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 Analisi, ottobre 2012 -  Può sembrare anacronistico, perfino bizzarro parlare oggi di rivoluzione. La classe dominante è riuscita a farci credere, soprattutto a quelli che sono obiettivamente interessati a rivoluzionare le loro condizioni di vita, che il motto rivoluzionario appartiene al passato e che la fine della Storia è una realtà dei tempi moderni. Tuttavia la rivoluzione, tanto odiata dalle classi dominanti, non è mai stata tanto legittima e necessaria come oggi (nella foto, Lenin)







Belaali.over-blog.com, 11 ottobre 2012 (trad.Ossin)



Europa: legittimità e necessità della rivoluzione
Mohamed Belaali


“Essere radicali, significa andare alla radice delle cose (…) Questa critica porta all’imperativo categorico di rovesciare tutte le condizioni sociali nelle quali l’uomo è ridotto ad essere avvilito, asservito, abbandonato, disprezzabile” (*) Karl Mark


Che fare per uscire dalla crisi economica e sociale che sconvolge l’Europa? La rivoluzione!!!


Può sembrare anacronistico, perfino bizzarro parlare oggi di rivoluzione. La classe dominante è riuscita a farci credere, soprattutto a quelli che sono obiettivamente interessati a rivoluzionare le loro condizioni di vita, che il motto rivoluzionario appartiene al passato e che la fine della Storia è una realtà dei tempi moderni. Tuttavia la rivoluzione, tanto odiata dalle classi dominanti, non è mai stata tanto legittima e necessaria come oggi. Nessun rimedio e nessuna terapia sono infatti in grado di guarire l’Europa, colpita da una malattia mortale, il capitalismo. Nessuna politica economica, congiunturale o strutturale, liberale o keynesiana, è capace di fare uscire l’Europa da questa corsa suicida verso l’abisso. Nessuna istituzione europea, nessun governo e nessuna elezione sono all’altezza del compito: liberare i lavoratori e le masse popolari europee da questo assoggettamento ai detentori del capitale, che è il solo responsabile della situazione attuale.


I lavoratori europei sopportano e subiscono quasi da soli tutto il carico e tutte le sofferenze prodotte dal capitalismo e dalle sue ripetute crisi. La loro condizione materiale peggiora in modo proporzionale alla crescita dei profitti e dei privilegi della classe dominante. Il loro futuro è sempre più nero. La borghesia offre loro come prospettiva solo la miseria economica e morale causata da una serie di piani di austerità. Chiusura di fabbriche, tagli alle spese sociali, ristrutturazioni in tutti i settori dell’economia,  revisione di bilanci si succedono. La disoccupazione e la precarietà, diventate oramai di massa, provocano ai salariati devastanti danni economici, sociali e psicologici. “La povertà è tornata in Europa”, diceva uno dei dirigenti del potente gruppo anglo-olandese dell’agroalimentare Unilever, alla ricerca di nuove strategie di vendita che mantenessero inalterato il loro livello di profitto (1). Al di là di questo cinismo padronale, l’impoverimento dei lavoratori è oggi una realtà incontestabile. Si tratta di una classe sfruttata, impoverita, disprezzata e umiliata.

L’intesa tra le classi è oggi una chimera, un sogno concepito e alimentato dalle classi sfruttatrici. E’ ogni giorno contraddetta nei fatti. Solo l’appropriazione dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori permetterà di spezzare questa servitù economica, fonte primaria dei loro mali.


L’Europa è oggi al crocevia: continuare su questa strada tracciata da una minoranza di sfruttatori che conduce al caos, alla barbarie e alla distruzione degli uomini e della natura o, al contrario, spezzare e ridurre in briciole l’ordine costituito. Va da sé che la borghesia, che concentra nelle sue mani tutti i poteri, è pronta a tutto pur di perpetuare i suoi privilegi. Il cinismo e la brutalità coi quali impone oggi la sua politica di miseria un po’ dappertutto in Europa, dimostra come non sia affatto disponibile alla concertazione o al “dialogo tra le parti sociali”. Il suo Trattato di stabilità, di Cooperazione e di Governance (TSCG) che impedisce agli Stati di avere un deficit di bilancio strutturale superiore allo 0,5 del PIL (“regola d’oro”) ne è un esempio dimostrativo. Il non rispetto di tale dogma comporta ipso fatto delle pesanti sanzioni finanziarie. Le manifestazioni e le contestazioni dei suoi piani di austerità sono spesso represse e e anche brutalmente represse in alcuni paesi, come la Grecia e la Spagna per esempio. E se domani la lotta di classe si intensificasse, si acuisse e si consolidasse nel tempo, la borghesia non esiterebbe a ricorrere alla violenza e alla repressione in tutte le sue forme. Essa, nonostante la sua forza, espressione della sua potenza materiale, teme infatti il risveglio dei popoli che rischia di rimettere in discussione la sua legittimità e il suo regime. Difenderà con tutte le sue forze il sistema di produzione e di sfruttamento sul quale riposa.


Tutta la storia delle classi dominanti è stata solo ferocia e crudeltà, esercitata sui dominati per mantenersi al potere. E ogni volta questo potere della minoranza sfruttatrice è stato colpito solo da una rivoluzione violenta. La Storia ci insegna che il passaggio da uno stadio di sviluppo a un altro superiore si realizza con la violenza che è la conseguenza diretta della resistenza dell’oppressore: “fiumi di sangue attraverso cui l’umanità prosegue il suo cammino sotto il regime della schiavitù, della servitù della gleba e del lavoro salariato”, scriveva Lenin in “Stato e Rivoluzione” (2).


L’avanzata verso il socialismo non può consistere in un qualche perfezionamento della democrazia borghese, nella conciliazione delle classi ecc. Solo una rivoluzione violenta può essere capace di vincere la resistenza della minoranza di sfruttatori, e di far nascere una nuova società, come scriveva bene Engels nel criticare le teorie idealiste del professore Eugen Duhring: “Secondo Duhring la violenza è il male assoluto, il primo atto di violenza per lui è il peccato originario (…) Ma che la violenza giochi nella storia anche un altro ruolo, un ruolo rivoluzionario; che, secondo le parole di Marx, essa sia l’ostetrica di tutte le vecchie società che ne portano una nuova nel grembo, che sia lo strumento grazie al quale il movimento sociale le spazza via, distruggendo le sue forme sociali fossilizzate e morte, di questo nemmeno una parola da parte del signor Duhring” (3).


Ma la rivoluzione non si fa per decreto! Essa non è il risultato della volontà dei rivoluzionari, degli ideologi o dell’attività cerebrale dei grandi pensatori. Questa volontà e questa ideologia sono in definitiva solo l’espressione dei rapporti sociali che le producono. Le rivoluzioni non possono essere provocate da un qualche potere magico esterno alle masse: “ (…) Le rivoluzioni non si fanno arbitrariamente e per decreto, ma esse sono sempre state dovunque la conseguenza necessaria di circostanze del tutto indipendenti dalla volontà e dalla direzione di determinati partiti e di classi intere” (4).


Ma se la rivoluzione non si decreta, essa si prepara. E chi sono i più disposti a prepararla se non coloro che  subiscono quotidianamente lo sfruttamento e il dispotismo del capitale? I lavoratori, e più in generale i salariati, non solo sono il prodotto più autentico della borghesia, ma possiedono i mezzi e la forza per paralizzare il potere economico e quindi politico della minoranza dominante. Il loro interesse obiettivo è di rovesciare da cima a fondo tutte le condizioni di vita materiale e morale nelle quali sono asserviti e disprezzati.


Ma in tempi di disoccupazione di massa, i lavoratori e i salariati in generale sono in una situazione di concorrenza fratricida sul mercato del lavoro, che spezza l’unità e impedisce loro di costruire delle organizzazioni e delle direzioni capaci di lottare efficacemente contro la minoranza di sfruttatori. E tuttavia l’unione dei lavoratori è la condizione primaria per la loro emancipazione dal giogo del capitale. Le condizioni per la rivoluzione sono dunque lontano dall’essere mature.


Tuttavia le mobilitazioni della classe operaia e di altre frange della popolazione in Grecia, Portogallo e in Spagna mostrano che i lavoratori diventano sempre più coscienti che lo scontro con la borghesia è inevitabile. La loro lotta trova una eco favorevole in larghe frange della popolazione. La guerra di classe combattuta senza tregua dalla minoranza dominante, coi suoi piani di austerità e ripetizione e il caos nel quale getta l’economia europea, allontanano sempre di più i cittadini dai loro governanti che, oramai, non li rappresentano più. Gli interessi dei governi, che sono di fatto delle marionette nelle mani della borghesia, e quelli delle classi popolari sono sempre meno conciliabili. La lotta dei lavoratori del sud dell’Europa mostra la strada da seguire. La lotta contro il capitalismo e la classe che lo incarna deve estendersi e allargarsi dovunque in Europa. Ma perché la rivoluzione trionfi, l’unione e la solidarietà fraterna tra i lavoratori europei resta “un imperativo categorico”.


Anche se non tutte le condizioni sono mature, la rivoluzione resta l’unica soluzione. Senza un mutamento radicale, nessuna salvezza! Gli ostacoli immensi e innumerevoli che si ergono di fronte a questo cambiamento non tolgono niente né alla legittimità né alla necessità della rivoluzione. Perché non c’è altro mezzo per liberarsi del capitalismo. Tutte le mezze misure e tutte le riforme, se hanno contribuito a migliorare provvisoriamente la situazione dei moderni schiavi che sono i salariati, restano insufficienti. Peggio, le riforme economiche, sociali e politiche, per quanto necessarie, non fanno in ultima analisi che perpetuare l’asservimento  generale provocato dal sistema. Senza rivoluzione, è impossibile rovesciare e buttare all’aria l’ordine borghese. Non si tratta solo di riformare la società capitalista per renderla sopportabile, ma di abolirla.


Proletari di tutta Europa unitevi!         



(*) K Marx « Contribution à la critique de la philosophie du droit de Hegel »



(1) 
http://www.challenges.fr/entreprise/20120827.CHA9810/quand-u...


(2) V. Lénine, « L’ État et la révolution ». Éditions en langues étrangères, Pékin 1976, page 113.


(3) F. Engels, « Le rôle de la violence dans l’histoire ». Éditions Sociales, Paris 1976, page 38.


(4) F. Engels « Principes du communisme », 1947


http://www.marxists.org/francais/marx/47-pdc.htm