Analisi, novembre 2012 - “Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale”. Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E ancor meno con la politica dei governi. “Risparmiare per ridurre il debito? Una deliberata menzogna”; “Regolamentazione del settore finanziario? Espressione vuota”. Ci offre la sua analisi sotto i colpi della crisi economica  (di lato, Karl Marx)







Le Grand Soir, 11 novembre 2012 (trad. ossin)



« Il capitalismo entra nella sua fase senile »
Samir Amin

“Il pensiero economico neoclassico è una maledizione per il mondo attuale”. Samir Amin, 81 anni, non è tenero con molti dei suoi colleghi economisti. E ancor meno con la politica dei governi. “Risparmiare per ridurre il debito? Una deliberata menzogna”; “Regolamentazione del settore finanziario? Espressione vuota”. Ci offre la sua analisi sotto i colpi della crisi economica (rivista Solidaire)


Dimenticate Nouriel Roubini, alias Dottor Doom, l’economista USA diventato celebre per avere predetto nel 2005 lo tsunami del sistema finanziario. Ecco Samir Amin, che aveva già annunciato la crisi all’inizio degli anni 1970. “All’epoca, alcuni economisti come Frank, Arrighi, Wallerstein, Magdoff, Sweezy e io stesso avevamo detto che la nuova grande crisi era cominciata. La grande. Non una piccola con delle oscillazioni, come ce ne erano state un mucchio prima, ricorda Samir Amin, professore onorario, direttore del Foro del Terzo Mondo a Dakar e autore di moltissimi libri tradotti in tutto il mondo. Ci hanno preso per pazzi. O per comunisti che confondevano i loro desideri con la realtà. Tutto andava bene, madama la marchesa… Ma la Grande crisi è davvero cominciata allora, e la sua prima fase è durata dal 1972-73 al 1980”.


Parliamo prima della crisi degli ultimi cinque anni. O piuttosto delle crisi: quella dei subprime, quella dei crediti, dei debiti, della finanza, dell’euro… Che ne è adesso?

Samir Amin. Quando tutto è esploso nel 2007 con la crisi dei subprime, tutti sono rimasti ciechi. Gli Europei pensavano: “Questa crisi viene dagli Stati Uniti, noi la riassorbiremo rapidamente”. Ma se la crisi non fosse venuta di lì, sarebbe cominciata da un’altra parte. Il naufragio di questo sistema era già scritto, e fin dagli anni 1970. Le condizioni obiettive di una crisi di sistema esistevano dappertutto. Le crisi sono inerenti al capitalismo, che le produce in modo ricorrente, ogni volta più profonde. Non bisogna prendere in considerazione ciascuna crisi separatamente, ma globalmente.

Prendete la crisi finanziaria. Se ci si limita ad essa, si ritroveranno cause puramente finanziarie, come la deregolamentazione dei mercati. Inoltre le banche e le istituzioni finanziarie sembrano essere i maggiori beneficiari di questa espansione del capitale, e ciò rende più facile puntare il dito contro di loro come unici responsabili. Ma occorre ricordare che non sono solo i giganti finanziari, ma anche le multinazionali in generale ad avere beneficiato dell’espansione dei mercati monetari. Il 40% dei loro profitti provengono dalle loro operazioni finanziarie.


Quali sono state le cause obiettive dello scoppio della crisi?

Samir Amin. Le condizioni obiettive esistevano dappertutto. E’ la supremazia degli “oligopoli o monopoli generalizzati” che ha provocato all’economia una crisi di accumulazione, che è allo stesso tempo una crisi di sotto-consumo e una crisi di capacità di profitto. Soltanto i settori  dei monopoli dominanti hanno potuto ritornare ad elevati tassi di profitto, ma distruggendo la capacità di profitto e la redditività degli investimenti produttivi, degli investimenti nella economia reale.


“Il capitalismo degli oligopoli o monopoli generalizzati” è il nome che ha attribuito a quello che, secondo lei, è una nuova fase dello sviluppo del capitalismo. In che cosa questi monopoli sono diversi da quelli di un secolo fa?

Samir Amin.
La novità è nell’espressione “generalizzato”. Dall’inizio del 20° secolo, vi sono stati degli attori dominanti nel settore finanziario e nel settore industriale, come la siderurgia, la chimica, l’automobile ecc… Ma questi monopoli erano delle grandi isole in un oceano di PME (Piccole e medie imprese) realmente indipendenti. Ora, da una trentina di anni, assistiamo ad una centralizzazione dei capitali in modo smisurato. Il magazine Fortune menziona oggi 500 oligopoli le cui decisioni controllano tutta l’economia mondiale, dominando a monte e a valle tutti i settori di cui non sono direttamente proprietari.

Prendiamo l’agricoltura. Un tempo un contadino poteva scegliere tra diverse imprese per la sua attività. Oggi una PME agricola deve vedersela a monte con il blocco finanziario delle banche e con enormi monopoli di produzione del concime, dei pesticidi e degli OGM, di cui Monsanto è l’esempio che colpisce di più. E, a valle, con le catene di distribuzione. A causa di questo doppio controllo, la sua autonomia e la sua capacità di reddito si riducono sempre di più.


E’ per questo motivo che lei preferisce oggi parlare di un sistema caratterizzato dalla “massimizzazione della rendita monopolista”, piuttosto che dalla “massimizzazione del profitto”?

Samir Amin. Sì. Il controllo assicura a questi monopoli una rendita prelevata dal profitto globale del capitale ottenuto dallo sfruttamento del lavoro. Questa rendita diventa imperialista nella misura in cui questi monopoli operano nel Sud. La massimizzazione di questa rendita concentra i profitti e le fortune nelle mani di una piccola élite a detrimento dei salari, ma anche dei profitti del capitale non monopolistico. La diseguaglianza crescente diventa assurda. Al limite, può paragonarsi ad un miliardario che possedesse il mondo intero e lasciasse tutti gli altri in miseria.


I liberali sostengo che occorre “ingrandire la torta”, reinvestendo i profitti. Solo successivamente si può pensare alla divisione

Samir Amin. Ma non si investe nella produzione, perché non c’è più domanda. La rendita viene investita nella fuga in avanti sui mercati finanziari. L’espansione da un quarto di secolo degli investimenti nei mercati finanziari è qualcosa di mai visto nella storia. Il volume delle transazioni su questi mercati è di più di 2.500.000 miliardi di dollari, mentre il PIL mondiale è di 70.000 miliardi di dollari.

I monopoli preferiscono questi investimenti finanziari a quelli nell’economia reale. E’ la “finanziarizzazione” del sistema economico. Questo tipo di investimento è l’unica condizione perché prosegua questo “capitalismo dei monopoli generalizzati”. In questo senso, la speculazione non costituisce un vizio del sistema, ma una sua esigenza logica.

E’ sui mercati finanziari che gli oligopoli, non solo le banche, fanno i loro profitti e entrano in concorrenza tra loro. La dipendenza del valore delle grandi aziende dal valore delle azioni in Borsa, la sostituzione del sistema delle pensioni per capitalizzazione con quello contributivo, l’adattamento dei cambi flessibili e l’abbandono del sistema di determinazione dei tassi di interesse da parte delle banche centrali, lasciando questa responsabilità ai “mercati”, devono tutti essere letti nel contesto di questa finanziarizzazione.


Questa deregulation dei mercati finanziari è sotto tiro da qualche anno. I leader politici parlano di “moralizzazione delle operazioni finanziarie” e di “farla finita col capitalismo-casinò”. La regolamentazione potrebbe essere una soluzione della crisi?

Samir Amin. Sono tutte chiacchiere, frasi vuote per ingannare l’opinione pubblica. Questo sistema è condannato a continuare la sua folle corsa verso il profitto finanziario. La regolamentazione aggraverebbe ancor di più la crisi. Dove si riverserebbe il surplus finanziario? Da nessuna parte! Determinerebbe una svalutazione massiccia del capitale che si tradurrebbe, tra le altre cose, in un crac della Borsa.

Gli oligopoli o i monopoli (i “mercati”) e i loro servitori politici hanno come unico progetto quello di restaurare lo stesso sistema finanziario. Non può escludersi che il capitale sia capace di restaurare il sistema ante-2008. Ma questo necessiterà di somme gigantesche erogate dalle banche centrali per eliminare tutti i titoli tossici e per ristabilire la capacità di profitto e l’espansione finanziaria. E il costo dovrà essere sopportato dai lavoratori in generale, e dai popoli del Sud in particolare. Sono i monopoli ad avere l’iniziativa. E le loro strategie hanno sempre dato i risultati ricercati, vale a dire i piani di austerità.


Appunto questi piani di austerità si susseguono, si dice per ridurre i debiti degli Stati. Eppure si sa che questo aggrava la crisi. I leader politici sono degli imbecilli?

Samir Amin. Ma no! E’ sull’obiettivo che mentono. Quando i governi pretendono di volere la riduzione del debito, mentono deliberatamente. L’obiettivo non è la riduzione del debito ma che gli interessi del debito continuino ad essere pagati, e preferibilmente a tassi ancora più elevati. La strategia dei monopoli finanziari, al contrario, ha bisogno della crescita del debito – il capitale guadagna, si tratta di investimenti interessanti.

Nel frattempo le austerità aggravano la crisi, c’è una chiara contraddizione. Come diceva Marx, la ricerca del massimo profitto distrugge le basi che lo permettono. Il sistema implode sotto i nostri occhi, ma è costretto a proseguire nella sua folle corsa.


Dopo la crisi degli anni 1930, lo Stato ha comunque saputo superare parzialmente questa contraddizione, ed è stata varata una politica keynesiana di rilancio

Samir Amin. Sì, ma quando è stata varata questa politica keynesiana? Agli inizi, la risposta alla crisi del 1929 è stata esattamente la stessa di oggi: politiche di austerità, con la loro spirale discendente. L’economista Keynes diceva che era assurdo e che si sarebbe dovuto fare il contrario. Ma solo dopo la Seconda Guerra Mondiale lo hanno ascoltato. Non perché la borghesia era stata convinta dalle sue idee, ma perché questo è stato imposto dalla classe operaia. Con la vittoria dell’Armata Rossa sul Nazismo e la simpatia per i partigiani comunisti, la paura del comunismo era ben presente.

Oggi qualcuno – non sono tanti – degli economisti borghesi intelligenti può dire delle misure di austerità che sono assurde. E allora? Fin tanto che il capitale non è costretto dai suoi avversari a mettere acqua nel suo vino, tutto questo continuerà.


Quale rapporto c’è tra la crisi nata da qualche anno e quella degli anni 1970?

Samir Amin. Agli inizi degli anni 1970 vi è stata una caduta della crescita economica. In qualche anno i tassi di crescita si sono dimezzati rispetto a quelli dei gloriosi trenta anni precedenti: In Europa, dal 5 al 2,5%, negli Stati Uniti dal 4 al 2%. Questa brutale caduta era accompagnata da una analoga caduta degli investimenti nel settore produttivo.

Negli anni 1980, Thatcher e Reagan hanno risposto con le privatizzazioni, la liberalizzazione dei mercati finanziari e una durissima politica di austerità. Tutto questo non ha fatto crescere i tassi di crescita, ma li ha mantenuti a livelli assai bassi. Peraltro l’obiettivo dei liberali non era mai stato quello di rilanciare la crescita, checché ne dicano. L’obiettivo era soprattutto di ridistribuire i profitti a vantaggio del capitale. Missione compiuta. E adesso, quando si passa in Belgio dal -0,1% al +1% di crescita, alcuni giubilano: “La crisi è finita!” E’ grottesco!


Lei paragona gli anni 1990 e 2000 con quelli di un secolo prima: una sorta di seconda “Belle Epoque”

Samir Amin. Io ho fatto un parallelo tra le due lunghe crisi perché – è assai curioso – esse cominciano con uno scarto di cento anni esatti: 1873 e 1973. Inoltre esse presentano agli esordi gli stessi sintomi e la risposta del capitale è stata la stessa, vale a dire tre insiemi di misure complementari.

Per prima cosa, una enorme centralizzazione del capitale con la prima ondata dei monopoli, quella analizzata da Hilfirding, Hobson e Lenin. Nella seconda crisi si hanno quelli che io chiamo i “monopoli generalizzati”, che si sono costituiti negli anni 1980.

In secondo luogo, la mondializzazione. La prima grande crisi comporta l’accelerazione della colonizzazione, che è la forma più brutale di mondializzazione. La seconda ha portato i piani di aggiustamento strutturale dello FMI, che si possono definire una forma di ricolonizzazione.

Terza e ultima misura: la finanziarizzazione. Quando si presenta la finanziarizzazione come un fenomeno nuovo, mi viene da ridere. Che cosa è stato creato come risposta alla prima crisi? Wall Street e la City di Londra nel 1900!

E tutto ciò ha prodotto le stesse conseguenze. Prima un breve periodo in cui è sembrato che questi interventi funzionassero, perché si è pompato dai popoli, soprattutto quelli del Sud. Così fu dal 1890 al 1914, la “Belle Epoque”. Si sono tenuti gli stessi discorsi sulla “fine della Storia” e sulla fine delle guerre. La mondializzazione era sinonimo di pace e di colonizzazione con una missione civilizzatrice. Ebbene dove ci ha portato tutto ciò? Alla Prima Guerra Mondiale, al Rivoluzione Russa, alla crisi del 1929, al nazismo, all’imperialismo giapponese, alla Seconda Guerra Mondiale, alla rivoluzione cinese, ecc. Si può dire che dopo il 1989 vi sia stata una sorta di seconda “Belle Epoque”, fino al 2008, benché essa si sia accompagnata, fin dall’avvio, da guerre del Nord contro il Sud. Il capitale, in questo periodo, ha realizzato le strutture che hanno consentito agli oligopoli di beneficiare dei loro profitti. E, come la globalizzazione finanziaria ha condotto alla crisi del 1929, la stessa ha recentemente condotto alla crisi del 2008.

Oggi abbiamo raggiunto uno stesso momento cruciale che annuncia una nuova ondata di guerre o di rivoluzioni.


Non troppo allegra come immagine del futuro… Lei scrive che “sta nascendo un nuovo mondo, che può diventare ancora più barbaro, ma che può anche diventare migliore”. Da cosa dipende?

Samir Amin. Non ho la sfera di cristallo. Ma il capitalismo è entrato nella sua fase senile, che può portare a enormi bagni di sangue. In un periodo di tal genere, i movimenti sociali e le proteste producono cambiamenti politici, nel bene o nel male, fascisti o progressisti. Le vittime di questo sistema riusciranno a costruire una alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa oggi è la posta politica.





“Il socialismo è qualcosa di più del capitalismo senza capitalisti”

In questi tempi di capitalismo senile, le proteste dei movimenti sociali producono cambiamenti politici, nel bene o nel male, fascisti o progressisti”. Questa era la conclusione dell’economista marxista Samir Amin nella prima parte di questa intervista, pubblicata da Solidaire n. 38. In questa seconda parte, affronta la questione del superamento del capitalismo in crisi. “E’ tempo per la sinistra di essere audace! Deve costruire un fronte contro i monopoli”.

Per l’economista Samir Amin, professore onorario, direttore del Forum del Terzo Mondo a Dakar e autore di molte opere tradotte in tutto il mondo, “essere marxista implica necessariamente essere comunista, perché Marx non teneva separata la teoria dalla pratica – l’impegno nella lotta per l’emancipazione dei lavoratori e dei popoli”. E’ quello che fa Samir Amin: nella prima parte di questo colloquio ha analizzato la crisi; qui affronta il tema della lotta contro la superpotenza dei monopoli capitalisti e per un’altra società.


Quali sono le caratteristiche di questo “capitalismo senile” che potrebbe, secondo lei, portarci ad una “nuova era di grandi bagni di sangue”?

Samir Amin. Non ci sono più imprenditori creativi, ma dai “wheeler-dealers” (maneggioni). La civiltà borghese, col suo sistema di valori – elogio dell’iniziativa individuale naturalmente, ma anche i suoi diritti e libertà liberali, perfino la solidarietà sul piano nazionale – è stata sostituita da un sistema senza valori morali. Vedete dei presidenti degli Stati Uniti criminali, delle marionette e tecnocrati alla testa dei governi europei, dei despoti nel Sud, l’oscurantismo (talebani, sette cristiane e buddiste)…

Si può descrivere il capitalismo di oggi come senile, che può inaugurare una nuova era di massacri. In un periodo di questo tipo, le proteste dei movimenti sociali producono dei cambiamenti politici. Nel bene e nel male, fascisti o progressisti. La crisi degli anni 1930 ha per esempio prodotto il Fronte popolare in Francia, ma anche il nazismo in Germania.


Che cosa significa questo per gli attuali movimenti di sinistra?

Samir Amin. Noi viviamo in un’epoca nella quale si profila un’ondata di guerre e rivoluzioni, Le vittime di questo sistema riusciranno a dare vita ad una alternativa positiva, indipendente e radicale? Questa è la posta politica oggi. Occorre che la sinistra radicale assuma l’iniziativa della costruzione di un fronte, di un blocco alternativo antimonopolistico che comprenda tutti i lavoratori e produttori vittima di questa “oligarchia dei monopoli generalizzati”, tra cui una gran parte delle classi medie, i contadini, le PME (piccole e medie imprese).


Lei afferma che la sinistra deve rinunciare ad ogni strategia diretta ad aiutare il capitalismo ad uscire dalla crisi?

Samir Amin. E’ il tempo dell’audacia! Non ci troviamo in un momento storico nel quale la ricerca di un “compromesso sociale” capitale/lavoro costituisce una alternativa possibile come nel dopo-guerra con la socialdemocrazia degli Stati-previdenza. Alcuni nostalgici immaginano di riuscire a “far ritornare” il capitalismo dei monopoli sulle loro posizioni di qualche decennio fa. Ma la storia non consente mai certi ritorni al passato.

Ci troviamo in un momento storico in cui la sinistra radicale deve essere audace. Parlo della sinistra che è convinta che il capitalismo debba essere superato fondamentalmente. Ma anche una sinistra che non perde di vista il  fatto che il socialismo debba essere inventato senza avere necessariamente un modello preesistente. Nei paesi del Nord vi sono le condizioni obiettive per isolare il capitale dei monopoli. Si deve cominciare a fare ciò costruendo una alleanza sociale e politica che metta insieme la stragrande maggioranza.


C’è oggi questa audacia?

Samir Amin. L’assenza di audacia a sinistra è attualmente terribile. Vi ricordate come i socialdemocratici sono stati contenti quando il regime sovietico è crollato, e con esso i partiti comunisti dell’Europa occidentale? Io dissi loro: “Siete stupidi. Il prossimo crollo è il vostro. Il capitale aveva bisogno di voi solo perché c’era la minaccia comunista”: E, invece di radicalizzarsi, sono invece scivolati a destra. Sono diventati social-liberali. Oggi votare socialdemocratico o destra è la stessa cosa. Tutti dicono la stessa cosa: “Noi non possiamo fare niente, è il mercato che decide, le agenzie di rating, il super partito del capitale dei monopoli”.

Vediamo anche dei segmenti importanti della sinistra radicale accettare questo per paura o sconforto. C’è perfino qualcuno che si fa chiamare comunista ma dice che non si può essere altro se non un’ala sinistra della socialdemocrazia. E’ sempre la stessa logica di accomodamento del capitalismo. Una logica del meno peggio. “Lo vuole l’Europa”, è l’argomento per eccellenza. “L’Europa non è una cosa buona, ma la distruzione dell’Europa sarebbe peggio”.  Ma andare di “meno peggio” in “meno peggio”, porta alla fine al “più peggio”. Due anni fa si diceva ai Greci: suvvia, una piccola cura di austerità e  tutto andrà bene! A quale siamo arrivati? Alla ottava?


Quali potrebbero essere le parole d’ordine dell’alleanza sociale e politica che propone?

Samir Amin. L’idea generale è quella della creazione di un blocco anti-monopoli. Occorre un progetto globale che metta in discussione il potere dei “monopoli generalizzati”. Non possiamo sognare che gli individui possano cambiare il mondo solo col miracolo di una azione individuale – idea che si ritrova in diversi movimenti socialisti e tra filosofi come Toni Negri.

Si comincia con lo spiegare che esistono delle alternative alle politiche di austerità. In termini popolari, ciò equivale a contestare il discorso del capitale sulla “competitività e moderazione salariale”. Perché non dire l’inverso, che i salari non sono sufficienti e i profitti troppo grandi?


Nella migliore delle ipotesi questo porta ad una leggera riduzione delle diseguaglianze…

Samir Amin. Non è ovviamente sufficiente. Una vera sinistra deve rovesciare il disordine sociale prodotto dai monopoli. Elaborare delle strategie per assicurare il massimo impiego e garantire salari decenti che vadano di pari passo con la crescita. Ed é semplicemente impossibile farlo senza espropriare i monopoli. I settori chiave dell’economia devono essere nazionalizzati. Le nazionalizzazioni sono, in un primo stadio, delle statalizzazioni, il trasferimento della proprietà dal capitale privato allo Stato. Ma l’audacia qui consiste nel “socializzare” la gestione dei monopoli nazionalizzati.

Prendiamo questi monopoli che controllano l’agricoltura, le industrie chimiche, le banche e la grande distribuzione. “Socializzarli” significa che degli organi di gestione debbano far parte ovviamente i rappresentanti degli agricoltori, dei lavoratori di questi ex monopoli, ma anche delle organizzazioni dei consumatori e dei poteri locali (coinvolti per ragioni di tutela dell’ambiente, ma anche per quanto riguarda le scuole, gli alloggi, gli ospedali, l’urbanistica, i trasporti…)

Una economia socialista non si limita alla socializzazione del suo management. Il socialismo non è solo il capitalismo senza capitalisti. Deve includere la relazione tra gli uomini, la natura e la società. Continuare nella forma che il capitalismo propone equivale a distruggere l’individuo, la natura e i popoli.


Cosa farebbe di Wall Street e della City?

Samir Amin. Occorre una “de-finanziarizzazione”. Un mondo senza Wall Street, per riprendere il titolo del libro di François Morin. Questo implica imperativamente la pura e semplice soppressione dei fondi speculativi e dei fondi pensione, diventati i maggiori operatori nella finanziarizzazione. L’abolizione di questi ultimi deve farsi a beneficio di un sistema pensionistico a ripartizione. Bisogna interamente ripensare il sistema bancario. In questi ultimi decenni, il sistema bancario è diventato eccessivamente centralizzato e pochi giganti dettano legge. Si potrà quindi pensare ad una “banca dell’agricoltura”, o una “banca dell’industria”, i cui consigli di amministrazione siano composti da clienti industriali e da rappresentanti dei centri di ricerca e dei servizi della zona.

Come considera il ruolo di movimenti come Occupy, gli Indignati e i sindacati nella lotta contro i monopoli?

Samir Amin. Che negli Stati Uniti vi sia un movimento come Occupy Wall Street è un magnifico segnale. Che non si accettino più le ingiunzioni “non c’è alternativa” e “l’austerità è obbligatoria” è assai positivo. Idem per gli Indignati in Europa. Ma si tratta di movimenti che restano deboli, che non ricercano sufficientemente delle alternative. I sindacati giocano un ruolo importante, ma devono ridefinirsi. Le parole d’ordine di cinquanta anni fa sono superate. Cinque decenni fa, quattro lavoratori su cinque avevano un lavoro sicuro e stabile, e la disoccupazione quasi non esisteva. Oggi solo il 40% ha un lavoro stabile, il 40% lavora con un contratto precario e il 20% è disoccupato. La situazione è radicalmente differente. I sindacati non possono dunque limitarsi a rivendicazioni che riguardino solo la metà della classe dei lavoratori. E’ assolutamente necessario farsi carico dei diritti dei disoccupati e delle persone sotto contratto precario. Si tratta spesso di immigrati, donne e giovani.


Come vede la relazione tra la lotta delle classi nel Nord e nel Sud?

Samir Amin. I conflitti capitalismo/socialismo e Nord/Sud sono indissociabili. Il capitalismo è un sistema mondiale e le lotte politiche e sociali, se vogliono essere efficaci, devono essere condotte simultaneamente nell’arena nazionale e sul piano mondiale. E’ quello che Marx voleva dire con “Proletari di tutti i paesi, unitevi”. Essere comunista vuole anche dire essere internazionalista.
E’ assolutamente indispensabile assumere la questione del clima, delle risorse naturali e dell’ambiente nel conflitto Nord-Sud. L’appropriazione privata di queste risorse e l’uso abusivo del pianeta mette in pericolo il futuro dell’umanità.

L’egoismo dei monopoli nel Nord è stata espressa brutalmente da Bush che ha dichiarato: “The American way of life is not negotiable” (il modo di vita americano non è negoziabile). Questo egoismo porta a negare l’accesso alle risorse naturali al Sud (l’80% dell’umanità). Io credo che l’umanità non potrà impegnarsi seriamente nella costruzione di una alternativa socialista se non si cambia questo “way of life” nel Nord, cosa che non vuol dire che il Sud debba solo aspettare con pazienza. Al contrario le lotte nel Sud riducono la rendita imperialista e indeboliscono la posizione dei monopoli nel Nord, e questo rafforza le classi popolari del Nord nella loro lotta per la socializzazione dei monopoli. La posta è che nel Nord l’opinione generale non deve limitarsi alla difesa dei suoi privilegi nei confronti dei popoli del Sud.


Le economie dei paesi emergenti come la Cina, il Brasile, la Russia e l’Africa del Sud non minacciano già in qualche modo il potere dei “monopoli generalizzati”?

Samir Amin. Dal 1970 il capitalismo domina il sistema mondiale attraverso cinque punti di forza. Il controllo dell’accesso alle risorse naturali, il controllo della tecnologia e della proprietà intellettuale, l’accesso privilegiato ai media, il controllo del sistema finanziario e monetario e, infine, il monopolio delle armi di distruzione di massa. Io chiamo questo sistema “apartheid on a global scale” (apartheid su scala mondiale). Esso implica una guerra permanente contro il Sud, una guerra avviata nel 1990 dagli Stati Uniti e dai suoi alleati della NATO durante la prima guerra del Golfo. Ora, i paesi emergenti, soprattutto la Cina, stanno per destrutturare questi punti di forza. Prima di tutto la tecnologia. Si passa dal “Made in China” al “Made by China”. La Cina non è più l’officina del mondo per le succursali o gli associati del grande capitale dei monopoli. Essa ha il controllo della tecnologia sviluppata da sé stessa. In certi ambiti, soprattutto quelli del futuro dell’auto elettrica, il solare, ecc, essa possiede delle tecnologia di punta in anticipo sull’occidente.


D’altronde la Cina lascia il sistema mondiale distruggersi. E addirittura finanzia la sua autodistruzione finanziando il deficit degli USA e costruendo in parallelo dei mercati regionali indipendenti o autonomi attraverso il “gruppo di Shanghai”, che comprende la Russia, ma potenzialmente anche l’India e l’Asia del Sud-Est. Sotto Clinton, un rapporto dei servizi di sicurezza USA ha previsto perfino la necessità di una guerra preventiva contro la Cina. E’ in rapporto a ciò che i Cinesi hanno scelto di contribuire alla morte lenta degli Stati Uniti finanziando il loro deficit. La morte brutale di una bestia di tal genere sarebbe troppo pericolosa.


E i paesi dell’America del Sud?

Samir Amin. Le democrazie popolari in America Latina hanno certamente indebolito la rendita imperialista. Ma avranno difficoltà ad andare oltre nel loro sviluppo finché coltiveranno l’illusione di uno sviluppo nazionale capitalista autonomo. Lo si vede chiaramente in Bolivia, in Ecuador o in Venezuela. Lo si vede meno in Brasile perché si tratta di un grandissimo paese che possiede risorse naturali gigantesche. Essi hanno avviato una cooperazione tra loro con l’ALBA. Ma l’ALBA resta modestissima fino ad oggi a paragone della cooperazione militare, economica e diplomatica del gruppo di Shanghai, che si disconnette dall’economia mondiale dominata dai monopoli occidentali.

Per esempio nessun pagamento viene fatto in dollari o in euro. L’America Latina può anche “disgiungersi” dal capitalismo dei monopoli. Essa ha capacità tecniche e risorse naturali sufficienti a fare del commercio Sud-Sud. Cosa che era impensabile qualche decennio fa.   

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