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ProfileInterventi, novembre 2017 - Un giudice spiega le ragioni per cui ha deciso di firmare la proposta di legge, avanzata dall'Unione delle Camere Penali italiane, per la separazione delle carriere dei magistrati...

 

Il Dubbio, 14 novembre 2017
 
Perché ho firmato per la separazione delle carriere dei magistrati
Nicola Qutrano
 
Quando la mattina entro in sala d’udienza, gli avvocati si sono già prenotati e attendono il loro turno. Il PM, invece, abitualmente chiede di essere chiamato in ufficio quando verrà il momento della sua procedura. La mia risposta è negativa, perché non c’è motivo di trattare il Pm in modo diverso dagli avvocati. Risultato: il cancelliere gli telefona lo stesso, e magari c’è qualcuno del collegio che storce il naso: “Ma è un collega! Pare brutto…”
 
 
Non è certo per questo che ho deciso di firmare la proposta popolare di legge sulla separazione delle carriere, per quanto anche quel “pare brutto” presenti qualche pericolo. Mi ha convinto il fatto che lo slogan della magistratura associata, il ritornello di sempre che la carriera deve restare unica per “mantenere il PM nella cultura della giurisdizione”, è ingannevole come certe pubblicità un po’ spregiudicate. Io penso, al contrario, che l’unicità della carriera rischi invece di trascinare anche il giudice nella cultura del PM, e che quest’ultima stia di fatto acquisendo caratteri sempre più autonomi dalla “pura” giurisdizione. Non è dunque solo la questione un po’ astratta, per quanto decisiva, di parità tra accusa e difesa. 
 
Faccio un esempio. Di recente, è dovuto intervenire il legislatore per sanzionare di nullità le ordinanze di custodia cautelare prive di una “autonoma valutazione”. Alcuni Gip (non tutti, per fortuna) avevano infatti preso l’abitudine di “esercitare la giurisdizione”, semplicemente copiando e incollando (speriamo dopo averla letta) la richiesta del PM, che era a sua volta un copia-incolla della informativa della Polizia Giudiziaria. E finiva che la stessa informativa diventasse, come per incanto,  anche ordinanza del Riesame, e poi sentenza di condanna e via di seguito… fino al passaggio in giudicato. Di questo passo, il giudice sarebbe diventato superfluo!
 
In termini più generali, poi, credo che la questione delle carriere debba partire da una constatazione di fondo: esistono profonde differenze tra PM e giudice, che rendono il primo un esponente “ibrido” della giurisdizione. Sul piano strutturale, per esempio, mentre il giudice decide in assoluta solitudine, il pubblico ministero è parte di una organizzazione gerarchica dotata di formidabili mezzi, rappresenta un apparato che, come tutti gli apparati, ha le sue logiche e i suoi interessi, non per forza coincidenti con quelli della giurisdizione. Vi sono anche strutture semiautonome come le DDA, che sono collegate tra loro e con la DNA nazionale, e lavorano a stretto contatto coi vari corpi investigativi speciali. Non può dimenticarsi, inoltre, che le Procure stanno anche progressivamente assumendo un ruolo e un rilievo sempre più schiettamente politici. Le indagini e i loro tempi, certo, ma anche il fatto che esse costituiscono oggi la principale agenzia di stampa del Paese. E non tanto per l’anomalia delle  fughe di notizie, quanto per le ordinarie conferenze stampa che seguono ogni operazione. Sono queste oramai a riempire i giornali, a condannare e assolvere al posto delle sentenze, talvolta a fare e disfare governi, perfino a dettare in qualche modo l’agenda politica del Paese. 
 
Il secondo aspetto della diversità col giudice è di tipo “ideologico”. I PM interpretano sempre più il loro ruolo in termini di “lotta” e di “guerra” (alle mafie, al terrorismo, alla criminalità) e, come tali, diventano spesso vedette mediatiche, idoli dei partiti e dei gruppi che a questi valori si ispirano. Ma questi sono concetti che devono (o dovrebbero) essere totalmente estranei alla cultura del giudice, cui compete di condannare o assolvere l’imputato (chiunque esso sia) senza pregiudizi e solo sulla base delle prove in atti. 
 
Bisognerà un giorno affrontare il tema della “politicità” senza responsabilità politica delle Procure (sommessamente credo che il Procuratore debba essere eletto dal popolo). Intanto, occorre adottare le cautele da subito possibili per tutelare la libertà del giudice dalla eccessiva vicinanza con un PM così forte e intriso di “politicità”. Separare le carriere deve servire allora a evitare, per esempio, che il giudice tenda a fidarsi più del Pm che dell’avvocato perché si tratta di un collega, perché ha la medesima formazione, partecipa ai suoi stessi convegni, milita nella stessa corrente. E soprattutto evitare che le logiche “ibride” delle Procure entrino di diritto nel CSM dei giudici, possano decidere della loro carriera, valutarne la professionalità, promuoverli o sanzionarli disciplinarmente. Evitare infine che questo tipo di PM possa andare in Cassazione e contribuire, con la sua cultura e la sua ideologia, alla formazione di quella giurisprudenza cui il giudice deve tendenzialmente uniformarsi.
 
Poche e semplici ragioni, niente più che l’essenza della separazione e dell’equilibrio tra poteri, troppo importanti, però, perché possano essere sacrificati agli interessi di una corporazione.