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 Analisi, maggio 2013 - Il 25 maggio 2013 si sono celebrati i cinquanta anni di vita dell'Unione Africana (UA), costituita con il nome di Organizzazione per l'Unità africana (OUA) il 25 maggio 1963 ad Addis Abeba. Il bilancio (negativo) è tracciato dal nostro collaboratore Jean Marc Soboth (nella foto, la sede dell'UA ad Addis Abeba)







L’Unione Africana cinquant’anni dopo: l’eterno status quo!
Jean-Marc Soboth

Cominciamo prima di tutto con lo sfatare alcuni luoghi comuni.
Contrariamente a quel che molti pensano nell’emisfero Nord, l’Africa non è affatto una grande distesa di sterpaglie dove la gente vive in un medesimo ambiente primitivo e dove ogni mattina, al risveglio, dei bambini tutti nudi e poverissimi dicono buongiorno al leone o giocano con la pantera. No.

Non si dorme sui rami degli alberi insieme alle scimmie, vivendo di caccia di pesca e di raccolta.
In Africa ci sono delle megalopoli ultra moderne come Il Cairo in Egitto, Johannesburg, Durban, Port Elizabeth, Pretoria in Africa del Sud, Abuja e Lagos in Nigeria, ecc.
La differenza col mondo occidentale risiede nel fatto che in Africa una parte della popolazione, soprattutto urbana, vive in immense bidonville miserabili

L’Africa ha delle regioni dove la povertà rurale va talvolta a braccetto con dei flagelli – invisibili a occhio nudo, è vero – come la malaria, la febbre Ebola o l’enigma devastatore del Hiv-Aids, di cui non si sa nulla fino ad oggi della sua provenienza ma che toccava, secondo l’ONU SIDA, fino al 5% della popolazione adulta (15-49) nel 2006.


Il Continente africano nella sua attuale configurazione conta 54 Stati anglofoni, francofoni, lusofoni e arabofoni, le cui frontiere furono disegnate e imposte dalla Conferenza coloniale di Berlino nel 1885, a iniziativa del cancelliere tedesco Bismarck e della Francia.
Tutto si è svolto in assenza degli Africani.


La imposizione delle frontiere è stata fatta in una atmosfera contrassegnata dalla filosofia della superiorità razziale dei bianchi. “In Africa c’è bisogno di una grande invasione che assomigli a quella che fecero i Franchi, a quella che fecero i Goti”, raccomandava il Maresciallo Bugeaud – discorso riportato da Aimé Césaire nel “Discours sur le Colonialisme” (1)

Ecco uno degli scenari più prosaici di questa invasione “civilizzatrice” a Ambike, città africana che, secondo Césaire, non aveva nemmeno pensato di difendersi:
“I fucilieri avevano ordine di uccidere solo gli uomini, ma non se ne ricordarono; inebriati dall’odore del sangue, non risparmiarono una sola donna, un solo bambino… Alla fine del pomeriggio, il calore fece alzare un po’ di nebbia: era il sangue delle cinquemila vittime, l’ombra della città che evaporava sotto il sole cocente”.

Questo sistema, ufficialmente contrassegnato come “civilizzazione dei selvaggi” – cioè cristianesimo, dato che ogni altra credenza equivale a bestialità – si è concluso con una “indipendenza” offerta negli anni 1960. In alcuni paesi come il Camerun, centinaia di migliaia di nazionalisti vennero perseguitati e decimati dalla Francia.

Fu allora che, subodorando il cinismo post-coloniale occidentale fin dalle indipendenze degli anni 1960, alcuni leader africani avviarono il progetto di unità africana che avrebbe dovuto rafforzare le capacità, ricostruire un continente a brandelli e abolire le frontiere in uno spazio politico e un mercato comuni, liberati dall’influenza neocoloniale.

Questo è stato il significato originario dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), creata ad Addis Abeba il 25 maggio 1963 a iniziativa del più illustre dei suoi figli, il dottor Kwame Nkrumah, un ex allievo della London School of Economics, padre dell’indipendenza del Ghana – ex Gold Coast inglese ribattezzata.

Ma bisogna subito dire che fin dall’inizio si trattò di un fallimento! (2) A conclusione delle trattative tra i Capi di Stato dei nuovi paesi da poco indipendenti, il dibattito prese presto i cammini tortuosi del conflitto politico. La maggior parte si opposero al progetto federativo col pretesto che si andava troppo in fretta. Molti trovarono l’occasione per una rinnovata testimonianza di amore verso il colono, cui si andava a rendere conto delle discussioni confuse intorno alla loro ostinata opposizione a  qualsivoglia sacrificio della sovranità a vantaggio di una sovrastruttura anche confederale.

Tanto più che la Francia coloniale brandiva il suo progetto di Unione francese, che avrebbe dovuto riunire le sue ex colonie per fronteggiare “la minaccia anglo-sassone” o comunista, unico pericolo che minacciava gli amici africani a parere del colono francese. Il progetto raccolse formalmente le adesioni più entusiaste di Félix Houphouet-Boigny della Costa d’Avorio o Félix Tsiranana del Madagascar, senza contare un ruolo del tutto torbido giocato dal Nigeriano Tafawa Balewa, il cui progetto segreto, come per molti altri, era di silurare la leadership di Nkrumah.


Meglio dunque confessarlo: la creazione dell’OUA si fondò su un rifiuto radicale del panafricanismo.
Secondo Yves Person (3), i leader africani hanno negato ai loro popoli l’autodeterminazione reclamata dalle potenze occidentali. Ciò in spregio del diritto dei popoli a disporre di se stessi.
Dimostrazione di inganno, l’organizzazione si è debitamente imposta nei suoi testi il “rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di ciascuno Stato e il suo diritto inalienabile a un’esistenza indipendente”. La garanzia perenne di un siffatto imbroglio è rappresentata da una burocrazie specializzata in cose inutili ad Addis Abeba.

E’ evidente, fu più forte la volontà di molti Stati a proseguire le loro relazioni incestuose con i coloni – lo si vede ancora oggi nell’assiduità dei capi di Stato africani ai summit Africa-Francia di fronte al loro assenteismo secolare all’Unione Africana.

E quando nel 2002, per impulso del colonnello Muammar Gheddafi – che più tardi si assumerà il 15% del budget – l’OUA diventò Unione Africana (UA), in applicazione della Dichiarazione di Sirte del 9 settembre 1999, lo scenario è restato identico. Il mercato comune venne rinviato alle calende greche. L’UA è restata una amministrazione incapace della minima influenza: come dimostrano i casi della guerra del Biafra alla fine degli anni 1960, del genocidio ruandese del 1994 o della fine del regime di apartheid sud-africano, seguito dalla liberazione di Nelson Mandela nel 1993.

L’OUA è stata nondimeno boicottata dalle grandi potenze – gli USA vi hanno inviato un ambasciatore solo nel 2006, nella persona di Cindy Courville, e nello stesso tempo il Pentagono sponsorizzava una visione paternalista/militarista dell’Africa; tanto più che la ripresa di interesse per l’unità africana venne criticata a Parigi. Per essere certi che l’Africa non si sarebbe mai dotata di una capacità nucleare per fini nucleari nemmeno collettiva, le potenze coloniali hanno fatto firmare a 43 paesi africani, l’11 aprile 1996, un trattato che impegna questo continente (produttore di uranio) a non sviluppare mai armi nucleari.
Fino a oggi, il destino degli Africani è stato deciso altrove, con la complicità dei capi di Stato che non sono altro, nella maggior parte dei casi, che degli stupidi governatori per conto delle ex potenze coloniali.

Questi ultimi moltiplicano gli interventi militari, i colpi di stato sanguinosi e i genocidi, in funzione della mappa delle risorse naturali del continente e della manipolazione mediatica.

Il continente, in sé, non esiste. Almeno non ancora. Non è mai riuscito a conquistarsi, coi suoi 54 Stati, un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dove continua a essere rappresentato ufficialmente dalla Francia, che naturalmente non ha nessuna voglia di perdere una simile posizione.
Questa stessa Francia controlla fino a oggi una dozzina di ex colonie “indipendenti” attraverso un meccanismo monetario di ispirazione nazista che essa ha istituito come regalo per il massiccio impegno di uomini africani alla liberazione della Francia dal nazismo.

Quando venne artificialmente esacerbata la crisi libica nel 2011, un altro pezzo di velo del dominio coloniale venne sollevato dai media francesi. Alcuni capi africani della UA che volevano andare a Tripoli per proporre un piano africano per evitare il bagno di sangue della NATO (160.000 uccisi, secondo una fonte indipendente francese) si sono visti proibire il viaggio dalla Francia. Semplicemente. La Francia minacciò di colpire il loro aereo con l’artigleria.
Le risoluzioni 1973 e 1975, che hanno avviato i bombardamenti in Libia e in Costa d’Avorio (a causa di un conflitto elettorale), furono opera dell’ambasciatore francese all’ONU, Gérard Araud.


Approfittando dell’adesione della RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica) all’Organizzazione panafricana, il Marocco, anti-panafricanista e grande amico della Francia, si era già escluso nel 1984 dall’OUA. Il regno dello Sceriffato si batte ormai con le unghie e con i denti, per aderire all’Unione Europea dove, a quanto pare però, nessuno prende sul serio questa candidatura.

Così va la liberazione africana mezzo secolo dopo. Resta sullo starting-blocks.
 

 
Riferimenti:


(1) Aimé Césaire, Siscours sur le Colonialisme, Présence africaine, Paris, p. 18

(2) Michel Kounou, Le panafricanisme : de la crise à la renaissance : une stratégie globale de reconstruction effective pour le troisième millénaire, Edition Clé, Yaoundé, pp. 216-250

(3) Yves Person, L’OUA ou une décennie d’épreuves pour l’unité, in Revue française d’études politiques africaines, Paris, settembre 1973, pag. 43, citato da Michel Kounou, op. cit.