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Crisi siriana, gennaio 2015 - Le dichiarazioni e i gesti che vengono dai paesi del Golfo lasciando intendere un cambiamento di strategia nei confronti della crisi siriana. E, soprattutto, di Bachar el Assad (nella foto, l'ambasciata siriana a Kuwait City)


Al Ahram Hebdo, 7 gennaio 2015 (trad. ossin)



Paesi del Golfo: la svolta

Aliaa Al Korachi


Le dichiarazioni e i gesti che vengono dai paesi del Golfo lasciando intendere un cambiamento di strategia nei confronti della crisi siriana. E, soprattutto, di Bachar el Assad


A Kuwait city, la bandiera siriana sventola di nuovo sull’edificio dell’ambasciata, chiusa quasi tre anni fa. I preparativi per la riapertura procedono speditamente. Il governo kuwaitiano ha accordato un visto di ingresso a tre diplomatici siriani, per riavviare le attività dell’ambasciata, la cui riapertura è fissata per il 7 gennaio. Secondo molti osservatori, questa iniziativa del Kuwait costituirebbe un alleggerimento del blocco diplomatico imposto dai paesi del Golfo contro Damasco. Essi non escludono la possibilità che altre monarchie possano, in un prossimo futuro, seguirne l’esempio.

Era il febbraio 2012, quando il Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) decise di rompere le relazioni diplomatiche con Damasco, chiedendo con un comunicato agli ambasciatori della Siria di “lasciare immediatamente” i sei paesi del CCG, e richiamando i propri a Damasco. “Le relazioni diplomatiche sono diventate inutili, dopo che il governo siriano ha respinto tutti i tentativi e tutti gli sforzi arabi sinceri, diretti a risolvere la crisi ed ha fermare lo spargimento di sangue in Siria”, si poteva leggere in questo comunicato.

Oggi, almeno da parte siriana, la riapertura dell’ambasciata costituisce un “messaggio politico positivo da parte dello Stato del Kuwait”. Malek Aouny, politologo del Centro di Studi Politici e Strategici (CEPS) di Al Ahram, ritiene che la riapertura dell’ambasciata siriana in Kuwait faccia parte di un pacchetto di misure che sono state di recente prese da alcune monarchie del Golfo, e che indicano che esse sono in procinto di rivedere completamente la loro strategia al riguardo della crisi siriana.

Da parte sua, Khaled Jarallah, vice ministro kuwaitiano degli affari esteri, ha cercato di minimizzare l’impatto politico della decisione, affermando che essa è stata presa per assicurare i servizi consolari a più di 130.000 siriani residenti in Kuwait, “che hanno bisogno di essere seguiti”.

Queste petro monarchie, che non perdevano occasione per ricordare alla comunità internazionale la necessità di un intervento militare contro Damasco per risolvere il conflitto, hanno attenuato i toni durante il 35° summit del CCG, tenuto a Doha nel dicembre scorso, dove hanno auspicato una “soluzione politica” della crisi siriana.

“E’ una svolta importante”, afferma Mohamad Abbas, capo redattore della rivista “Scelte iraniane”. Tenuto conto del fatto che le monarchie del Golfo hanno fatto tutto il possibile per militarizzare il conflitto, soprattutto fornendo all’opposizione siriana aiuti militari, economici e logistici nella speranza di cambiare a loro favore i rapporti di forza sul campo, e con l’obiettivo di fare, tramite loro, una guerra per procura contro Teheran”, spiega Abbas.

Se il Kuwait - il paese del Golfo che ha meno interferito nella crisi siriana – tenta di collocarsi in una posizione neutrale tra le due parti in conflitto in Siria, la svolta è ancora più chiara nella posizione dell’Arabia Saudita, principale fornitore d’armi della opposizione siriana. “Questo paese sta tornando rapidamente sui suoi passi”, ritiene Aouny, del CEPS di Al-Ahram. Aggiungendo: ”Riyadh cerca oggi dei compromessi per la crisi siriana ed è sempre più consapevole che non si troverà una soluzione abbattendo il governo di Bachar el Assad, come tanto predicato finora”. La dichiarazione, lo scorso mese a Bruxelles, del ministro saudita degli affari esteri, Saud Al-Faiçal, durante un incontro della Coalizione internazionale contro Daech, lo dimostra bene: “Per assicurare il successo della colazione in Siria, bisogna sostenere l’Esercito Siriano Libero e gli altri gruppi moderati e fare in modo di integrarli successivamente nell’esercito regolare, nel quadro di un governo di transizione”. Secondo Aouny, questa dichiarazione è rivelatrice della svolta della politica del Regno, che ha sempre respinto nel passato l’idea di un coinvolgimento di chiunque avesse fatto parte dello schieramento filo-Assad nella soluzione del conflitto.

Di fatto, il mutamento della posizione saudita non si vede solo al livello delle dichiarazioni, ma anche nei fatti. Le autorità saudite hanno chiuso l’emittente Wessal, che trasmetteva da Riyadh e raccoglieva fondi per armare l’opposizione in Siria. Riyadh ha anche congelato i conti bancari dello sceicco Adnane Al-Arour, ex militare dell’esercito siriano che ha trovato rifugio in Arabia saudita, da cui trasmetteva le sue infuocate prediche contro il governo siriano.


La minaccia di Daech

Mohamad Abbas attribuisce questo mutamento di posizione dei paesi del Golfo a diversi fattori. Prima di tutto, la lunga durata del conflitto ha avuto come risultato di dividere l’opposizione siriana. Poi, con l’avvio della guerra internazionale contro Daech, i paesi del Golfo si sono trovati a combattere il nemico del loro nemico Bachar el Assad, che ne ha tratto profitto. Senza parlare della attuale riduzione del prezzo del petrolio, che ha ridotto le possibilità dei paesi del Golfo a finanziare l’opposizione siriana, spiega lo specialista.

La minaccia di Daech è un’altra ragione che spiega il mutamento di strategia delle monarchie del Golfo nei confronti della crisi siriana. Daech, questo gruppo terrorista, rappresenta una minaccia per la loro sicurezza, e per l’ideologia wahhabita dell’Arabia Saudita in particolare.

“Anche la posizione morbida di Washington su una possibile opzione militare in Siria ha raffreddato gli entusiasmi dei paesi del Golfo”, aggiunge Aouny. Questi paesi, unendosi alla coalizione internazionale contro Daech, non nascondono il loro auspicio che le operazioni militari possano allargarsi fino a colpire anche il governo di el Assad. Ma Washington, che dietro le quinte spinge per una soluzione politica della crisi siriana, non ha in programma la caduta di Bachar. “Le monarchie del Golfo hanno compreso di essersi impegnate in una lunga guerra di usura, laddove nessun indizio consente di prevedere una imminente caduta del governo siriano”, conclude Aouny.