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I giorni della spiritualità e del raccoglimento vissuti nel Kosovo martoriato
Enrico Vigna

Dopo il giorno dei morti, a novembre, il 7 gennaio in Kosovo Metohija si è vissuta spiritualmente la ricorrenza del Natale ortodosso. Un profonda tradizione culturale e spirituale slava, serba in questo caso, non distingue molto tra credenti e laici; sono giorni che, oltre alle manifestazioni esteriori, sono vissuti da ogni singolo interiormente, come riflessioni/meditazioni.

Di questo sono testimone oculare, per consuetudine di vita vissuta con loro, con religiosi, ferventi credenti o onesti socialisti, profondi patrioti, integerrimi sindacalisti, tutti diversi tra loro quanto a visione del mondo o idee politiche, ma fratelli e sorelle, compagni di situazioni che abbiamo vissuto e condiviso insieme, ai limiti delle nostre stesse vite...ciascuno di essi possiede radici spirituali profonde e saldissime. Anche questo è il popolo serbo, piaccia o non piaccia a taluni esperti di Serbia virtuale, e forse anche grazie a queste radici, ha saputo resistere per 17 anni alle aggressioni straniere ed ancora oggi resiste nel Kosovo. 

Tali radici spirituali sono forse ancora più profonde nella tragica realtà dei serbi del Kosovo, prigionieri di una moderna forma di apartheid: le enclavi. Una realtà che non vede ripettato nessuno  dei diritti fondamentali dell’uomo sanciti nella Carta delle Nazioni Unite, ancor meno quelli sanciti nei primi dieci Articoli dei Diritti dell’Infanzia. Nel momento in cui il Consiglio Europeo discute, minaccia, sanziona a proposito dei diritti umani in Siria, il mondo dovrebbe guardare che cosa è stato capace di inventare e alimentare in Kosovo Metohija, in uno stato artificiale ed illegale:  una società dove la profanazione di tombe di famiglia, di luoghi sacri, di monasteri e luoghi spirituali  è quotidiana e dove, da anni, vengono  quotidianamente attaccati, vandalizzati, distrutti.

Così è stato anche a novembre, nel giorno dedicato al ricordo dei propri cari scomparsi. La realtà dei cimiteri e luoghi sacri nel Kosovo Metohija è la fotografia della realtà della vita quotidiana dei serbo kosovari.  Quanti sanno che per i serbi, dal 2013, il ” diritto ” di visitare le tombe dei propri cari si è ridotto da DUE volte all’anno ad UNA; sì, perché dal 2008 (anno della secessione illegale dalla Serbia), in questa regione i serbi possono visitare i propri cimiteri e pulire lapidi e tombe (da erbacce, rovi, ma anche da escrementi e dai maiali fatti pascolare provocatoriamente),sotto scorta militare, spesso ingiuriati dai locali albanesi. Le stesse tombe  e lapidi che, quando sono scampate alle devastazioni e alle profanazioni di questi 14 anni di ” democrazia”, vengono oggi spaccate e violate a colpi di mazze.
                                                                              
Nel cimitero del paese di Istok, oltre 100 tombe e lapidi sono state distrutte
Il cimitero di Peć , uno dei più grandi cimiteri ortodossi in Kosovo , è stato trasformato in una discarica dove gli  Albanesi gettano i loro rifiuti.
  
I vandali hanno distrutto non solo le lapidi in marmo, ma anche bare e molti corpi e ossa dei defunti sono stati estratti e portati via.
A Prizren 50 tombe sono state profanate nel locale cimitero ortodosso nel corso degli ultimi mesi, ha denunciato un sacerdote della Diocesi locale, aggiungendo che la profanazione è avvenuta appena una settimana dopo che i vandali avevano già profanato circa 50 tombe nel cimitero ortodosso di Kosovo Polje.
  
Altre  tombe sono state profanate a Klokot (distrutte 27), Milosevo, Plemetina e Priluzje, dove è stato usato dell’esplosivo per fa saltare una pietra tombale appartenente ad una famiglia serba locale.

  

Anche questo fa parte della realtà dei serbi resistenti nella propria terra, anche queste umiliazioni sono pane quotidiano, con l’obiettivo di ferire, violentare e annientare le loro identità spirituali e religiose che qui, più che altrove, si fondono con la loro identità nazionale e culturale.  Nel corso dell’ultimo viaggio di solidarietà, anche questo è stato denunciato e raccontato, sottolineando che anche questo minava ed erodeva la compattezza e unità delle genti serbo kosovare. Iinfatti, dopo 14 anni di queste umiliazioni e vessazioni materiali e morali, alcuni hanno deciso di portare i resti dei propri cari in Serbia; mentre altri ritengono che, fare questo, significherebbe la resa totale, significherebbe consegnare, insieme ai propri luoghi sacri, anche la propria storia, la propria identità, le radici di un intero popolo, così sancendo la resa al terrorismo, all’arroganza, all’ingiustizia.                                                                                               

Così sono state vissute le giornate dedicate ai morti in quel lembo di mondo e in modo simile sono trascorse le giornate della Natività dei cristiani.                                                                                         

Quanti ricordano che, nel Kosovo Metohija, in quattordici anni di  ”democrazia e libertà”, oltre 200  chiese, monasteri e luoghi sacri sono stati vandalizzati e distrutti, alcuni dei quali patrimonio dell’Unesco, nonostante esistano precisi obblighi internazionali contenuti nella Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale mondiale, adottati alla Conferenza delle Nazioni Unite di Vancouver nel 1976. L’ Articolo 9 dice: "Il diritto di ciascun paese è quello di essere, con la piena sovranità, l'erede dei propri valori culturali che sono il frutto della sua storia, ed è suo dovere farne tesoro come valori che rappresentano una parte inseparabile del patrimonio culturale dell'umanità…”. Evidentemente per la Serbia questo non vale.
             

Nel frattempo, da agosto 2013, il responsabile della Kosovo SPU ( polizia del Kosovo), ha annunciato che una unità, detta Kosovo Security per il patrimonio culturale e religioso, ha assunto il ruolo di protezione del Patriarcato di Pec e di altri 24 siti religiosi; il Monastero di Decani è invece ancora protetto dalle forze internazionali, essendo ad alto rischio di attacchi. Così, dopo oltre 200 chiese ortodosse serbe distrutte dal 1999, anno dell’ occupazione militare NATO della Provincia serba, i piromani vengono messi a proteggere le case incendiate. Queste Unità speciali della cosiddetta polizia multietnica in Kosovo per la tutela del patrimonio serbo e siti religiosi contano circa 200 agenti di polizia, agli ordini direttamente del noto criminale di guerra Agim Ceku (nel 1992-’95 generale dei secessionisti croati, coinvolto nel genocidio dei serbi della Krajina ),  grande amico e con stretti legami con Stati Uniti e Germania.
    
Anche per il Natale, a parte un raccoglimento e una gioia spirituale generale e comune, le condizioni in cui viene celebrato in Kosovo e Metohija oggi, sono molto diverse da quelle in cui questa festa viene celebrata in qualsiasi altro luogo del mondo. Essa come il resto della quotidianità in quella provincia, è inserita nella vita di un ghetto, la realtà delle enclavi, aree delimitate materialmente e protette, dove tutta la vita delle persone ed i suoi connessi avviene all’interno, fuori è territorio ostile e nemico, con rischio della vita se si osa uscirne. Una vita priva di opportunità, dei diritti umani fondamentali, compresa la libertà di movimento… anche quella di poter  andare liberamente nei boschi per tagliare l’albero di Natale, il Yule – log, che nella tradizione serba di questa festa, detta il badnjak, consiste nel bruciare un pezzo di quercia giovane, a forma di tronchetto preso dai boschi. Ma oggi nel Kosovo, per un serbo uscire dalle enclave e andare in un bosco, potrebbe significare rischiare la vita.
Il 6 gennaio un autobus che trasportava profughi serbi scappati da  Djakovica, che  stavano tornando a visitare il paese in occasione del Natale e visitare la locale Chiesa dell'Assunzione, è stato attaccato da manifestanti albanesi e preso a sassate, gli assalitori hanno spaccato i vetri e ferito alcuni passeggeri, cui hanno così impedito di raggiungere la Chiesa, in passato attaccata e danneggiata, in quanto sotto scorta della polizia hanno dovuto ripiegare verso il Monastero di Decani, protetto dalle forze internazionali.

Ogni anno la celebrazione del Natale in Kosovo viene usata dai separatisti albanesi per dimostrare la loro protervia e forza, dimostrando così che i serbi non possono sentirsi liberi nel proprio paese e non hanno diritto di celebrare liberamente la più gioiosa festa cristiana. Quest’anno si potrebbe dire che è andato tutto bene perché non ci sono state risse o spari, tranne il fatto di Djakovica, ma il cosiddetto stato di Kosovo ha trovato altri modi, ancora più sottili, per dimostrare ai serbi e alla Serbia in che direzione va il loro futuro.  Prima hanno respinto la richiesta del Presidente della Serbia, Nikolic, di partecipare il 7 gennaio alla liturgia di Natale nel Monastero di Gracanica, poi il giorno di Natale il responsabile del Governo serbo per il Kosovo e Metohija, A. Vulin, ha dovuto abbandonare la provincia su richiesta della polizia kosovara, per l’alto rischio di incidenti; nel frattempo la stessa polizia kosovara ha arrestato, dopo la liturgia, dieci giovani serbi che si trovavano con Vulin. “…È chiaro che si tratta di una provocazione, di una grave violenza. Ho saputo ufficiosamente che stanno tentando di accusarli di disturbo dell’ordine e della quiete pubblica, fino addirittura alla trasgressione dell’ordinamento costituzionale. Quando l’accusa è così vaga, e quando tutto è possibile, sapete che si tratta di pura ingiustizia…”, ha dichiarato Vulin.    Forse sarebbe il tempo di rivendicare i temi della libera celebrazione del Natale, della libera visita ai cimiteri, ai monasteri o alle proprie terre, perché il Kosovo è l’unico territorio in Europa dove non esiste la libertà di movimento…Ma dicono che è’ democratico.    
                                                   
Tuttavia pur in tali condizioni disumanizzanti, ai bambini nulla può togliere la gioia portata dalla festa del Natale in sé e, anche qui in questa terra martirizzata, sono i bambini che riescono ancora a sentire, nonostante tutto, gioia, la gioia del Natale.                                                                   

Questi bambini sono invisibili e inesistenti per la cosiddetta “ Comunità internazionale” occidentale e la sua opinione pubblica in gran parte ormai lobotomizzata, quotidianamente indignata o preoccupata per “diritti” negati o lesi in Paesi non loro alleati nella visione del mondo. Ai bambini  basta poco per lenire la barbarie di vite negate dentro le enclavi: una festa, una ricorrenza, un dono piccolo, semplice e in loro si rafforza la voglia, la gioia di vivere, comunque, nonostante tutto, nonostante terroristi, vandali, criminali, indistintamente sostenuti dai nostri governi di vari colori.    E sono loro, i loro sorrisi, i loro semplici gesti di riconoscenza e affetto, che danno ancora a noi la forza dell’impegno per una solidarietà concreta; che ci danno, insieme alle loro famiglie resistenti, il senso della vita…o meglio un senso alla nostra vita, in questo occidente opulento e perso dietro virtualità e inutilità esistenziali.
       

Sono loro che ci aiutano a tenere accesa la fiammella della speranza di un mondo diverso e migliore, con le loro famiglie che ancora non si sono arrese, difendendo le loro radici, i propri diritti, i propri costumi e tradizioni, ed anche la propria spiritualita’…anche questo è “resistenza” alle ingiustizie ed ai potenti del mondo ed alle loro arroganze e violenze.
                      
Tutto questo nel letale silenzio  della cosiddetta ” comunità internazionale” occidentale, dei suoi media, quotidianamente ”indignati” per violazioni di ”diritti umani”  in alcuni paesi, stranamente muti rispetto ad altri ”scomodi”, forse perchè allineati e subalterni alle loro politiche ed interessi.
             
A  qualcuno potrà sembrare anomalo questo mio lavoro, ma penso che, soprattutto in aree geografiche e storiche ben definite (di fatto tutto ciò che NON è occidente, dall’Eurasia al mondo arabo, a quello dell’estremo oriente, all’africanità, all’indigenismo latinoamericano), in situazioni e fasi storiche di arretramento di alternative reali e concrete, la spiritualità sia utile all’esistenza di una coscienza collettiva, per questo è profondamente radicata nelle identità culturali di molte società.
   

Gli stessi processi “rivoluzionari” della storia, molti con basi marxiste, hanno intrecciato le loro politiche con i valori spirituali dei propri popoli e con i loro esponenti religiosi, se non ottusi o peggio reazionari, caratterizzandole con intelligenza ed originalità: da Cuba (Castro con animismo e cristianità) al Vietnam (Ho Ci Minh e buddismo), dalla Cina (Mao con taoismo e confucianesimo), al Sudafrica (Mandela,  il vescovo Tutu e l’anglicanesimo), dal Nicaragua sandinista ( Padre Ernesto Cardenal e cristianesimo) al Venezuela bolivariano ( Chavez e il cristianesimo e l’animismo indigeno);  il profondo e stretto legame, costato carcere ed esilio a Mons. H. Capucci con la lotta del popolo palestinese; ai processi di emancipazione panarabi: Nasser, Hussein, Gheddafi, Ben Bella e gli intrecci con le culture musulmane; vedere ai giorni nostri come le fedi d’oriente siano in prima fila nella lotta per la difesa del proprio paese e popolo, e ferocemente attaccate;  fino ai processi di liberazione del secolo scorso dell’Africa e le difformi, eterogenee intrecciature con le complesse diverse fedi dei propri popoli. Per non citare le vicende della lotta di liberazione in Europa contro il nazifascismo, dove soprattutto nei paesi dell’Est, terra dell’ortodossia, vi e’ stata una sintonia di intenti e valori per la difesa della propria terra e patria; dalla Jugoslavia ( fatta eccezione del clero croato, di fatto integratosi e identificatosi con la barbarie nazifascista), a quello che forse può apparire sorprendente, e che fu di fatto l’unione di intenti tra Stalin ed il Patriarca Alessio I, guida spirituale della piu’ grande e forte Chiesa Ortodossa del mondo, nella lotta contro l’aggressione nazifascista.                                                           

L'individualismo ha trovato il suo dispiegamento dall'inizio del secolo scorso, ma nella vita dei popoli la necessità della comunità è imprescindibile. Nei processi evolutivi storici la maggioranza degli individui ha sempre avuto un vitale bisogno di identificarsi con una comunità o gruppo sociale di appartenenza. Anche facendo parte di un dato gruppo spirituale, gli individui trovano un conforto e un supporto contro isolamento o vessazioni, traendone spesso forza per la sopravvivenza.                     

Queste schematiche e non certo esaurienti o profonde righe di sottolineatura, sono solo per avvicinare il lettore alla realtà del Kosovo, perché ritengo che raccontare come si vivono anche le giornate della spiritualità e del raccoglimento cristiani sia un mezzo per continuare a denunciare l’ingiustizia e l’oppressione di un intero popolo, in quel pezzo di Balcani. Nelle società ci sono concetti variabili di spiritualità, in quelle terre socializzare con gli aspetti della spiritualità è molto comune in tutti: credenti, laici e anche non credenti; l’ho visto, vissuto, condiviso stando tra loro e con loro, con il profondo onore di esserne considerato parte, condividendo la loro realtà, il loro dolore, le umiliazioni, le ingiustizie, le tragedie, la paura e anche il terrore in situazioni vissute insieme. Queste righe vogliono solo essere un accenno ai complessi e profondi legami tra gli aspetti sociali e la spiritualità nella realtà del Kosovo Methoija.   

Oggi nella realtà del Kosovo la spiritualità è una delle principali forme di socializzazione, avendo perso la politica, nelle sue attuali leadership, ogni legittimità ( …ma questo vale anche a casa nostra…). I risultati di questa forma di socializzazione sono molto particolari e complessi in una società, come quella kosovara, reduce da una guerra quasi civile e con una violenza continua e quotidiana che continua, seppur non eclatante. La spiritualità in quella regione investe l'intera struttura sociale in modo diretto o indiretto; in questa fase essa svolge un ruolo positivo fondamentale di coesione e collegamento tra gli individui, garantendo una identità nazionale collettiva, sia sociale, che politica e culturale, che si interseca fortemente con una prospettiva di liberazione dall’oppressione, dall’ingiustizia e dall’arroganza dei padroni del mondo. E’ per esempio normale che, nelle manifestazioni di piazza e nelle iniziative di protesta, i padri ortodossi siano in prima fila e protagonisti, determinati nella denuncia della situazione, così come pronti e disponibili al dialogo ed al confronto sui temi e le questioni, finora negato.                                                                                                                                                                 
Semplicemente perché lì sono, lì vivono, lì con il proprio popolo, condividono la drammatica realtà, ne sono parte di essa…non sono scappati, non sono altrove.        

                                                  
                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              Naturalmente Vidovdan
Guardo nel cielo, i secoli che passano
Le antiche memorie sono l’unica cura
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Come l’eterna fiamma nei nostri cuori
La battaglia del Kosovo resta l’unica certezza
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
Perdonaci Signore tutti i nostri peccati
Dai coraggio ai nostri figli e alle figlie
Ovunque io vada, è a te che torno di nuovo
Perché nessuno può togliermi dall’anima il Kosovo.
                                     
Vidovdan e’ un canto dell’epopea serba. Il 28 giugno di ogni anno, giorno di San Vito ("Vidovdan"), i serbi commemorano la sconfitta del 1389 ad opera dei Turchi sulla piana di Campo dei Merli ("Kosovo Polje"), a pochi chilometri dall'odierna Pristina.