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Due pesi e due misure, novembre 2010 - Il governo belga si indigna per la condanna a morte dell'iraniana Sakineh Mohammadi-Ashtiani, ma tace del tutto sul caso del cittadino belga Oussama Atar, arrestato a vent'anni e condannato all'ergastolo dalla giustizia irachena, solo per avere attraversato illegalmente una frontiera. Oggi Oussama è ammalato di tumore e rischia di morire, ma il silenzio glaciale delle autorità belghe (e dell'Occidente) continua









Le Grand Soir – 12 novembre 2010

Sakineh, Theresa e Oussama: la costernazione selettiva del governo belga
di Luk Vervaet

Il 2 novembre 2010 il Comité International contre la Lapidation pubblicava un comunicato in cui annunciava che Sakineh Mohammadi Ashtiani stava per essere giustiziata: “Il primo novembre le autorità di Teheran hanno consegnato l’ordine di esecuzione alla prigione di Tabriz. Dovrà essere eseguito mercoledì prossimo, 3 novembre”. Immediatamente Bernard Kouchner, il ministro francese degli affari esteri, ha reso noto che si trattava di una informazione falsa, perché la sentenza di condanna non era ancora definitiva.

Questa falsa informazione riusciva tuttavia a guadagnare la prima pagina dei media di tutto il mondo. E ha spinto il nostro primo ministro Yves Leterme, che ricopre anche la presidenza belga del consiglio dell’Unione Europea, a reagire anche lui con un comunicato il mercoledì mattina. Vi si dichiarava “contrario all’esecuzione dell’iraniana Sakineh Mohammadi Ashtiani”. Si proclamava “costernato per le voci circa l’esecuzione programmata per mercoledì dell’iraniana, madre di famiglia, di 43 anni…” Si dichiarava inoltre “preoccupato per le modalità del giudizio…” e chiedeva alle autorità iraniane “di impedire l’esecuzione e convertire la pena pronunciata”.

Io vorrei dire una parola sui comunicati di Leterme che non si sono mai visti.

L’informazione della prossima esecuzione della signora Theresa Lewis negli Stati Uniti il 23 settembre 2010 non era un falso. Ella è stata effettivamente uccisa quel giorno, di sera, con una “iniezione letale”. Il decesso è stato constatato nella prigione di Greensville, a Jarratt, alle ore 21,13 locali. Uscendo dalla prigione, l’avvocato di Theresa Lewis, James Rocap, in stato di shock, ha dichiarato che quella morte era espressione di “un sistema incapace di essere giusto… Il sistema non funziona, non funziona affatto e, secondo me, non può essere aggiustato… Vi sono troppe discriminazioni”. Quella mattina del 23 settembre non abbiamo sentito il signor Leterme dirsi “costernato” o intervenire per impedire l’esecuzione. Nonostante che il caso di Theresa Lewis, 41 anni, fosse del tutto simile a quello di Sakineh Mohammadi-Ashtiani: la signora Lewis (come Sakiné) aveva organizzato la morte di suo marito e del genero. E se Leterme avesse avuto bisogno di una ragione supplementare per sentirsi costernato e intervenire: Theresa era dotata di un QI di 72, laddove il limite della deficienza mentale negli Stati Uniti è fissato a 70 – limite al di sotto del quale la Corte suprema vieta le esecuzioni.

Il 9 novembre, una settimana dopo il comunicato di Leterme su Sakiné, la Corte d’appello federale di Philadelphie, doveva decidere su un altro caso: sull’esecuzione o l’ergastolo per Mumia Abu-Jamal, giornalista e militante della causa dei Neri negli Stati Uniti. E se Leterme avesse scelto questo momento per dirsi “costernato” di un’eventuale messa a morte di questo simbolo mondiale della lotta contro la pena di morte? Ciò che il giornalista Marc Metdepenningen ha osservato nel giornale Le Soir a proposito degli Stati Uniti è valido anche per il Belgio: “Da quasi trent’anni, Mumia Abu Jamal, nata nel 1954, marcisce nella cella della morte. I suoi avvocati rilevano che gli Stati Uniti, così pronti a denunciare la sorte riservata all’iraniana Sakineh, questa giovane donna di 43 anni condannata dal regime di Teheran alla lapidazione, ignorano i 3.500 condannati a morte negli USA, chiamati a subire la stessa sorte, sia pure in modo meno spettacolare ma altrettanto barbaro.

Non è solo questione di due pesi e due misure. C’è perfino da dubitare sulla serietà e la sincerità dell’opposizione del primo ministro belga alla stessa pena di morte. Un tempo la pena di morte era applicata dovunque. L’opposizione a questa pratica era allora un atto quasi rivoluzionario. Oggi la pena di morte è stata abolita nei 2/3 dei paesi del mondo. Tra i 58 paesi che la mantengono, la maggior parte non la applica. La lotta per l’abolizione della pena di morte deve certamente continuare. Ma senza opposizione alle nuove forme moderne di messa a morte, che hanno sostituito le esecuzioni, l’opposizione alla pena di morte suona falsa. Le condizioni di detenzione applicate nella prigione di Guantanamo, Bagram, Abu Ghraib e Rusafa, dove la reclusione è a vita, in isolamento, nelle “maximum security prisons”, non equivalgono alla messa a morte di un detenuto? Non abbiamo sentito la voce del Belgio denunciare queste pratiche.

Come è possibile ancora che né Leterme, né Van Ackere, né Van Rompuy si siano dichiarati “costernati” per la sorte di un loro concittadino, Oussama Atar, di venti anni, quando è stato arrestato in Iraq dalle forze di occupazione USA? Perché non dichiararsi “preoccupati per le modalità del giudizio…”, quando si sa che Oussama è stato processato senza avvocato e condannato in primo grado all’ergastolo, non per omicidio, come Sakineh o Theresa, ma per avere attraversato illegalmente una frontiera? Perché questo silenzio gelido che dura da 7 anni? Perché il governo belga non si è detto “costernato” nel 2004 quando il mondo ha scoperto, atterrito, le foto dei detenuti iracheni umiliati dai militari USA ad Abu Ghraib, prigione dove era rinchiuso anche il giovane belga? Perché il governo belga non si è detto “costernato” nel 2008 quando la BBC ha divulgato le immagini shock della prigione  di Rusafa, sapendo ancora che il giovane belga era detenuto lì? Perché oggi, nel 2010, continua l’assenza di comunicati o dichiarazioni del governo belga, nonostante abbia ricevuto le prove mediche del fatto che Oussama è malato di tumore?

Peggio.

Per 7 anni le autorità belghe hanno opposto alla famiglia che non potevano interferire nelle procedure  della giustizia irachena o negli affari interni dell’Iraq. Ma perché le autorità belghe lo fanno allora in Iran per Sakineh? Per 7 anni hanno detto che una campagna di stampa rischiava di nuocere alla situazione di Oussama. Ma perché queste stesse autorità belghe partecipano alla messa in atto di una campagna mediatica mondiale per Sakineh?

Per concludere, vorrei ricordare questo breve messaggio della famiglia Atar postato il 9 novembre 2010 nella pagina Facebook “Oussama Atar, salviamo la sua vita”: “Il signor Vanackere rifiuta sempre di incontrarci e sempre niente visto per poter finalmente andare a visitare Oussama… La lotta continua e continuerà fino a che Oussama non tornerà tra noi”.

Sosteniamoli!