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ProfileIntervento, 5 febbraio 2018 - Il filmato è un canovaccio simile, a prima vista, a quello tradizionale della “vaiassata”, una discussione coram populo davanti al “basso”, tra lei e la madre di Arturo che la va a stanare. Il “basso” è quello della madre del “nano” (nella foto, una sequenza del brutto reportage televisivo)

 

Corriere del Mezzogiorno (editoriale), 4 febbraio 2018
 
Le vittime in TV
Nicola Quatrano 
 
Ci sono due donne, due “vittime” di questi giorni che, ciascuna a modo suo, si allontanano dal format cui le cronache ci hanno abituato
 
 
Le vittime non sono sempre esenti da colpa e, comunque, avere delle colpe non esclude si possa essere anche vittime. La prima donna di cui voglio parlare potrebbe avere la colpa, se saranno confermate le accuse a carico del figlio, di non essere stata una madre esemplare. Il figlio è “o nano”, il ragazzino attualmente in carcere con l’accusa di avere aggredito Arturo (e che continua a protestarsi innocente). Questa donna, di umile estrazione e di non molto sapere, sta vivendo un dramma, soffre il dolore acuto di avere il suo bambino chiuso in carcere (un dolore non molto diverso, in fondo, da quello della madre di Arturo), e veramente non avrebbe meritato di essere messa alla berlina da un recente reportage televisivo.
 
Il filmato è un canovaccio simile, a prima vista, a quello tradizionale della “vaiassata”, una discussione coram populo davanti al “basso”, tra lei e la madre di Arturo che la va a stanare. Il “basso” è quello della madre del “nano”. Ma la classe sociale dell’altra, la sicurezza che le viene naturale dall’abitudine di stare dalla parte della ragione, ne fanno un’altra cosa. La chiameremo “aggressione mediatica”, per la presenza di reporter e cineoperatori, un salotto imposto di Maria de Filippi.
 
L’altra madre è la madre di Arturo, la signora (anzi, la professoressa) Iavarone. Spigliata, decisa, quanto la madre del “nano” è impacciata e confusa. Una distanza abissale sul piano sociale e culturale separa le due donne, segnalata dal profluvio di parole bene usate (compreso il latinorum delle  “valutazioni antropometriche”) che la professoressa riversa addosso all’altra per vincere facile. Ed è facile vincere, facile perfino umiliarla e ridurla al silenzio. Basta ricordarle che ha un fratello in carcere e che dunque la sua famiglia non è per bene come quella della professoressa. La mamma del “nano” non può tenerle testa, fa del suo meglio, ma confonde congiuntivi e condizionali e, quel che è peggio, tenta di sostenere la tesi dell’innocenza di un figlio che la professoressa (e i giornali e le televisioni dalla stessa ossessivamente frequentati nei giorni scorsi) hanno già condannato.
 
Il menestrello lucano Giuseppe Miriello ammoniva cantando: “’mparateve a legge e a scrive, pe difenderve dai signuri”, e dovrebbero davvero capirlo questi ragazzetti imbecilli che credono di potere riscattare la loro condizione emarginata usando la violenza. Non sanno che solo il dominio delle “parole” restituirebbe loro il potere di dire quel che sono, sennò saranno gli altri a farlo, e a decidere come.
 
Quanto al “nano”, dovranno essere i giudici a stabilire se è colpevole e innocente, e non la professoressa Iavarone. Lei non potrà nemmeno costituirsi parte civile, perché è rigorosamente esclusa nel processo minorile (qualcuno lo spieghi al nostro Sindaco, che ha già “annunciato” la costituzione di parte civile del Comune nei processi contro i minori delle baby gang).
 
 
Ora voglio parlare della professoressa Franca Di Blasio. E’ la donna ferita al volto da un alunno in un Istituto tecnico del casertano. E’ ricoverata da qualche giorno in una stanza del reparto Chirurgia dell’ospedale di Maddaloni, e non ha ancora rilasciato un’intervista. Ancora non ne abbiamo visto il volto, né udito la voce, quello che pensa ce lo raccontano le persone che vanno a trovarla. Ebbene questa donna, ancora sofferente, pur avendo ogni ragione di nutrire rancore nei confronti di un alunno che ha perso la testa compiendo un atto ingiustificabile, si preoccupa invece per lui, si tormenta e si chiede in che cosa ha sbagliato. Ed ha ragione perché, alla fine, era lei l’insegnante di quel ragazzo, e un esito tanto catastrofico è anche un suo fallimento, interpella carenze educative di cui anche lei condivide la responsabilità.
 
Conoscete un solo amministratore pubblico che, di fonte al disastro della sua amministrazione, si sia interrogato sui suoi errori? Io no. Più o meno tutti preferiscono scagliarsi contro le colpe dei predecessori, il governo centrale o il destino cinico e baro. La professoressa Di Blasio si comporta in un altro modo. E ciò dimostra due cose: che si tratta di una vera insegnante, non di un impiegato a orario fisso della scuola. E che ha spessore morale, che si ispira ad una rara etica della responsabilità. E dovrebbe per questo costituire un modello per tutti noi. 
Ma per favore non andate a raccontarlo agli anchorman delle TV o ai giornalisti. Ritrovarcela da domani come ospite fisso di trasmissioni ed eventi mediatici varrebbe a immiserirne l’esempio, riducendolo a un puro bla bla bla, del quale davvero non si avverte il bisogno.