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ProfileCrisi siriana, novembre 2015 - Nonostante i recenti attacchi terroristi, ancora non si vede l’elaborazione di politiche a lungo termine, capaci di impedirne altri (nella foto, miliziani di ISIS)

 

Arrêt sur info, 16 novembre 2015 (trad. ossin)
 
 
 
 
Perché lo stato di emergenza e le misure di alta sicurezza non riusciranno a fermare Daech
Patrick Cockburn
 
 

Nessun dubbio che lo “Stato Islamico”, come lo stesso ISIS si definisce, si rallegrerà del risultato dei suoi attacchi a Parigi. Ha dimostrato di sapersi vendicare, con l’abituale barbarie, di un paese che bombarda il suo territorio e ha dimostrato di essere temibile, nonostante sia sottoposto ad una dura pressione militare. I fatti e le gesta di soli otto kamikaze e uomini armati di ISIS dominano l’agenda internazionale, giorno dopo giorno.
 
Non c’è molto da fare. La gente è naturalmente ansiosa di sapere quante probabilità ha di essere attaccata con la mitraglia, la prossima volta che si siederà in un ristorante o assisterà a un concerto, a Parigi o a Londra.
 
Ma il tono apocalittico e la copertura mediatica sono esagerate: la violenza che ha colpito Parigi finora non è per nulla comparabile con quella che Belfast o Beirut hanno subito negli anni 1970, né a quella che Damasco e Bagdad vivono attualmente. Contrariamente a quanto la massiccia copertura della televisione sembra suggerire, lo shock di accorgersi di vivere in una città in cui esplodono bombe è destinato a smorzarsi rapidamente.
 
L’eccessiva retorica che accompagna il massacro è un problema in sé: siccome le atrocità non riescono a dare una spinta verso un’azione concreta ed efficace, le parole di rabbia diventano un sostituto ad una vera politica. Dopo gli assassinii di Charlie Hebdo in gennaio, 40 leader di tutto il mondo sono sfilati tenendosi per mano lungo le vie di Parigi (*) proclamando, tra l’altro, che la loro priorità sarebbe stata la sconfitta di ISIS e dei loro compari di Al Qaeda.
 
 
La sfilata dei "grandi" a Parigi, dopo l'attentato a Charlie Hebdo
 
 
Ma, nella pratica, non hanno fatto niente. Quando le forze di ISIS hanno attaccato Palmira in Siria orientale, nel maggio scorso, gli Stati Uniti non hanno lanciato attacchi aerei contro il gruppo, giacché la città era difesa dall’esercito siriano e Washington aveva paura di essere accusata di volere mantenere il presidente Bachar al-Assad al potere.
 
Così facendo, gli Stati Uniti hanno dato a ISIS un vantaggio militare, che il gruppo ha prontamente messo a profitto per consolidare il controllo di Palmira, decapitare i soldati siriani catturati e far saltare le antiche rovine.
 
Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato, nel corso della riunione del G20 in Turchia che “il tempo delle discussioni è terminato” e che occorreva intraprendere un’azione collettiva contro il “terrorismo”.
 
Parole che suonerebbero come una presa di posizione turca di prima importanza contro ISIS, se Erdogan non avesse chiarito che la sua definizione di “terrorismo” è assai ampia e include i Curdi siriani e le loro Unità paramilitari di protezione del Popolo (UPP), che gli Stati Uniti considerano come i loro migliori alleati militari contro ISIS.
 
La determinazione di Erdogan di attaccare gli insorti curdi in Turchia e nel nord dell’Iraq si è dimostrata molto più forte del desiderio di attaccare ISIS, Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham.
 
Sono pochi i segnali che i leader del G20 riuniti in Turchia abbiano compreso la natura del conflitto nel quale sono impegnati. La strategia militare di ISIS è una combinazione unica di terrorismo urbano, di tattica da guerriglia e di guerra convenzionale. Nel passato, molti Stati hanno utilizzato il terrorismo contro i loro avversari ma, nel caso presente, gli squadroni di kamikaze che prendono di mira i civili indifesi, nel loro paese o all’estero, fanno parte integrante della strategia di guerra di ISIS.
 
Quando gli UPP, in giugno, hanno tagliato la rotta transfrontaliera che andava dalla Turchia verso ISIS, a Tal Abyad, il gruppo terrorista ha risposto infiltrando dei combattenti vestiti da curdi nella città curda di Kobane, dove hanno massacrato più di 220 uomini, donne e bambini.
 
Quando la Russia ha cominciato la sua campagna aerea contro ISIS e i jihadisti radicali, il 30 settembre, ISIS ha risposto piazzando una bomba su un aereo russo che proveniva da Charm el-Sheikh, provocando 224 vittime.
 
Un altro errore che fanno i leader del G20 è di continuare a sottostimare ISIS. David Cameron ha dichiarato che il gruppo non è degno di essere chiamato Stato Islamico, eppure, purtroppo, è davvero uno Stato e, per giunta, più potente di quanto non lo sia la metà dei membri dell’ONU, col suo esercito esperto, la sua coscrizione, le imposte e il controllo su tutti gli aspetti della vita nella vasta regione che governa.
 
 
Un'Immagine degli attentati di Parigi, del novembre 2015
 
 
Finché esisterà, rappresenterà la sua potenza attraverso operazioni suicide come quelle che abbiamo appena visto a Parigi. Giacché il bersaglio potenziale è la popolazione civile nel suo insieme, si potranno ben accrescere i controlli, ciò non cambierà molto. I kamikaze riusciranno sempre a passarvi attraverso.
 
La sola e unica soluzione è la distruzione di ISIS: solo una campagna aerea statunitense e russa, coordinata con quelli che veramente combattono a terra, può riuscirvi.
 
L’US Air Force l’ha fatto molto efficacemente in coordinamento con le UPP, e questo ha permesso a queste ultime di vincere a Kobane, e con i peshmerga curdi iracheni, che sono riusciti a conquistare la città di Sinjar, la settimana scorsa. Ma gli Stati Uniti non vogliono attaccare ISIS là dove quest’ultimo combatte contro l’esercito siriano o le milizie sciite in Iraq. Dal momento che queste sono le due più forti formazioni militari che combattono ISIS; la forza militare statunitense viene tenuta a freno proprio dove sarebbe più utile.
 
In virtù della simpatia internazionale per i Francesi, diffusasi dopo il massacro di Parigi, è inevitabile che non si sentirà alcuna critica nei confronti della politica confusionaria della Francia nel conflitto siriano.
 
Qualche tempo fa, durante un’intervista concessa a Aron Lund della Fondazione Carnegie per la pace internazionale, uno dei principali esperti francesi sulla Siria, Fabrice Balanche, che lavora attualmente all’istituto di Washington per la politica in Medio Oriente, ha dichiarato: “Siamo stati, nel 2011-12, vittime di una sorta di maccartismo intellettuale sulla questione siriana: se non si diceva che Assad era sul punto di cadere nell’arco di tre mesi, si veniva sospettati di essere al soldo del governo siriano”.
 
Ha ricordato che il ministero francese degli Affari Esteri aveva preso le difese dell’opposizione siriana, mentre i media si ostinavano a considerare la rivolta siriana come una prosecuzione delle rivoluzioni tunisina e egiziana. Rifiutavano di vedere le divisioni settarie, politiche e sociali, che dimostravano quanto la guerra civile siriana non fosse semplice da interpretare.
 
Giacché l’amministrazione, lo stato maggiore dell’esercito e i servizi di sicurezza dello Stato traboccano di Alauiti, è quasi impossibile sbarazzarsi di Assad e del suo governo, i cui leader sono di origine alauita, senza provocare un crollo della struttura dello Stato, lasciando un vuoto che sarebbe riempito da ISIS e dai suoi omologhi di Al Qaeda.
 
Nonostante i recenti attacchi terroristi, ancora non si vede l’elaborazione di politiche a lungo termine, capaci di impedirne altri.
 
 
(*) Sembra, in realtà, che si siano limitati a farsi fotografare ai margini del corteo