi, di suo figlio Saif al Islam e di suo cognato e mano destra Abdullah al Sanusi in solo sette giorni.


Non è nostra intenzione fare di Ocampo un capro-espiatorio, simile ad un personaggio saltato fuori dalla creatività di Pennac, responsabile di tutti i problemi della giustizia penale internazionale. Eppure le sue scelte, in un sistema in cui il Prosecutor è il vero e proprio dominus del procedimento penale dinnanzi alla CPI, hanno dato una spinta significativa al processo di delegittimazione della CPI, contribuendo a rafforzare quel paradigma dualistico di giustizia, caratterizzato da una sorta di doppio binario per cui, ad una giustizia su misura per le grandi potenze del pianeta e per i loro leader vittoriosi, si affianca una giustizia per gli sconfitti e per i popoli oppressi. Come sottolineato da un illustre studioso di diritto penale internazionale,


“Si tratta, difatti, di una forma di selettività più preoccupante di quella che deriva dalle risorse limitate per l’applicazione della legge, o dalla mancanza di prove sufficienti, o da fattori simili che condizionano le decisioni degli organi nazionali dell’accusa su chi incriminare. Pertanto, quando consegnano alla giustizia soltanto, o principalmente, criminali provenienti da nazioni deboli, il risultato è che gli organi internazionali dell’accusa discriminano, fra coloro che abusano dei diritti umani, sulla base della loro cittadinanza.” (1) 


Alla luce di queste osservazioni, siamo contenti di non essere nei panni uno studente di Harvard, soprattutto nel caso in cui Ocampo decidesse di fare una lezione sull’indipendenza e imparzialità delle tribunali penali internazionali.



(1)  M. DAMASKA, L'incerta identità delle corti penali internazionali, in Criminalia, 2006, p.  10.