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La Jornada, 8 marzo 2013 (trad. Ossin)


L'enigma dei due Chavez
Gabriel Garcia Marquez (*)

Carlos Andrés Pérez scese all’imbrunire dall’aereo che lo riportava da Davos, in Svizzera, e fu sorpreso di vedere sul piazzale il generale Fernando Ochoa Antich, suo ministro della difesa. “Che succede?" gli chiese incuriosito. Il ministro lo tranquillizzò, con motivazioni tanto rassicuranti, che il presidente non andò al Palazzo di Miraflores, ma alla residenza presidenziale di La Casona. Già stava per addormentarsi, quando lo stesso ministro della difesa lo svegliò per telefono, informandolo di una sollevazione militare a Maracay. Era appena entrato in Miraflores quando furono sparate le prime cariche di artiglieria.

Era il 4 febbraio 1992. Il colonnello Hugo Chavez, col suo culto sacramentale per i fatti storici, dirigeva l'assalto dal suo posto di comando improvvisato nel Museo Storico di La Planicie. Il presidente comprese allora che la sua unica risorsa era il sostegno popolare, e andò quindi negli studi di Venevision per parlare al paese. Dodici ore dopo, il colpo di stato militare stava fallendo. Chavez si arrese, a condizione che fosse consentito anche a lui di rivolgersi al popolo in televisione. Il giovane colonnello creolo, col berretto da  paracadutista e la sua ammirevole parlantina, si assunse tutte le responsabilità del golpe. Ma il suo discorso fu un trionfo politico. E’ rimasto due anni in prigione prima di essere graziato dal presidente Rafael Caldera. Tuttavia, molti sostenitori come non pochi nemici hanno visto nel discorso della sconfitta il primo della campagna elettorale che lo ha portato alla presidenza della Repubblica meno di nove anni più tardi.


Il presidente Hugo Chavez Frias mi ha raccontato questa storia nell’aereo della Forza Aerea venezuelana che ci portava da La Avana a Caracas, due settimane fa, a meno di quindici giorni dalla sua investitura come  presidente costituzionale del Venezuela per elezione popolare. Ci eravamo conosciuti tre giorni prima a L'Avana, durante il suo incontro coi presidenti Castro e Pastrana, e la prima cosa che mi ha colpito è stata la forza del suo corpo di cemento armato. Era di una cordialità immediata e possedeva la grazia creola di un venezuelano puro. Abbiamo cercato di incontraci ancora, ma non è stato possibile a causa di entrambi, quindi siamo andati insieme a Caracas per chiacchierare in aereo della sua vita e di miracoli.




Gabriel Garcia Marquez



E 'stata una buona esperienza per un reporter a riposo. Mano a mano che mi raccontava la sua vita, andavo scoprendo una personalità che non corrispondeva affatto all'immagine del despota che i media ci hanno trasmesso. Era un altro Chavez. Quale dei due era quello vero?


L'argomento forte contro di lui durante la campagna elettorale era stato il suo recente passato di  cospiratore e golpista. Però la storia del Venezuela ne ha digerito più di quattro. A cominciare da Rómulo Betancourt, ricordato a torto o a ragione come il padre della democrazia venezuelana, che rovesciò Isaias Medina Angarita, un ex militare democratico che cercava di purgare il suo paese dei trentasei anni di Juan Vicente Gómez. Il suo successore, il romanziere Rómulo Gallegos, fu deposto dal generale Marcos Perez Jimenez, che ebbe il potere assoluto per quasi undici anni. Questi, a sua volta, venne abbattuto da un’ intera generazione di giovani democratici che hanno inaugurato il più lungo periodo di presidenti eletti.


Il colpo di stato di febbraio sembra essere stata l'unica cosa che è andata storta al colonnello Hugo Chávez Frías. Tuttavia, egli lo ha saputo vedere dal suo lato positivo, come un provvidenziale passo indietro. E ' il suo modo di intendere la fortuna, o l'intelligenza, o l’intuizione, o l’astuzia, o qualsiasi cosa sia quel soffio magico che ha governato le sue azioni da quando venne al mondo a Sabaneta, Barinas, 28 luglio 1954, sotto il segno del potere: il Leone.  Chavez, cattolico convinto, attribuisce il suo fato benevolo allo Scapolare più che centenario  che portava da bambino, ereditato da un bisnonno materno, il colonnello Pedro Perez Delgado, uno dei suoi eroi tutelari. I suoi genitori riuscivano a mala pena a sopravvivere con lo stipendio di insegnanti di scuola primaria, e dall’età di nove anni egli ha dovuto aiutarli vendendo dolci e frutta su un carretto. A volte andava a dorso d’asino a visitare la nonna materna a Los Rastrojos, un pueblo vicino che gli sembrava una città perché aveva un piccolo impianto elettrico che forniva due ore di luce la sera, e una levatrice che ha  aiutato a nascere lui e i suoi quattro fratelli. Sua madre voleva che si facesse prete, ma è diventato solo un chierichetto e suonava le campane con tanta grazia che tutti lo riconoscevano per il suo tocco. "Sta suonando Hugo", dicevano. Tra i libri di sua madre trovò un’ enciclopedia provvidenziale, il cui primo capitolo lo ha subito sedotto:
"Come avere successo nella vita".


In realtà era solo un ricettario di opzioni, e le ha provate quasi tutte. Come pittore ammirato davanti al David di Michelangelo, ha vinto il primo premio all'età di dodici anni in una mostra regionale. Come  musico, si è reso indispensabile per compleanni e serenate con la maestria con cui suonava il cuatro (chitarra venezuelana, ndt) e la sua bella voce. Come giocatore di baseball riuscì a diventare un eccellente catcher. L'opzione militare non era sulla lista, né ci avrebbe pensato per conto suo, fin quando qualcuno gli ha detto che il modo migliore per vincere i grandi campionati era quello di entrare nella scuola militare di Barinas. Deve essere stato un altro miracolo dello Scapolare, perché in quei giorni si varava il piano  Andrés Bello, che permetteva a tutti quelli che avevano conseguito la maturità nelle scuole militari di ascendere fino al più alto livello accademico.


Ha studiato scienze politiche, storia e marxismo leninismo. Si appassionò nello studio della vita e dell'opera di Bolivar, il suo Leone maestro, del quale mandò a memoria tutti i proclami. Ma il suo primo incontro consapevole con la politica reale fu la morte di Allende nel settembre del 1973. Chavez non capiva. Perché, se i cileni hanno eletto Allende, adesso i militari cileni gli scatenano contro un golpe? Poco dopo, il capitano della sua compagnia lo incaricò di sorvegliare un figlio di José Vicente Rangel, considerato un comunista. "Pensa come è strana la vita", mi ha detto Chavez scoppiando a ridere. "Ora suo padre è il mio Cancelliere".  Ma il colmo dell’ironia è che, quando si è laureato, ha ricevuto la sciabola dalle mani del presidente che vent'anni dopo avrebbe cercato di abbattere: Carlos Andres Perez.


"Stavi anche per ucciderlo",
gli ho detto. "Assolutamente no", ha protestato. "Il progetto era quello di insediare una assemblea costituente e poi tornarcene in caserma". Fin dal primo momento mi aveva dato l’idea di essere un narratore naturale. Un prodotto genuino della cultura popolare venezuelana,  che è creativa e aurorale. Ha un grande senso del tempo e una memoria che ha qualcosa di soprannaturale,  che gli consente di recitare poesie di Neruda e Whitman, e pagine intere di Romulo Gallegos.


Fin da giovanissimo, ha scoperto per caso che il suo bisnonno non era un assassino di sette leghe, come diceva sua madre, ma un guerriero leggendario del tempo di Juan Vicente Gómez.  Fu tale l'entusiasmo di Chavez, che decise di scrivere un libro per riscattarne la memoria. Scavò negli archivi storici e nelle biblioteche militari e percorse la regione di pueblo in pueblo con una sacca da cantastorie per ricostruire gli itinerari del bisnonno, attraverso le testimonianze dei sopravvissuti. Da allora lo collocò sull’altare dei suoi eroi e cominciò a indossare lo Scapolare protettore che era stato il suo.


Un giorni attraversò il confine senza rendersene conto lungo il ponte di Arauca e il capitano colombiano che gli perquisì lo zaino si convinse che si trattava di una spia: aveva una macchina fotografica, un registratore, carte segrete, foto della regione, un mappa militare con grafici e due pistole di ordinanza. I documenti di identità, come si addice a una spia, potevano essere falsi. La discussione andò avanti per ore in un ufficio il cui unico quadro era un ritratto di Bolivar a cavallo. "Stavo per arrendermi – mi ha detto Chavez – perché più spiegavo e meno capiva". Fin quando gli venne la frase salvatrice: "Guardi, capitano, come è strana la vita: un secolo fa eravamo un unico esercito, e quello che ci sta guardando dal quadro era il capo di tutti e due. Come posso essere una spia?" Il capitano, commosso, cominciò dire meraviglie della  Grande Colombia, e i due passarono la notte a bere birra dei due paesi in un bar in Arauca. La mattina dopo, con un mal di testa condiviso, il capitano restituì a Chavez i suoi attrezzi da storico e lo salutò con un abbraccio al centro del ponte internazionale.


“Fu in questo periodo che mi resi conto concretamente che qualcosa non andava in Venezuela”
, ha proseguito Chavez. Lo avevano assegnato in Oriente come comandante di un plotone di tredici soldati con apparecchiature di comunicazione per eliminare gli ultimi focolai di guerriglia. Una notte di tempesta  chiese ospitalità nel campo un colonnello dei servizi al comando di una pattuglia di soldati e alcuni sospetti guerriglieri appena catturati, verdastri e tutti pelle e ossa. Verso le dieci di sera, quando Chavez stava per addormentarsi, sentì dalla stanza contigua delle urla laceranti. "Era che i soldati stavano picchiando i prigionieri con mazze da baseball avvolte in stracci per non lasciare segni", mi ha raccontato Chavez. Indignato, pretese dal colonnello che gli consegnasse i prigionieri o che se ne andasse, perché lui non poteva  accettare che si torturasse qualcuno nel suo comando. "Il giorno seguente minacciarono di deferirmi davanti a una Corte marziale - ha raccontato Chavez – però mi hanno tenuto solo in osservazione per un po’”.


Pochi giorni dopo fece un’altra esperienza che ha superato le precedenti. Stava acquistando la carne per la truppa, quando un elicottero militare atterrò nel cortile della caserma con un carico di soldati gravemente feriti in un’imboscata guerrigliera. Chavez prese in braccio un soldato che era stato ferito da diversi colpi d’arma da fuoco. "Non lasciarmi morire, tenente" ... gli diceva terrorizzato. A stento riuscì a caricarlo sopra un carro. Altri sette morirono. Quella notte, sveglio nella sua amaca, Chavez si chiedeva: "Perché sono qui? Da una parte contadini vestiti da militari torturano contadini guerriglieri, dall’altra contadini guerriglieri uccidono contadini vestiti di verde. A questo punto, se non ci fosse la guerra, non ci sarebbe motivo di sparare". E ha concluso, nell’aereo che ci portava a Caracas: "Quello fu il mio primo conflitto esistenziale".



Hugo Chavez Frias
 


Il giorno dopo si svegliò convinto che il suo destino era di fondare un movimento. E lo ha fatto a 23 anni, con un nome scontato: esercito bolivariano del popolo del Venezuela. I membri fondatori: cinque soldati e lui, con il suo grado di sottotenente. "Per fare cosa?", gli ho chiesto. Molto semplice, mi ha risposto: "per trovarsi preparati nel caso in cui fosse successo qualcosa". Un anno dopo, già ufficiale paracadutista in un battaglione blindato a Maracay, cominciò a cospirare in grande. Ma ha chiarito che usava l’espressione “cospirazione” solo nel senso figurato di mettere insieme diverse volontà per un compito comune.


Era questa la situazione al 17 dicembre 1982, quando capitò un evento imprevisto che Chavez considera decisivo nella sua vita. Era già capitano nel secondo reggimento di paracadutisti, e aiutante nei Servizi di informazione. Quando meno se l’aspettava, il comandante del reggimento, Angel Manrique, lo incaricò di pronunciare un discorso davanti a 1200 uomini, tra ufficiali e truppa.


All’una del pomeriggio, già schierato il battaglione nel campo di calcio, il maestro di cerimonie lo presentò. "E il discorso?" gli chiese il comandante del reggimento quando lo vide salire sul podio senza carte. "Non l' ho scritto", gli rispose Chavez. E cominciò a improvvisare. Fu un discorso breve, ispirato a Bolivar e  Martí, ma con considerazioni personali sulla situazione di pressione e ingiustizia in America Latina, dopo duecento anni di indipendenza. Gli ufficiali, i suoi partigiani e quelli che non lo erano, lo ascoltarono  impassibili. Tra essi, i capitani Felipe Acosta Carle e Jesus Urdaneta Hernández, simpatizzanti del suo movimento. Il comandante della guarnigione, molto irritato, lo rimproverò a voce alta, in modo che tutti lo sentissero:


"Chavez, lei sembra un politico".
"Ho capito", rispose Chavez.


Felipe Acosta, un gigante di due metri che neppure dieci uomini sarebbero riusciti a neutralizzare, si parò di fronte al comandante e gli disse:
"Lei sbaglia, comandante. Chavez non è affatto un politico. E 'un capitano  di quelli di adesso, e quando voi altri ascoltate cose come quelle che ha detto nel suo discorso, ve la fare sotto".


Allora il colonnello Manrique ordinò l’attenti alla truppa, e disse: "Voglio che sappiate che quello che il capitano Chavez ha detto era autorizzato da me. Sono stato io che gli ho ordinato di fare questo discorso, e tutto quello che ha detto, anche se non era scritto, me lo aveva già anticipato ieri”. Fece una pausa ad effetto, e concluse con un ordine di finale: "Niente di tutto questo deve uscire da qui".


Alla fine Chávez trottò coi capitani Felipe Acosta e Jesus Urdaneta fino a Saman Guere, a dieci chilometri di distanza, e lì hanno ripetuto il giuramento solenne di Simón Bolívar sul colle Aventino. "Nel finale, naturalmente, cambiammo qualcosa", ha precisato Chavez. Invece di "quando avremo rotto le catene che ci opprimono per volontà del governo spagnolo", dissero,
"Fino a che non romperemo le catene che ci opprimono e opprimono il popolo per volontà dei potenti".


Da allora, tutti gli ufficiali che aderivano al movimento dovevano fare quel giuramento. L'ultima volta fu durante la campagna elettorale davanti a centomila persone. Per anni fecero riunioni clandestine sempre più numerose, con rappresentanti militari provenienti da tutto il paese. "Tenevamo riunioni di due giorni in luoghi segreti, studiando la situazione del paese, facendo analisi, prendendo contatti con gruppi civili e amici. In dieci anni,  mi ha detto Chavez,
siamo riusciti a fare cinque congressi senza essere scoperti".


A questo punto del dialogo, il presidente ha cominciato a ridere maliziosamente, rivelando con un sorriso complice: "Beh, abbiamo sempre detto che all’inizio eravamo tre. Ma adesso posso dirlo che c'era in realtà un quarto uomo, la cui identità abbiamo sempre tenuto nascosta per proteggerlo e non è stata scoperta nemmeno il 4 febbraio: era attivo nell'esercito e ha raggiunto il grado di colonnello. Ma siamo nel 1999 e ora sono in grado di rivelare che il quarto uomo è qui con noi su questo aereo”. E ha indicato con la mano il quarto uomo seduto su una poltrona appartata, dicendo:
"Il colonnello Badull".


Stando all'idea che il comandante Chávez ha della sua vita, l'evento culminante è stato il Caracazo, la rivolta popolare che devastò Caracas. Ha ripetuto più volte: "Napoleone ha detto che una battaglia si decide in un momento di ispirazione dello stratega". Partendo da questa premessa, Chávez ha sviluppato tre concetti: il primo, il momento storico. L'altro, il minuto strategico. E, infine, il secondo tattico. "Eravamo preoccupati perché non volevamo lasciare l'esercito", ha detto Chavez. "Avevamo creato un movimento però non sapevamo bene per fare cosa". Sicuramente il dramma tremendo fu che quando accadde quello che doveva accadere, loro non erano preparati. "In altre parole, ha concluso Chavez, ci ha sorpreso il minuto strategico".


Si riferiva, ovviamente, alla rivolta popolare del 27 febbraio 1989: El Caracazo. Il primo a  stupirsene fu lui stesso. Carlos Andrés Pérez era stato eletto alla presidenza con larga maggioranza e sembrava inconcepibile che una rivolta tanto violenta potesse esplodere dopo solo due giorni. "La sera del 27 stavo andando all’università dove seguivo un corso di dottorato; ero rimasto senza benzina e mi fermai alla caserma Tiuna, in cerca di un amico che me ne desse un poco giusto per ritornare a casa”, raccontava Chavez qualche minuto prima di atterrare a Caracas. "Vidi molti uomini che uscivano e chiesi al colonnello ‘Dove vanno tutti questi soldati?’ Giacché c’erano anche quelli della Logistica che non erano addestrati al combattimento, meno che mai alla guerriglia urbana. Erano reclute spaventate anche solo dal fucile che portavano. Quindi chiesi al colonnello: 'Dove va questa gente?’ E il colonnello disse: 'In strada, in strada. L'ordine è di sedare in qualche modo la rivolta, e questo stiamo per fare'. Mio Dio, ma che  razza di ordine le hanno dato?  'Insomma, Chavez, rispose il colonnello: l'ordine è di fermare questo pasticcio in qualche modo'. E io dico: Ma signore, si può immaginare che cosa può accadere. E lui: 'Ascolti,  Chavez, è un ordine e non c'è niente da fare. Accadrà quello che Dio vorrà".


Chavez ricorda che quella sera era febbricitante per un attacco di rosolia, e al momento di rimettere in moto la sua auto vide un soldatino che veniva correndo col casco di traverso, il fucile penzoloni e le munizioni che si sparpagliavano a terra. "Mi fermo, lo chiamo e lui sale in macchina", ha detto Chavez. "E' montato, tutto nervoso, sudato, un ragazzino di 18 anni. Gli chiedo : Dove diavolo corri adesso? 'Sono rimasto indietro, il mio plotone è là, su quel camion che si sta allontanando. Mi aiuti a raggiungerlo, maggiore'. Io ho raggiunto il camion e ho chiesto all’ufficiale: Dove siete diretti? E lui: 'Io non so nulla. Nessuno lo sa". Chavez riprende fiato e quasi grida come soffocato dall’angoscia per il ricordo di quella terribile notte: "Capisci? Tutti quei soldati, li hanno mandati in strada, spaventati, con un fucile e 500 cartucce, e le hanno sparate tutte. Hanno spazzato le strade coi proiettili, le baraccopoli, i quartieri popolari. E 'stato un disastro! Ecco: migliaia, e tra questi Felipe Acosta". "E qualcosa mi dice che lo mandarono ad ammazzare", dice Chavez. "Fu il minuto che attendevamo per agire". Detto, fatto: in quel momento cominciò ad organizzare il golpe che tre anni dopo fallì.


L'aereo è atterrato a Caracas alle tre. Ho visto dal finestrino il groviglio di luci di quella città indimenticabile in cui ho vissuto tre anni cruciali per il Venezuela, e lo furono anche per la mia vita. Il presidente si è congedato col suo abbraccio caraibico ed un invito implicito: "Saremo qui il 2 febbraio". Mentre si allontanava accompagnato da militari e amici della prima ora, mi ha colto l’impressione di avere viaggiato e piacevolmente parlato con due uomini completamente diversi. Uno, cui la sorte aveva offerto l’opportunità di salvare il suo paese. E un altro, un illusionista, che potrebbe passare alla storia come un despota.



* Questo articolo è stato originariamente pubblicato nella rivista Cambio, in Colombia, nel febbraio 1999, e poi è stato ripreso nel libro “Gabo periodista, Antologia de textos periodisticos de Gabriel Garcia Marquez”, con l’autorizzazione del Consiglio Nazionale per la Cultura e le Arti.