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Asia Times, 27 aprile 2021 (trad.ossin)
 
Il teatro d'ombre di Vienna e la potenza missilistica iraniana
Pepe Escobar
 
Poche persone, a parte gli specialisti, hanno sentito parlare della Commissione mista dello JCPOA. Si tratta di un gruppo di persone impegnate in una fatica di Sisifo: tentare di rilanciare l’accordo nucleare iraniano del 2015, attraverso dei negoziati in corso a Vienna
 
Esplosione, il 22 aprile scorso, nei pressi della centrale atomica israeliana di Dimona
 
La delegazione di negoziatori iraniani era di ritorno a Vienna ieri, guidata dal vice-ministro degli Affari esteri, Seyed Abbas Araghchi. Il gioco d’ombre comincia col fatto che gli Iraniani negoziano con gli altri membri del P+1 – Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania – ma non direttamente con gli Stati Uniti.
 
E’ già qualcosa; dopo tutto è stata l’amministrazione Trump a far saltare il JCPOA. C’è anche una delegazione statunitense a Vienna, ma parla solo con gli Europei.
 
Questo teatro d’ombre gira su se stesso perché tutti sanno bene quali sono le linee rosse poste da Teheran: o si torna allo JCPOA originale che fu sottoscritto a Vienna nel 2015 e poi ratificato dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, o niente.
 
Araghchi, sia pure in toni delicati ed educati, ha dovuto ribadire ancora una volta che Teheran abbandonerà i colloqui se qualcuno volesse fare dei « brutti scherzi », o perdere tempo o anche limitarsi a qualche passo di danza, cioè una perdita di tempo detta con altre parole.
 
Né manifestamente ottimista né pessimista, egli resta, diciamo, prudentemente ottimista, almeno in pubblico: « Non siamo delusi e proseguiremo il nostro lavoro. Le nostre posizioni sono molto chiare e ferme. Le sanzioni devono essere tolte, verificate e, solo dopo, l’Iran ritornerà agli impegni presi»,
 
Quindi, almeno sotto questo punto di vista, la discussione è sempre aperta. Araghchi: « Ci sono due tipi di sanzioni statunitensi contro l’Iran. In primo luogo, le sanzioni che riguardano categorie di prodotti, dette anche monetarie, come quelle petrolifere, bancarie, di assicurazione, marittime, petrolchimiche, di costruzione e di automobili. In secondo luogo, le sanzioni contro le persone fisiche e giuridiche».
 
I problemi stanno in questo « secondo luogo ». Non c’è, infatti, assolutamente alcuna garanzia che il Congresso USA toglierà la maggior parte, o almeno una parte importante, di questo tipo di sanzioni.
 
Tutti a Washington lo sanno – e la delegazione statunitense lo sa.
 
Quando il ministero degli Affari esteri di Teheran, per esempio, dichiara che al 60% o 70% si è trovato un accordo, è un’espressione in codice per parlare delle sanzioni monetarie del primo tipo. Quando si parla delle sanzioni del secondo tipo, Araghchi resta ancora evasivo: « Vi sono dei problemi complessi in questo ambito che stiamo esaminando ».
 
Paragonate adesso queste parole con quanto pensano taluni iniziati iraniani a Washington, come l’esperto di politica nucleare Seyed Hossein Mousavian: essi sono piuttosto dei realisti pessimisti.
 
Pessimismo che fa i conti con le linee rosse che sono state tracciate dalla Guida Suprema, l’ayatollah Khamenei in persona. Senza contare le incessanti pressioni esercitate da Israele, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, tutti contrari allo JCPOA.
 
Ma c’è anche un altro teatro d’ombre. I servizi segreti israeliani hanno già informato il loro governo che a Vienna si raggiungerà quasi certamente un accordo. Dopo tutto, già c’è chi si prepara a presentare l’accordo raggiunto come una vittoria della politica estera dell’amministrazione Biden-Harris – o, come i cinici preferiscono dire, Obama-Biden 3.0.
 
Nel frattempo, la diplomazia iraniana continua a girare a pieno regime. Il ministro degli Affari esteri, Javad Zarif, è in visita in Qatar e in Iraq, ed ha già incontrato l’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim al Thani.
 
Il presidente iraniano Hassan Roani, praticamente a fine mandato prima delle elezioni presidenziali di giugno, ripete sempre le stesse cose: basta sanzioni statunitensi; verifica da parte dell’Iran; poi l’Iran tornerà ai suoi « impegni nucleari ».
 
Il ministero degli Affari esteri ha perfino pubblicato una scheda informativa assai dettagliata che sottolinea ancora una volta la necessità di sopprimere « tutte le sanzioni imposte, re-imposte e rinominate dopo il 20 gennaio 2017 ».
 
La finestra di opportunità per un accordo non durerà a lungo. I fautori della linea dura a Teheran non se ne preoccupano. Almeno l’80% dei parlamentari sono oramai per la linea dura. Il prossimo presidente sarò assai certamente un fautore della linea dura. I tentativi del gruppo di Roani sono stati bollati come fallimentari, già quando è iniziata la campagna di « massima pressione » di Trump. I fautori della linea dura sono già in modalità post-JCPOA.
 
Quel fatidico Fateh
 
Quel che nessuno degli attori di questo teatro d’ombra può ammettere, è che il rilancio dello JCPOA è poca roba di fronte alla vera posta in gioco: la potenza dei missili iraniani.
 
Nel corso dei primi negoziati del 2015 a Vienna – leggetelo nel mio libro online Persian Miniatures – Obama-Biden 2.0 fecero tutto quanto era in loro potere per includere nell’accordo anche i missili.
 
Non c’è granello di sabbia del deserto del Neguev che non sappia che Israele non arretrerà di fronte a nulla pur di mantenere la sua primazia in materia di armi nucleari in Medio Oriente. Solo grazie ad uno spettacolare kabuki, il fatto che Israele sia una potenza nucleare resta « invisibile » alla maggior parte delle opinioni pubbliche mondiali.
 
Mentre Khamenei ha emesso una fatwa che definisce con estrema chiarezza come haram (vietate dall’Islam) la produzione, lo stoccaggio e l’uso di armi di distruzione di massa (comprese quelle nucleari), i dirigenti israeliani si sentono in diritto di commissionare delle acrobazie come il sabotaggio da parte del Mossad del complesso nucleare (civile) iraniano di Natanz.
 
Il capo della commissione per l’energia del Parlamento iraniano, Fereydoun Abbasi Davani, ha perfino accusato Washington e Londra di complicità nel sabotaggio di Natanz, avendo esse senz’altro fornito a Tel Aviv delle informazioni utili a organizzarlo.
 
Tuttavia, di recente, un missile solitario ha fatto letteralmente esplodere gran parte del teatro d’ombre.
 
Il 22 aprile, nel cuore della notte, prima dell’alba, un missile siriano è esploso a soli 30 km dall’ultra sensibile reattore nucleare israeliano di Dimona. La versione ufficiale – e insistente – di Israele è che si trattasse di un « missile vagante ».
 
Invece, assolutamente no
 
Ecco – terzo video partendo dall’alto – le immagini dell’esplosione che sembra piuttosto importante. In modo abbastanza significativo, Tel Aviv è rimasta assolutamente muta quando si è trattato di offrire delle prove sull’identità del missile.
 
Era un vecchio SA-5 sovietico del 1967 ? O, più verosimilmente, un Fateh-110 iraniano del 2012, missile terra-terra a corto raggio, fabbricato in Siria col nome di M-600, del tipo in dotazione anche ad Hezbollah ?
 
L’albero genealogico dei Fateh viene illustrato nelle tavole qui sotto. L’inestimabile Elijah Magnier ha sollevato delle ottime questioni sul quasi incidente di Dimona. Ho aggiunto ad esse una discussione molto istruttiva con alcuni fisici e il contributo di un esperto in intelligence militare.
 
 
Il Fateh-110 funziona come un missile balistico classico, fino al momento in cui l’ogiva comincia a fare manovre per sfuggire agli intercettatori del sistema di difesa ABM. La precisione può raggiungere i 10 metri, mentre in teoria è di soli 6 metri. Ha dunque colpito esattamente dove si voleva che colpisse. Israele ha ufficialmente confermato che il missile non è stato intercettato – nonostante una traiettoria di circa 266 km.
 
Ciò apre un vaso di Pandora del tutto nuovo. Significa che l’efficienza del sistema di difesa israeliano, l’Iron Dome, tanto esaltato e recentemente aggiornato, non è affatto eccezionale, per usare un eufemismo. Il Fateh vola tanto in basso, che l’Iron Dome non è riuscito ad intercettarlo.
 
La conclusione inevitabile è che si sia trattato di qualcosa che voleva essere insieme un messaggio e un avvertimento. Provenendo da Damasco. Col timbro personale di  Bachar el-Assad, che ha indubbiamente autorizzato un lancio tanto sensibile. Un messaggio/avvertimento inoltrato grazie alla tecnologia iraniana dei missili, totalmente accessibile a tutti i paesi dell’Asse della Resistenza – ciò che dimostra che gli attori regionali dispongono di una seria capacità di sfuggire ai sistemi di difesa avversari.
 
Va ricordato che, quando Teheran lanciò una raffica di missili Fateh-313, di versione volutamente più vecchia, sulla base statunitense di Ayn al-Assad in Iraq, come rappresaglia per l’assassinio del generale Soleimani nel gennaio 2020, i radar USA non videro niente.
 
La tecnologia dei missili iraniani come dissuasione strategica di prim’ordine. Ecco un teatro d’ombre che declassa Vienna al rango di uno spettacolo secondario.
 
 
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