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 Analisi, luglio 2013 - La distruzione della statua di Nasser a Bengasi, atto fondatore del potere neo-islamista in Libia nel 2012, ha segnato il carattere sintomatico del nanismo politico di un gruppo privo di legittimità e di carisma, proiettato al potere a Tripoli dagli alettoni dei Tomahawks USA (nella foto, Gamal Abd el Nasser - 1918/1970)







En point de mire, 4 luglio 2013 (trad. Ossin)



La metafora di Suez
René Naba


I. Il significato simbolico della distruzione della statua di Nasser

La distruzione della statua di Nasser a Bengasi, atto fondatore del potere neo-islamista in Libia nel 2012, ha segnato il carattere sintomatico del nanismo politico di un gruppo privo di legittimità e di carisma, proiettato al potere a Tripoli dagli alettoni dei Tomahawks USA. Indice di una rara aberrazione mentale, la simbolica destituzione del capofila del nazionalismo arabo ha espresso, nello stesso tempo, l’odio stantio che i neo-islamisti nutrivano verso un uomo che ha sollevato la testa degli Arabi e tenuto a debita distanza le potenze occidentali per quasi due decenni.

Nasser che ha scandito la nuova dignità degli Arabi col suo grido di adunata: “”Irfah Ra’sak Ya Akhi –Rialza la testa, fratello”, il cui carisma infiammava le folle del variegato pianeta, al punto da far pesare una minaccia di implosione del Commonwealth, sulla scia della spedizione di Suez.


Nasser, l’uomo della chiusura del Canale di Suez nel 1956, che sfidò il diritto marittimo internazionale per tagliare l’approvvigionamento energetico dell’Occidente, colpevole di essersi allineato sulle posizioni israeliane. Nasser, passato ai posteri per essere stato l’uomo della diga di Assuan, che costruì con l’aiuto sovietico, sfidando i fulmini USA, per dare da mangiare al suo popolo. Nasser, il partner della guerra di indipendenza dell’Algeria, che assunse senza battere ciglio le conseguenze del suo appoggio alla rivoluzione algerina: una aggressione tripartita delle potenze coloniali dell’epoca (Francia e Gran Bretagna) e del loro protetto Israele durante la spedizione punitiva di Suez nel novembre 1956. Nasser, infine, i cui interlocutori erano delle figure da leggenda: Chou En lai (Cina); Ho Chi Minh (Vietnam), Nehru (India), Josep Broz Tito (Jugoslavia), Ahmad Sukarno (Indonesia), Charles De Gaulle, col quale ha proceduto alla riconciliazione franco-araba dopo la rottura di Suez.

Continuamente i Fratelli Mussulmani hanno sbagliato bersaglio e traiettoria, al punto da apparire, sotto una scorza di apparente ostilità, come il cavallo di Troia dell’Occidente, la ruota dentata della strategia atlantista in terra araba.

Nasser aveva gli occhi puntati su Tel Aviv, i Fratelli Mussulmani su La Mecca, la City e Wall Street. L’ufficiale nazionalista percepiva Israele come la maggiore minaccia del Mondo arabo e privilegiava la solidarietà panaraba, mentre i Fratelli Mussulmani predicavano la solidarietà religiosa come antidoto alla laicità, nascondendo la realtà di Israele. La confraternita, prima formazione ad avere avviato la lotta contro il colonialismo britannico in Egitto, si è così allineata ai peggiori nemici del suo paese: l’Arabia Saudita, vassallo dei nemici del suo paese, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, in una tragica deviazione di traiettoria.


II. Gaza, il barometro del regime neo-islamista egiziano e la Palestina, test della sua indipendenza
Una volta giunti al potere, i Fratelli Mussulmani si sono applicati a imporre il loro credo senza alcuna considerazione per i nuovi equilibri regionali e per la realtà delle forze interne. Senza tener conto delle profonde aspirazioni di un popolo contestatore che aveva abbattuto una dittatura e degli imperativi di potere cui obbliga la restaurazione della posizione dell’Egitto nel mondo arabo.


Su uno sfondo di concorrenza con la sfera di influenza rivale salafista e di opposizione frontale col campo laico, la prova di forza si è rivelata infinitamente più temibile di cinquanta anni di opposizione declamatoria, spesso a connotazione demagogica o per lo meno populista. Allo scadere di un anno di governo, punteggiato da violenti scontri con la frangia protestataria della popolazione, il verdetto è stato pronunciato senza appello. I Fratelli Mussulmani hanno “rinnegato il loro impegno”, sentenzierà Amira Howeidy il 3 aprile 2013, Redattrice capo aggiunta del Al-Ahram Weekly, evidenziando l’atteggiamento dell’Egitto neo-islamista nei confronti di Gaza.


Fatto senza precedenti negli annali diplomatici internazionali, l’Egitto continua ad applicare un accordo superato, mai da esso sottoscritto. Stipulato tra Israele, l’Unione Europea e l’autorità palestinese nel 2005-2006, sulla circolazione dei beni e delle persone. Questo accordo è stato messo sotto i piedi da due operazioni militari israeliane di grande ampiezza, il primo (Piombo fuso” nel 2007-2008, il secondo nel novembre 2011, dopo la visita dell’emiro del Qatar a Gaza e l’allineamento di Hamas al gruppo dei paesi anti-siriani. Un accordo tanto più superato in quanto accompagnato dall’arresto di un terzo del Parlamento palestinese, soprattutto dei deputati del ramo palestinese della confraternita, senza la minima protesta da parte del Cairo e degli altri regimi neo-islamisti arabi (Tunisia, Libia), indice del surrealismo del nuovo potere egiziano e della perdita di sovranità dell’Egitto e dei suoi altri confratelli.  


Unica forza transnazionale di area mussulmana rimasta dopo il crollo del blocco sovietico, la confraternita si propone sul modello della “Democrazia cristiana” dell’Europa occidentale.  Un partito politico di ispirazione religiosa. Punta di lancia dell’Arabia, essa ha condotto una lotta senza tregua contro Gamal Abdel Nasser, capo carismatico degli Arabi circonfuso di un’aura di autentica legittimità popolare, bersaglio di un’offensiva senza precedenti nel Mondo arabo. In certi momenti cardine dello scontro arabo-israeliano, ha tentato di destabilizzare la Siria, l’altro paese in campo, la prima volta nel 1966, quando Israele si impossessò delle acque del fiume Giordano, la seconda volta nel 1982, con la rivolta di Hama, quattro mesi dopo l’invasione israeliana del Libano, con l’intento di favorire la nomina del capo falangista Bachir Gemayel alla magistratura suprema libanese. La cessazione dell’ostracismo che l’ha colpita fino ad oggi sarebbe destinata ad assicurare alla strategia USA il suo aiuto e a compensare un poco l’imperizia degli Stati Uniti nella zona, a causa della impotenza di essi nei confronti di Israele ad ottenere il congelamento della colonizzazione e il rilancio dei negoziati israelo-palestinesi.


Il partenariato che si cerca di promuovere degli Stati Uniti coi Fratelli Mussulmani non è il risultato di un amore smodato verso la confraternita, ma tende a riconoscerle un compenso a buon mercato per le passate turpitudini, specialmente per ciò che concerne la questione palestinese. Ad assicurare perennità all’economia di mercato nei paesi arabi, che gli USA ritengono maggiormente tutelata dai regimi islamici piuttosto che da un sistema nazionalista contestatario, col suo seguito di sindacati e rivendicazioni professionali e patriottiche. Un riconoscimento insomma della lotta dei Fratelli Mussulmani contro i leader del nazionalismo arabi anti-USA.


L’elezione di Mohamad Morsi alla presidenza ha considerevolmente mutato il quadro, collocando la confraternita in una situazione paradossale nei confronti dell’Arabia Saudita, sua promotrice e stimolo in direzione dell’islam europeo. Primo leader islamista democraticamente eletto nel più grande paese arabo, Morsi era in grado di contestare la leadership della dinastia wahabita, tanto al livello religioso con l’Università Al Azhar, che al livello politico. In concorrenza in entrambi i campi di intervento dell’Arabia saudita, religioso e politico. In una fase di “convalescenza” egiziana e di difficili successioni saudite, era assai viva la competizione tra i diversi pretendenti. Spina statunitense nel fianco dell’Arabia e recente sostegno finanziario dei Fratelli Mussulmani al posto del Regno saudita, il Qatar, di analogo rito wahabita, sogna di sostituirsi alla dinastia saudita nella leadership spirituale e politica del Mondo arabo sunnita.


E’ lo stesso per la Turchia, principale beneficiaria della distruzione dell’Iraq e della Siria, che si propone come nuovo capofila del Mondo sunnita tout court.  In uno spettacolare ribaltamento di alleanze, gli ex alleati della dinastia saudita sono diventati pretendenti alla successione. Il contenzioso tra Arabia Saudita e Fratelli Mussulmani culminò, alla fine degli anni 1990, quando la Confraternita si sostituì all’Arabia saudita nei rapporti con l’islam europeo e quando Hamas, ramo palestinese dell’organizzazione, si è alleata con l’asse sciita, costituito da Iran. Siria e Hezbollah. Seguendo l’esempio dell’Arabia saudita, anche le altre petro-monarchie, soprattutto gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait, hanno tenuto sotto pressione i simpatizzanti della confraternita residenti nel loro territorio, per paura che creassero problemi.

Ugualmente la Giordania, che teme di pagare il prezzo di un’operazione destabilizzatrice di matrice islamista, mirante a
fare del regno hascemita la “patria sostitutiva” dei Palestinesi.


III. Al Qaida, una doppia sfida all’Arabia Saudita e all’Egitto
Su uno sfondo di ampia ricomposizione del paesaggio politico regionale, di forte competizione tra l’Arabia Saudita, l’Egitto, il Qatar per la leadership araba, in una fase di effervescenza del mondo arabo, Al Qaida è rientrata in gioco dalla terra degli avi del suo fondatore, Osama bin Laden, lo Yemen, facendo un magistrale marameo ai suoi ex padrini.

Impiantandosi, un decennio dopo l’apocalittico raid che commissionò contro i simboli della superpotenza USA, nel fianco sud del regno saudita, in una lotta di ritorno contro la dinastia wahabita, diretta in primo luogo a restituire legittimità al suo capo postumo e a riacquistare poi credibilità nel Mondo arabo nei luoghi stessi della sua immersione, il mare di Oman, the Arabian Sea. Criticato per la sua fuggitiva sparizione dopo l’invasione USA dell’Afghanistan, nel novembre 2001, a bordo di una moto guidata dal suo equivoco compare, il mullah Omar, capo dei Talebani, il sub-appaltatore emerito della connivenza saudita-USA nella guerra anti-sovietica di Afghanistan (1980-1989), si è ricordato dei suoi antichi finanziatori facendo un  ritorno annunciato in Yemen,  almeno ai suoi discepoli, reinstallandosi nell’Arabia meridionale, nell’epicentro della connessione aracnea del dispositivo militare ed energetico degli USA, sul margine della vena giugulare del sistema energetico mondiale, all’incrocio delle vie di comunicazione marittime internazionali.


La “guerra dimenticata dello Yemen” non è poi così dimenticata, almeno non da tutti, a giudicare dai suoi tanti protagonisti e dall’imponente dispositivo militare impiegato. Questo paese, che fu il terreno di scontro egiziano-saudita nel decennio 1960, potrebbe tornare ad essere, per tribù interposte, il terreno di confronto delle nuove potenze regionali, l’Iran da una parte, l’Arabia Saudita sostenuta dagli Stati Uniti dall’altra. Il riposizionamento di Al Qaida risponde a questa logica. Situato sulla punta sud-ovest della penisola arabica, confinante con l’Arabia Saudita  a nord e con il Sultanato di Oman a est, lo Yemen ha una estensione di costa marittima lunga 1906 km, che collega il Mediterraneo all’Oceano Indiano, attraverso lo Stretto di Suez e il Golfo arabo-persico.


Mai colonizzato, questo paese, collocato secondo la sua etimologia a destra lungo la strada del pellegrinaggio verso La Mecca, ha una superficie di 527.970 km quadrati, vale a dire quasi quanto la Francia.  Attraverso le sue tre isole, Kamran, Perrin e Socotra, controlla l’accesso al Mar Rosso, lungo lo Stretto di Bab el- Mandeb e l’isola di Socotra (la più grande delle isole), all’Oceano Indiano. Segno dell’importanza strategica della zona, il Regno Unito del tempo del protettorato britannico sull’Arabia del Sud aveva fatto del porto di Aden, città del sud Yemen, la piazzaforte della presenza britannica a Est di Suez, per garantire la sicurezza  della via delle Indie.


Il coinvolgimento di AlQaida nel conflitto civile yemenita e in quello somalo è suonata come un’umiliazione per i suoi ex alleati, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti, oltre a costituire una derisione per la strategia USA nel suo più importante obiettivo, la “guerra mondiale contro il terrorismo”, la madre di tutte le battaglie.


Sullo sfondo delle prove di forza USA-iraniane, alla base del contenzioso nucleare iraniano, Osama bin Laden, yemenita di origine, saudita di nazionalità revocata, aveva scelto di dare battaglia nella terra dei suoi avi. Di portare nell’ordine simbolico la sua guerra decisiva contro la monarchia saudita, che considera come rinnegata dell’islam, usurpatrice saudita delle province yemenite, in una lotta di ritorno il cui obiettivo finale doveva essere la riconquista della propria legittimità, o almeno la legittimità della sua organizzazione, offuscata in seno al Mondo arabo. Con paradossalmente quale osservatore passivo, con possibili guadagni, l’Iran sciita e, soprattutto, quella Russia allontanata da Socotra, che aveva combattuto in Afghanistan a causa del suo ateismo.


IV. La talibanizzazione del Sahel
Un anno dopo la caduta di Gheddafi, il Sahel ha assunto i caratteri di una zona senza legge di 4 milioni di chilometri quadrati, feudo di gruppi salafiti, che avrebbero messo a profitto il caos libico e malieno per trasformare tutta la zona dal nord del Mali in un loro santuario. La talibanizzazione della Libia sul modello afghano, tanto temuta durante l’intervento della NATO contro Tripoli, si è così realizzata, di fatto, nel paese vicino, in Mali, un anno dopo.  Un perimetro, posto sotto sorveglianza elettronica dell’aviazione USA dalla base in Burkina Faso, verso cui convergono oramai gli islamisti del sud del Niger, del Ciad e della Nigeria (Boko Haram).


L’intervento della Francia in Mali, nel gennaio 2013, è stato espressione di una strategia di difesa della propria area di influenza africana, in contrapposizione alla politica di lento sgretolamento portata avanti sia dalla Cina che dal wahabismo attraverso le finanze islamiche (Qatar e Arabia Saudita). Prima operazione militare effettuata da sola in territorio estero dalla fine della guerra di Algeria, nel 1962, la Francia vi ha giocato il suo ruolo di Potenza. Un bersaglio ideale, essendo il Mali il più grande paese mussulmano dell’Africa occidentale, dove vi prospera la finanza islamica, mentre i Malieni da più di un decennio si allontanavano progressivamente dalla Francia, rivolgendosi alle petro-monarchie, e la Cina ha acquisito un prestigio certo, per avere restaurato il centro di documentazione islamica di Timbuctu.  Se la Francia è riuscita a frenare la strategia di lento sgretolamento wahabita in Mali, in Niger e in Algeria, non è riuscita però a mettere in sicurezza la zona, spostando l’asse del problema verso la Libia, che ospita oramai il Quartier Generale di AGMI, centro di reclutamento e di addestramento degli jihadisti della zona sahelo-sahariana.

Quattordici paesi arabi e africani avrebbero beneficiato del saccheggio degli arsenali libici avvantaggiandosi della caduta del colonnello Muammar Gheddafi, che hanno alimentato sia gli jihadisti della Libia, che della Siria e della Tunisia.
 
V. L’apparizione di Al Qaida in Siria e l’apertura del Canale Ben Gurion
Se l’invasione jihadista in Siria ha consentito ad Al Qaida una spettacolare ripresa, collocandola come punta di lancia contro l’ultimo paese laico del Mondo arabo, la Siria, è  successo anche che l’adesione del Jobhat Al-Nusra, la colonna vertebrale dell’opposizione siriana, ad Al Qaida, così come il suo giuramento di fedeltà al successore di bin Laden, Ayman Al Zawahiri, e la sua fusione con il ramo iracheno con l’obiettivo di creare un “nuovo califfato” a Damasco, hanno costituito un rovescio strategico per i suoi ex padrini, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, due anni dopo l’assassinio di bin Laden, il 2 maggio 2011, in Pakistan.


Se questo ha provvisoriamente ridotto la pressione sull’Arabia saudita, l’impegno massiccio di Al Qaida nel paese che fu la sede del primo impero arabo, l’impero omayyade,  ha accresciuto i rischi di diffusione del terrorismo a bassa intensità nei paesi europei di accoglimento a forte immigrazione arabo-mussulmana, indiscutibile indizio di fallimento della guerra decennale contro il terrorismo, sintomatico dell’indebolimento degli Stati Uniti nella gestione degli affari del mondo. Ne sono testimonianza i negoziati a Doha tra Statunitensi e Talebani, vincitori a posteriori della guerra d’Afghanistan.


Al Qaida e i Fratelli Mussulmani costituiscono le due uniche organizzazioni transnazionali della sfera arabo-mussulmana, una a vocazione politica, l’altra a vocazione terrorista, votata cioè a esercitare una attività solo distruttiva, mai costruttiva. Se bin Laden ha esonerato gli Occidentali dal loro debito d’onore nei riguardi degli arabo-mussulmani e degli africani, sostituendo la tematica della “guerra contro il terrorismo” al vero e unico tema che valga la pena di considerare, vale a dire il contributo del mondo arabo-mussulmano al trionfo del campo occidentale nella guerra fredda sovietico-statunitense e la liberazione della Francia dal gioco nazista, i Fratelli Mussulmani al potere in tre paesi arabi (Egitto, Libia, Tunisia), protagonisti ineludibili in Siria e a Gaza, sembrano paralizzati dal peso delle contraddizioni che il loro comportamento ambiguo ha suscitato lungo tutto il loro percorso, tra connivenza sotterranea col campo atlantista e denuncia pubblica della loro politica di sostegno a Israele.


Due anni dopo l’avvio della primavera araba, mentre Al Qaida e l’organizzazione che l’ha generata, i Fratelli Mussulmani, moltiplicano i comunicati di vittoria su tutti i fronti arabi, al ritmo delle concessioni arabe sulla questione palestinese, sullo sfondo di un paesaggio devastato come un campo di rovine provocato dalla guerra mercenaria fatta da Arabi contro altri Arabi a profitto del loro comune nemico, Israele e gli Stati uniti, è accaduto che il Sud Sudan e il Kurdistan iracheno siano stati promossi al rango di piattaforme operative israeliane sui due versanti del Mondo arabo, in sovrapposizione alla tenaglia turca, con la Palestina in abbandono, in stato di decomposizione avanzata, mentre l’Iraq, lo Yemen, il Sudan, la Libia e la Siria sono ridotti a brandelli dalle guerre settarie.


L’ultimo summit arabo di Doha, dell’aprile 2013, costituisce da questo punto di vista un capolavoro di mistificazione. Di breve durata e tenuto sotto gli auspici del Qatar, il demiurgo moderno del Mondo arabo, il summit si è accontentato di proporre la creazione di un fondo per Gerusalemme di un miliardo di dollari, al quale l’emirato contribuirebbe con 250 milioni. Per “difendere Al Qods”, il settore arabo di Gerusalemme, terzo luogo santo dell’islam dopo La Mecca e Medina, preciserà lo sceicco Hamad Al Thani criticando en passant “Israele e i suoi intrighi”, il suo alleato segreto nello strangolamento finanziario dell’Autorità palestinese, attraverso la trattenuta delle tasse doganali delle esportazioni in Cisgiordania.


Un miliardo di dollari per Al Qods e niente per l’Autorità Palestinese, mentre il Qatar finanzia il movimento islamista Hamas, grande rivale di Mahmoud Abbas, che controlla la striscia di Gaza. L’obiettivo è di emarginare l'Autorità palestinese, che pure è stata riconosciuta dalla comunità internazionale come l’interlocutore di Israele per fare la pace, a vantaggio dei suoi amici islamisti legati ai Fratelli Mussulmani?


Come un sasso in uno stagno, le dimissioni del primo ministro palestinese Salam Fayyad hanno messo a nudo la vera situazione in cui versa l’Autorità palestinese e tutte le contraddizioni internazionali e locali delle quali essa è a un tempo vittima e causa, dal momento che Ranallah viene riconosciuta come Autorità legittima, laddove il presidente di questa autorità, Mahmoud Abbas è privo di un mandato elettivo, e il governo – per quanto venga considerato il solo interlocutore della Comunità internazionale – è nell’illegalità dal 2007, e Salam Fayyad è stato nominato primo ministro dai finanziatori internazionali, soprattutto gli Stati uniti. Un vuoto politico, giuridico e finanziario, senza legittimità… preludio della disgregazione della Palestina.


L’esperienza della colonizzazione della Palestina ha spinto Israele a colonizzare  altre terre che rappresentano venti volte la sua superficie, a detrimento dei popoli e dell’ambiente dei paesi poveri. Nella Repubblica Democratica del Congo per la coltura della canna da zucchero; in Gabon per la coltura della jatropha, necessaria alla produzione dei biocarburanti; in Sierra Leone dove la colonizzazione israeliana rappresenta il 6,9 per cento del territorio di questo paese dell’Africa dell’ovest.


La medesima passività – connivenza? – si è osservata nei confronti della Siria durante i raid israeliani nella banlieue di Damasco del maggio 2013, a sostegno delle operazioni di aggressione jihadista contro il governo centrale. Nessuno Stato arabo o islamico ha investito della cosa il Consiglio di Sicurezza, chiedendo sanzioni contro Israele dopo questa operazione che ha provocato quasi una quarantina di morti tra le fila dell’esercito siriano.


L’ultimo paese del fronte anti-israeliano, partner dell’Egitto in tre importanti guerre contro lo stato ebraico, è stato espulso dalla Lega araba da una coalizione monarchica di otto paesi che ospitano basi militari occidentali (Arabia saudita, Bahrein, Emirati Arabi Uniti, Giordania, Kuwait, Marocco, Qatar, Oman), oltre a due coriandoli dell’Impero, Gibuti e le Comore, mentre Israele senza colpo ferire ha accentuato la sua capacità di controllo sulle risorse del Mondo arabo e il suo potere decisionale.


VI. La guerra delle acque del Nilo e il Canale Ben Gurion
L’episodio della spartizione delle acque del Nilo e della secessione del Sud Sudan costituiscono la più grossa buffonata della storia egiziana contemporanea. Per raggiungere questo obiettivo, Israele aveva condotto una strategia a doppia azione che ha rivelato la cupidigia degli investitori egiziani ed è costata a Mubarak il potere e il suo posto nella storia. Israele aveva negoziato con l’Egitto, facendo pressioni indirette su di lui, incitando gli Stati africani a reclamare un aumento della loro quota parte nella divisione idraulica del corso d’acqua, allettando gli Africani con dei progetti economici e gli investitori egiziani con promesse di coinvolgimento nei progetti israeliani. In Etiopia, Israele ha finanziato decine di progetti per lo sfruttamento delle acque del Nilo Blu. L’accesso di Israele al perimetro del bacino del Nilo, attraverso il Sud Sudan e con il concorso francese e statunitense, si è duplicato con l’avvio della costruzione di un Canale che congiunge il Mar Rosso al Mar Mediterraneo, dopo Eilat.


Disponendo di due vie di navigazione, uno per l’andata e l’altro per il ritorno, il canale israeliano farà una terribile concorrenza al Canale di Suez e provocherà una perdita del 50% delle entrate egiziane di 8 miliardi di dollari all’anno. Del costo di 14 miliardi di dollari, sarà finanziato col prestito di tre banche statunitensi, a basso tasso di interesse (1%) su 30 anni.   150.000 operai in maggioranza asiatici, soprattutto della Corea del Sud, parteciperanno ai lavori di costruzione che dureranno tre anni. Di 50 metri più lungo del suo rivale egiziano, il canale israeliano consentirà il passaggio della nave più grande del mondo (300 metri di lunghezza e 110 metri di larghezza). Sullo sfondo della guerra di religione dell’islam wahabita contro la dissidenza mussulmana, con la scusa della “Primavera araba” (Siria, Nord Mali), un simile progetto costituirà senza alcun dubbio un casus belli, e comunque un terribile disastro economico per l’Egitto, con conseguente rottura delle relazioni diplomatiche, in ogni caso un congelamento durevole dei rapporti tra i due paesi.


Israele proporrà alla Giordania di realizzare dei siti turistici sul corso d’acqua in modo da neutralizzare una eventuale reazione da parte del secondo paese arabo firmatario di un trattato di pace con Israele. Sulle rive del canale israeliano saranno realizzati dei siti turistici con hotel di lusso, luoghi di distrazione in vista di farne un gigantesco complesso turistico, il cui perimetro sarà posto sotto un’alta sorveglianza elettronica con rilevamenti laser. Il Qatar aveva in precedenza proposto all’Egitto di affittargli il Canale di Suez per cinquanta anni, per la somma di cinquanta miliardi di dollari allo scopo di rinsanguare l’economia egiziana, a carico del Qatar restando l’obbligo di garantire la sicurezza della navigazione, soprattutto lungo la penisola del Sinai, dagli attacchi terroristici e di rassicurare così gli Israeliani.


La protezione del Canale e della penisola del Sinai doveva essere assicurata da compagnie militari private. Il principato aveva fatto la medesima offerta alla Russia, di affittargli la base russa in Siria e di porla sotto la protezione dell’Esercito Libero Siriano (la milizia dei “ribelli”), in cambio di un mutamento delle loro posizioni nel conflitto siriano. Il Qatar si proponeva di ricorrere a Black Water, i mercenari statunitensi che si sono così “distinti” in Iraq. Di fatto l’Egitto perderebbe la propria sovranità. L’idea è stata suggerita da israeliani e statunitensi e mirerebbe a impedire all’Egitto di dislocare truppe supplementari, soprattutto l’aviazione, in Sinai. Ma il progetto ha perso di importanza in quanto, dopo il 2° attacco israeliano contro Gaza (novembre 2012) e il ruolo giocato dall’Egitto, gli USA sono rimasti soddisfatti del ruolo di servente del presidente egiziano Mohamad Morsi. Youssef Al-Qaradawi, il predicatore mediatico, aveva d’altro canto minacciato l’Egitto del taglio dell’aiuto di 20 miliardi di dollari in caso di caduta di Morsi a causa dei contestatori anti-Costituzione.


Nasser aveva gli occhi rivolti a Tel Aviv, il neo islamismo jihadista petroliero sogna un califfato mentre Israele è una potenza nucleare, armata di tutto punto di missili, di cinque sottomarini forniti dalla Germania, di due piattaforme operative nel cuore del Mondo arabo, in Sud Sudan, lungo il bacino del Nilo, e nel Kurdistan iracheno, all’incrocio del mondo arabo-turco-iraniano,  ha completato la fagocitazione della Palestina trasformata in un brandello, avviando una colonizzazione di terre per una superficie venti volte superiore al suo territorio originario, riuscendo a sottrarre a favore dei suoi alleati una parte delle acque del Nilo, ultima impresa prima della stoccata finale della costruzione di un canale rivale al Canale di Suez e il riconoscimento di Israele come “stato ebraico”, bloccando per sempre ogni futura rivendicazione dei palestinesi ad un “Diritto al ritorno” sulla terra dei loro avi.


Nasser aveva gli occhi rivolti a Tel Aviv, mentre i suoi successori, gli islamisti revanscisti, rimuovono in Libia la sua statua, quando Youssef Al Qaradawi, il predicatore della NATO, implorava gli Statunitensi di bombardare la Siria, voltando le spalle alla loro storia nazionale, alla ricerca di un passato mistico, senza dubbio problematico, mentre i combattenti palestinesi di Siria prendevano in ostaggio alcuni Caschi Blu dell’ONU alla frontiera siro-israeliana, invece di lanciarsi in una lotta per la liberazione della loro terra natale, mentre Hamas, beneficiario dell’ospitalità attiva della Siria per 16 anni, si è poi alleata con Al Qaida per impadronirsi del controllo del campo Yarmouk, nella banlieue di Damasco, per farne un vivaio di combattenti anti-regime baatista, barattando una alleanza strategica con una nuova alleanza su base settaria, il sunnismo wahabita, e il suo allineamento sulle petro-monarchie, i vassalli degli Stati Uniti.


Indice di una deframmentazione mentale assoluta, senza eguali negli annali delle relazioni internazionali, della quale i vassalli wahabiti degli Stati Uniti, l’Arabia Saudita e il Qatar, portano la più pesante responsabilità.