Analisi, novembre 2013 - Piccola ondata di panico in Israele dopo la firma dell'accordo ad interim sul nucleare iraniano: la stoppata francese è velleitaria e gli Statunitensi fanno quello che vogliono. Anche se gli Israeliani intendono fare di tutto per recuperare il colpo e mobilitare le loro lobbie, si tratta comunque di una novità (nella foto, il presidente iraniano, Hassan Rohani)





Le Grand Soir, 29 novembre 2013 (trad. ossin)



Ondata di panico in Israele

Un piccolo cambiamento...


M. Saadoune


Piccola ondata di panico in Israele dopo la firma dell'accordo ad interim sul nucleare iraniano: la stoppata francese è velleitaria e gli Statunitensi fanno quello che vogliono. Anche se gli Israeliani intendono fare di tutto per recuperare il colpo e mobilitare le loro lobbie, si tratta comunque di una novità. La valutazione della possibilità di un accordo non è passato prima per il prisma israeliano, si tratta indiscutibilmente di un fallimento per Netanyahu.

Negli Stati Uniti il peso della lobbie israeliana non ha impedito, nel 2006, a due professori di scienze politiche, John J. Meardheimer e Stephen M. Walt,  di trarre delle conclusioni sacrileghe. Per esempio che la politica statunitense in Medio Oriente non è né fondata su interessi strategici, né giustificata da imperativi morali, ma che è più fortemente influenzata dall'attività della lobbie israeliana. I due professori sono stati ovviamente fatti a pezzi, ma sono sopravvissuti, il diritto di espressione essendo maggiormente protetto negli Stati Uniti che in Europa. Questi due professori avevano osato dire che la lobbie israeliana è riuscita in tal modo a pilotare la politica estera del loro paese "lontano da quanto l'interesse nazionale esigerebbe, riuscendo nell'impresa di convincere gli Statunitensi che gli interessi degli Stati uniti e di Israele sono pressocché identici".


Non giureremmo che le idee dei due professori siano oggi quelle della Casa Bianca. Grossolanamente si potrebbe collegare la decisione di dispiacere a Tel Aviv al fatto che Barack Obama è al secondo mandato e non si pone dunque il problema di essere rieletto. Nemmeno si preoccupa di vedere Hillary Clinton succedergli. Senza contare che corre una vera e propria antipatia tra lui Benjamin Netanyahou. Sono elementi che entrano nel conto pur senza essere determinanti. L'accordo con l'Iran non è irreversibile e può essere rimesso in discussione. Basterà porre delle condizioni difficilmente accettabili da parte iraniana per riuscirvi. Perciò è prematuro parlare di fallimento israeliano - o saudita - a mantenere Washington su una linea di totale ostilità nei confronti di Teheran.


Resta non meno vero che, muovendosi in modo contrario ai desiderata di Tel Aviv, Barack Obama ha dimostrato, per la prima volta dal suo arrivo al potere, che la politica dei neo-conservatori in Medio Oriente non è incisa nel marmo. Assai deludente sul dossier palestinese, dove è stato costretto all'arretramento sulla questione della colonizzazione, Barack Obama accenna un piccolo cambiamento finalmente in sintonia con la sua visione proclamata. Più l'Iran diventa parte del gioco, più sarà possibile ottenere "moderazione" e fargli giocare un ruolo positivo. E vi è anche la convinzione, non nuova, che un eventuale attacco contro i siti nucleari iraniani sarebbe totalmente controproducente. E' oramai impossibile disperdere il know how iraniano.


Sono idee che, in sé, non hanno nulla di straordinario, qualcuno potrebbe dire che costituiscono una evidenza, espressione pura di realismo. Ma la politica degli Stati uniti passando totalmente per il prisma israeliano, il realismo non aveva diritto di cittadinanza. Questo modesto "cambiamento" della politica nei confronti dell'Iran è probabilmente da mettere in relazione con l'autonomia energetica degli Stati uniti che ridimensiona, poco a poco, il carattere strategico del Medio oriente. Per lo meno sul piano energetico, che è centrale nella politica degli Stati uniti. Il panico suscitato tra i leader sauditi da questa politica statunitense ne é un indizio.

 

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