Stampa

 

Eve Mykytyn, 29 ottobre 2019 (trad. ossin)
 
Molti Israeliani non riescono a sentire Israele come la propria Patria
Gli Israeliani erranti?
Eve Mykytyn
 
Uno dei miti fondanti di Israele era che avrebbe dato una patria a un "popolo senza casa". Prima, e soprattutto dopo, la Seconda Guerra Mondiale, i sionisti affermavano che i paesi in cui gli ebrei vivevano e avevano la cittadinanza non erano una patria. Gli ebrei, come tutti gli altri si sosteneva, avevano diritto a una patria abitata da ebrei. Anche al suo apogeo, questo argomento non ha mai convinto la maggioranza degli ebrei a trasferirsi in Israele anche se, specialmente dopo il 1967, molti hanno sostenuto Israele da lontano. Sembra che anche alcuni Israeliani non siano tanto convinti di dover vivere nella loro "patria".
 
 
Una tesi di dottorato di Omri Shafer Raviv, riportata di recente dal 972, indaga sul "comitato dei professori", istituito dal governo israeliano nel 1967 per affrontare il tema della sovranità di Israele sui Palestinesi espulsi dai territori conquistati. Il comitato ha cercato di individuare il modo di limitare l’opposizione e incoraggiare l’emigrazione dei Palestinesi. I professori sono rimasti sorpresi nel dover concludere che i Palestinesi, il popolo autoctono del paese, non volevano andarsene, anche se veniva loro prospettata una vita migliore altrove, ad esempio in Kuwait. I professori, che appartenevano alla prima generazione di ebrei che vivevano nella loro "patria" appena dichiarata, sembravano non capire cosa significasse essere legati a una patria. E’ per questo che non erano stati capaci di prevedere che la cosa che più di ogni altra i Palestinesi desideravano era di tornare alle loro case, alla loro terra, ai loro villaggi. Dopo oltre cinquant'anni e nonostante le orribili condizioni di vita di cui molti soffrono, i Palestinesi rifiutano di sparire.
 
L'emigrazione continua ad essere per Israele un problema, che mina la nozione di Israele come patria. Inizialmente disprezzata dagli Israeliani, l’emigrazione da Israele è stata liquidata, per esempio dall'ex primo ministro israeliano Rabin, come "una ricaduta di codardia". Ma, già dalla sua creazione, vi sono stati immigrati che hanno poi scelto di lasciare Israele. Nel 1942, dei 4.000 ebrei che si erano stabiliti in Palestina, 450 se ne ripartirono. E anche negli anni '50, quando Israele conobbe una delle sue maggiori crescite demografiche legate all’immigrazione, l’emigrazione era considerata un problema. Nel 1953, il governatore della banca centrale di Israele, David Horowitz, sostenne che si sarebbero dovute migliorare le condizioni economiche perché la tendenza [ad emigrare] si attenuasse, implicitamente riconoscendo che l'amor di patria era più debole della prospettiva di successo economico. La discussione sull'emigrazione è stata, e forse è ancora, un segno dell'insicurezza sionista. Se Israele è veramente la patria ebraica, perché così tanti ebrei e israeliani non riescono a considerarla tale? Il Jerusalem Post evidenzia una preoccupazione più pratica: "Gli israeliani sono profondamente consapevoli del fatto che il futuro di Israele come paese ebreo e democratico dipende dal mantenimento di una solida maggioranza ebraica".
 
Quanto è importante il problema della emigrazione? Nonostante una pletora di articoli (vedi per es.) che affermano che il fenomeno vada riducendosi, in realtà il numero di Israeliani che se ne va supera la nuova immigrazione. Le statistiche sono opache, Israele non registra o forse non conosce l'intenzione di chi se ne va. Una recente analisi rivela che l'emigrazione israeliana verso il Regno Unito ha superato l'immigrazione britannica in Israele in un rapporto da tre a due. L' ambasciata israeliana statunitense stima tra i 750.000 e il milione il numero di Israeliani che vivono negli Stati Uniti.
 
Ma ciò che è più importante, è che quasi il 40% dei giovani israeliani ha espresso interesse a trasferirsi altrove. Vivono in una patria ebraica, eppure vogliono andarsene.
 
Il motivo principale che i giovani Israeliani pongono alla base della loro decisione di andarsene è la difficoltà di guadagnarsi da vivere dignitosamente. Alcuni citano il clientelismo e la corruttela in Israele, e dicono che non possono, o non vogliono, entrare in un mercato del lavoro che è "truccato". Si può sperare che questi giovani ex Israeliani, avendo conosciuto gli effetti corrosivi del sistema tribale, saranno meno inclini a trattare con disprezzo le regole dei loro paesi di adozione.
 
Una madre i cui figli sono emigrati riteneva che fosse stata la "migliore" ad andarsene. "Sono persone di grande livello, in grado di dare un contributo... che stanno andando via... All’estero si distinguono. Sono considerati intelligenti e di successo rispetto ai Canadesi”. (Pare proprio che il supremacismo sia vivo in Israele). Le statistiche disponibili corroborano la sua affermazione che sono gli Israeliani più istruiti quelli che emigrano di più, e questo può spiegarsi col fatto che sono i più capaci di trovare buoni posti di lavoro altrove. Nel 2017, il 5,8% degli Israeliani con titoli di studio universitari viveva all'estero da almeno tre anni consecutivi. Per gli Israeliani con dottorato di ricerca, la percentuale era dell'11%, con una perdita di uno su nove dottorandi. Vedi per maggiori dettagli sul fenomeno sproporzionato della fuga di cervelli israeliana. 
 
Per contrastare questa tendenza, nel 2011 Israele ha lanciato il "Programma israeliano per il ritorno dei cervelli", per aiutare gli Israeliani d’oltre mare a trovare lavoro a casa loro. Sembra che gli Israeliani cui si rivolgeva non fossero disposti a tornare nella loro "patria", e il programma è stato abbandonato a causa del suo fallimento.
 
La mancanza di un'identità ebraica induce i giovani Israeliani a prendere decisioni in funzione delle esigenze economiche? Tomer Treves scrive che le persone se ne vanno "a causa di quel che è diventata l'idea sionista. Nel momento in cui il legame con Israele si indebolisce, la decisione sul dove andare si affida a valutazioni relative alla qualità della vita, e Israele non è in una buona posizione da quel punto di vista..." Treves sostiene che il fattore più importante nella lealtà verso Israele è "dove collochiamo l’identità ebraica nella nostra scala di identità. [Quando la] decisione di vivere in Israele non si basa più sui valori", vale a dire sul fatto di "identificarsi come ebrei", "allora entrano in considerazione i parametri economici". Ma questa argomentazione presuppone che la lealtà verso Israele e l'identità ebraica si identifichino. Quelli che se ne vanno non rinunciano alla loro identità di ebrei, rifiutano invece l'idea che essere ebreo significhi vivere in Israele.
 
Questi Israeliani recentemente emigrati mantengono i loro legami con Israele? C'è stato un interessante tentativo di rispondere a questa domanda da parte dell'organizzazione di destra, American Israel Council. L’AIC ha inviato un questionario agli immigrati israeliani negli Stati Uniti, chiedendo loro chi avrebbero sostenuto nel caso di una frattura israeliano / statunitense, se gli ebrei degli Stati Uniti (anche quelli che non condividono le decisioni politiche di Israele) avessero l'obbligo di difendere Israele pubblicamente e quanto, secondo loro, gli ebrei statunitensi siano capaci di influenzare le decisioni politiche degli Stati Uniti.  
 
Haaretz ha osservato che "due questioni sensibili e potenzialmente esplosive" hanno "tormentato" gli ebrei degli Stati Uniti e il loro rapporto con Israele. "Il primo riguarda le rivendicazioni di doppia fedeltà" sia verso Israele che verso gli Stati Uniti; l'altro "riguarda la lobby ebraica statunitense pro-Israele". La definizione IHRA ormai ampiamente utilizzata di antisemitismo stabilisce che l’accusa di doppia lealtà sia antisemita. Eppure un organismo sionista ha posto delle domande su questo argomento, in un modo progettato per incoraggiare risposte che privilegino la lealtà verso Israele. Forse è stata proprio l'insicurezza sulla misura in cui gli emigranti di oggi supportano Israele a motivare l'indagine AIC.  
 
La professoressa israeliana Tamar Hermann teme che i figli degli emigranti israeliani non saranno israeliani, ma che "diventeranno statunitensi, canadesi o europei ... L'Israelità non si trasmette generalmente alla seconda generazione". Non è solo questione di "Israelità" che non si trasmette alla seconda generazione. Questo è il carattere dell'immigrazione in generale, anche in Israele. Vedi, per es. C'è qualcosa in Israele che rende problematico il fatto che i figli di coloro che se ne vanno si identificheranno probabilmente con la loro nuova terra?
 
Inizialmente, Israele come patria era un concetto attraente per gli ebrei che si sentivano vittime dell'antisemitismo diffuso. Ora sembra che gli Israeliani emigranti stiano seguendo i passi dei loro antenati, e non quelli mitici ai quali Dio avrebbe assegnato la signoria sulla terra. In passato, e nonostante i tentativi di assimilazione poi falliti, gli ebrei hanno mantenuto dei legami tribali, piuttosto che nazionali. I giovani israeliani che si spostano in cerca di migliori opportunità forse nutrono una fedeltà altrettanto limitata verso la loro "patria", e si comportano semplicemente come Israeliani erranti.
 

Ossin pubblica articoli che considera onesti, intelligenti e ben documentati. Ciò non significa che ne condivida necessariamente il contenuto. Solo, ne ritiene utile la lettura