Stampa




Le bugie del Regno



“18 novembre : Festa dell’indipendenza”
(Calendario ufficiale del Regno del Marocco)

Il contesto. Siamo all’inizio dell’era Hassan II (cominciata nel 1961) E L’Istiqlal, primo artefice dell’indipendenza, ottenuta qualche anno dopo, continua a “deificare” Mohammed V, appena deceduto (forse per opporsi a suo figlio, chissà…). La strategia si era già dimostrata vincente per fare pressione sui Francesi, mobilitando il favore popolare durante l’esilio del sultano. Una volta rientrato Mohammed V e dopo la sua morte, l’Istiqlal continua a incensarlo, pensando di poter capitalizzare su un “simbolo” senza danno per la spartizione democratica del potere. A torto.

La bugia. Il 18 novembre 1955, Mohammed V il “liberatore” ha dichiarato l’indipendenza del Marocco, dopo averla firmato col Presidente del consiglio francese Antoine Pinay.  E’ quanto dice la storia ufficiale del paese, quello che ribadisce ogni anno Le Matin.
La verità. La data del 18 novembre è in verità… quella dell’intronizzazione di Mohammed V, nel 1927! Lo stesso giorno, nel 1955, vale a dire due giorni dopo il suo ritorno dall’esilio, Mohammed V ha approfittato della commemorazione della sua proclamazione per pronunciare un discorso storico, che annunciava negoziati “irreversibili” con la Francia, in vista della fine del protettorato. Ma questi negoziati erano cominciati parecchi mesi prima ad Aix les Bains con i nazionalisti dell’Istiqlal, mentre Mohammed V era ancora in esilio. E si sono conclusi con l’abrogazione del protettorato il 2 marzo 1956. Ecco la vera data dell’indipendenza del Marocco,  ottenuta da un collettivo di nazionalisti. E’ stato Hassan II, d’accordo con l’Istiqlal, che ha deciso di fissarla fraudolentemente al 18 novembre di ogni anno.

E poi… Niente di nuovo. Il 18 novembre ricorda sempre, ufficialmente, la data della nostra indipendenza, “dichiarata da Mohammed V”. Perpetuando questa menzogna, la monarchia cerca di affermare che essa sola ha lottato per l’indipendenza, e nega i sacrifici di generazioni di militanti (i Zerktouni, Ziraoui, ecc.). E’ più che mai necessario un aggiornamento della storia ufficiale.

 

“Ci rallegriamo di annunciare la scoperta di petrolio e di gas nella regione di Talsint” – Mohammed VI nel discorso del 20 agosto 2000.

Il contesto. Estate 1999. Nell’euforia del dopo Hassan II, il governo Youssoufi prepara un nuovo Codice degli idrocarburi, che concedeva abbattimenti fiscali e incentivi per le grandi compagnie petrolifere che intendevano operare nel Regno. Qualche mese più tardi, Lone Star Energy, piccola società petrolifera marocco-texana, riesce ad ottenere (con pieno controllo) un’autorizzazione di sfruttamento su cinque zone, in offshore e onshore. Intorno al tavolo si nota la presenza di persone vicine alla famiglia reale.

La bugia. C’è tanto petrolio a Talsint (verso Errachidia, nel sud-est del paese)! E l’euforia arriva in tutte le case quando il Re pronuncia un discorso che annuncia la scoperta di giacimenti di gas e petrolio. Addio alla dipendenza energetica, buongiorno ai petrodirhams. “Il Marocco dispone oramai da 20 a 30 anni di riserve petrolifere (da 12 a 15 miliardi di barili)” annuncia il Ministro dell’energia dell’epoca, lo sfortunato Youssef Tahiri. Di che potersi fare beffe del vicino algerino. E rassicurare circa il “decollo economico e lo sviluppo sociale”, dixit Mohammed VI.

La verità. Il Re non aveva alcun interesse ad annunciare la presenza del petrolio a Talsint se non ne fosse stato lui stesso convinto. Si è dunque sbagliato… Per contro, e tenuto conto della situazione (una sola ed unica trivellazione), era tanto prematuro quanto azzardato parlare di risorse petrolifere “in quantità abbondanti” come ha precipitosamente annunciato. Resta la questione essenziale: il Regno dispone di risorse petrolifere? Sì, tenuto conto dell’esistenza in Marocco di diversi bacini sedimentari. E poi, non c’è alcuna ragione perché il Marocco costituisca un’eccezione in Nord Africa: la Lybia, la Tunisia in minore misura, l’Algeria e la Mauritania sono paesi produttori di petrolio. Perché no anche noi, un giorno?

E poi…. nel 2003 una certa Amina Benkhadra (che diventerà ministro dell’energia nel 2007) viene nominata a capo dell’Ufficio nazionale degli idrocarburi, appena creato per dahir reale (decreto reale, ndt). Obiettivo? Avviare una strategia per sollecitare le Majors (Total, Mobil, Shell, Energycorps) ad effettuare sondaggi nel sottosuolo marocchino. In seguito la ricerca e il sogno petrolifero sono proseguiti, sebbene in modo più discreto…



“I Berberi, primi abitanti del Marocco, sono venuti dallo Yemen passando per l’Etiopia” (Estratto da un manuale scolastico, 5° anno delle primarie, 1966)


Il contesto. Fin dagli anni ’20 la Francia, per meglio controllare il paese, stabilì di inserire i giovani berberi nelle scuole “franco-berbere”, per allontanarli dall’influenza arabo-mussulmana del movimento nazionalista. Il progetto si fondava anche su una teoria colonialista secondo cui i berberi sarebbero di “razza europea”. Nel 1930 il “dahir berbero” instaura un diritto consuetudinario nelle tribù amazighe. Per reazione i nazionalisti gridano al “complotto francese” ed esaltano l’identità e le origini arabo-mussulmane dei marocchini, berberi compresi. I manuali scolastici, soprattutto tra gli anni ’60 e ’80, si adeguano pienamente a questa manipolazione storica.

La bugia. Tutti gli studenti del Regno hanno imparato a memoria questa frase, a partire dal 1966 fino alla fine degli anni ’70: “I Berberi, primi abitanti del Marocco, sono venuti dallo Yemen e dalla Siria, passando per l’Etiopia e l’Egitto”. Apparsa nei primi manuali di storia stampati dal Governo marocchino (i manuali utilizzati subito dopo l’indipendenza erano siriani), questa affermazione non era un semplice errore scientifico. Trasformando i primi abitanti dell’Africa del nord in arabi, si trattava (evidentemente) di negare l’identità berbera del Marocco.

La verità. Grazie allo studio delle incisioni rupestri, gli archeologi ritengono attualmente che l’occupazione del territorio nordafricano da parte dei berberi risalga a 8000 anni prima di Cristo. In tutte le epoche possono esservi state delle migrazioni di popolazioni che venivano dal sud del continente o dall’oriente, ma tutte si sono fuse nell’etnia berbera.


E poi… Fino al 1994, i militanti berberi sono stati qualche volta arrestati… per l’uso di bandiere e slogan in tifinagh. Le cose sono nettamente cambiate in seguito, ma il discorso fondamentale per il riconoscimento delle rivendicazioni culturali berbere è stato quello di Mohammed VI, il 17 ottobre 2001, che riconosceva ufficialmente l’amazighité e annunciava la creazione dell’Istituto reale di cultura amazigh.



“Sostenere che abbiamo imposto la sottoscrizione (per la Moschea Hassan II) è una pura menzogna, frutto addirittura di gelosia”
Hassan II a France Inter, dicembre 1988

Il contesto. Nel 1986 il Re vuole “riconciliarsi” con Casablanca, che si ricorda ancora dei moti sanguinosi del 1981. Rabat ha il suo Darih Mohammed V e la sua Tour Hassan, Der Beida avrà la sua moschea Hassan II. A picco sull’Atlantico, con un minareto che raggiunge i 210 metri di altezza, il progetto è imponente, megalomane,  a immagine del suo inventore: Hassan II.



La bugia. Per contribuire alla realizzazione del progetto faraonico, il Re fece appello alla generosità dei Marocchini, domandando ad ogni cittadino una sottoscrizione “volontaria”, in proporzione dei propri mezzi (“anche un solo dirham” disse). Come unico premio sarebbe stato consegnato un certificato a tutti coloro che avessero messo mano alla tasca.
La verità. I donatori non hanno certo fatto ressa. Il Makhzen (sistema di potere reale, ndt) decise allora di cambiare tattica per forzare la mano ai mecenati. In ogni città del Regno, industriali, commercianti ed altri funzionari furono convocati dalle Autorità. Governatori e Caid decisero loro, in base al giro di affari o alla busta paga di ognuno, l’ammontare della sottoscrizione, e organizzarono qualcosa che assomiglia molto ad un racket. Prelievo sui salari, pressioni sugli amministratori delle imprese, rilascio di atti amministrativi dietro versamento della “quota”… la colletta fu un vero ( e obbligato) successo. In totale, la Moschea Hassan II sarà costata qualcosa come 7 miliardi di dirhams al suo popolo,  volente o nolente.

E dopo… La Moschea Hassan II è minacciata di erosione a lungo termine. Le dipendenze (una biblioteca ed un museo) sono inutilizzate dal 1993, data dell’inaugurazione. Infine, il budget necessario per il suo mantenimento è esorbitante: più di 45 milioni di dirhams nel 2007, prelevati sul budget dell’Agenzia urbana di Casablanca e, dunque, sui soldi dei contribuenti. Ma vi è comunque qualcuno che è soddisfatto: i praticanti che vengono ad ascoltare le prediche di Omar El Kzabri durante il ramadan. E, il resto dell’anno, le coppie di innamorati che si danno appuntamento sulla spianata della Moschea.


“La nazione marocchina, da Oujda a Smara, e da Tangeri a Lagouira, è unica…”
Mohammed VI, in un discorso del 6 novembre 2003

Il contesto. 1979, anno fatidico. Quattro anni dopo la Marcia Verde, la Mauritania  si ritira dal conflitto militare saharaiano, abbandonando nelle mani del Marocco la provincia di Oued Eddahab (7% del territorio marocchino). Mentre i notabili locali si ricongiungono alla “madre patria”, facendo promessa di fedeltà ad Hassan II, il Marocco intende fare di Lagouira, località situata all’estremità sud del regno (la piccola appendice del Marocco), la sua frontiera sud.

La bugia. Secondo le mappe marocchine Lagouira si trova in Marocco. E secondo la ripartizione amministrativa ufficiale, il comune urbano di Lagouira fa parte della provincia di Aousserd (regione di “Oued Eddahab Lagouira”). Secondo i discorsi ufficiali, Lagouira dispone di un consiglio municipale “eletto dal popolo”, che comprende una maggioranza ed una opposizione, una bachaouia (una delegazione governativa, ndt), di diverse delegazioni ministeriali e tutto. La città conterebbe 4000 abitanti… sulla carta.

La verità. La storia è completamente diversa. Nessuna bandiera marocchina sventola su Lagouira. E’ una città fantasma sotto la sovranità di Nouakchott, protetta da soldati mauritani. Vi vivono un centinaio di pescatori. Quanto alle istituzioni marocchine di Lagouira, in realtà si trovano a Dakhla, 600 km più a nord. La più australe delle città del territorio marocchino, quella vera, è il posto di frontiera di Guergarate, situata ad una cinquantina di chilometri a nord di Lagouira.

E poi…. Nel settembre 1989, Hassan II spiega ad un gruppo di giornalisti spagnoli che se il Marocco ha rinunciato alla regione di Lagouira, “è stato per esplicita richiesta della Mauritania”. La presenza di soldati marocchini avrebbe costituito un grosso pericolo per Nouadhibou, città mauritana vicina a Lagouira, minacciata dal Polisario. Nel corso degli anni ’90 il Marocco torna alla carica, tenta di mettere radici a Lagouira, e di crearvi una vera città, dotata di infrastrutture, di una rete fognaria, di strade, ecc. Invano, la sabbia ha inghiottito tutto al suo passaggio… Poi il mito sopravvive nei discorsi ufficiali. La formula “da Tangeri a Lagouira” ritorna in ogni discorso per gli anniversari della Marcia Verde, e viene declinata nei manuali scolastici, i bollettini meteo, i depliant turistici…  


“Il generale Oufkir si è suicidato con tre colpi, di cui il terzo è stato fatale”
Mohammed Benhima, ministro dell’Interno, 23 agosto 1972

Il contesto. Il 16 agosto 1972, un anno e rotti dopo il mancato colpo di Stato di Skhirat, Mohamed Oufkir, ministro della difesa e comandante in capo dell’esercito, tenta di rovesciare la monarchia. Il Boeing 727 che trasporta Hassan II, di ritorno da Parigi, viene mitragliato da alcuni F-5 mentre l’aereo reale sorvola Tetouan. Miracolo hassaniano, l’aereo riesce ad atterrare a Rabat. La stessa sera, l’ideatore del colpo di Stato si reca furibondo al Palazzo di Rabat… e vi esce con i piedi in avanti.

La bugia. Il 22 agosto in mattinata, mentre Oufkir è già sei piedi sotto terra da qualche giorno, il Ministero degli affari esteri avverte le cancellerie del “decesso del Ministro della Difesa nazionale”. L’indomani, durante una conferenza stampa a Rabat, Mohamed Benhima, ministro dell’interno, informa i giornalisti del “suicidio” del generale golpista. La sera stessa Hassan II ribadisce la versione ufficiale nel corso di un discorso alla radio nazionale, senza mai pronunciare il nome del “traditore del suo re”. Davanti alla stampa straniera, il Re è più prolisso ed appone il sigillo reale alla versione ufficiale: “L’ultimo colpo gli è stato fatale”.

 La verità. Tre colpi per un suicidio è troppo. Tanto più che Oufkir, sempre secondo la bugia ufficiale, si sarebbe tirato un ultimo colpo alla schiena. Si sapeva che il generale aveva le braccia lunghe, ma comunque… fisicamente impossibile, e storicamente non dimostrato. Alcuni testimoni vicini a Oufkir cercheranno di contraddire la versione ufficiale: “Tre colpi, mentre io ho potuto vedere (molte) più ferite. Continua la sinistra commedia delle menzogne”, racconta Raouf Oufkir, figlio del generale, in Les Invités (2003, Falmmarion).

E dopo… All’indomani del golpe, Hassan II decide di sopprimere l’incarico di ministro della Difesa. Colpa del generale. Ma Oufkir non è Ben Barka e, suicida o no, non ha molti che lo piangono oggigiorno, se non i suoi cinque figli, e sua moglie, vittime dei danni collaterali di questa vicenda, che hanno contribuito ad arricchire la letteratura carceraria marocchina, col racconto dei loro 19 anni di detenzione segreta.

“Se avessimo voluto fare guerra alla Spagna, non avremmo mandato dei civili disarmati ma piuttosto un esercito… la nostra Marcia (Verde) è pacifica”
Hassan II, discorso del 5 novembre 1975

Il contesto. Nel 1975 il generale Franco, che non è mai stato incline a negoziare col Marocco sulla vicenda del Sahara, è morente. Per Hassan II si tratta del momento ideale per tentare di recuperare le contrade del sud ancora controllate dalla Spagna. Ma anche per consolidare il suo potere nei confronti della classe politica marocchina, dopo i due tentativi di colpo di Stato di cui è stato vittima nel 1971 e nel 1972, e realizzare una sorta di unione sacra intorno al trono. E’ allora che inventa la Marcia Verde.

La bugia. Secondo la versione ufficiale, la marcia pacifica di 350.000 Marocchini armati solo del Corano, di bandiere e del ritratto di Hassan II ha liberato il Sahara il 6 novembre 1975, costringendo le truppe spagnole ad andarsene senza alcuno spargimento di sangue.

La verità. Le Forze armate reali, sotto il comando di un certo Ahmed Dlimj, erano invece stazionate in Sahara sin dal 31 ottobre 1975. Controllavano ed occupavano diversi punti strategici ed hanno avviato una vera operazione militare a 160 km a est di Tarfaya, dove sono stati utilizzati blindati e carri armati  per piegare i guerriglieri del giovanissimo Fronte Polisario. Alla fine solo qualche migliaio di patrioti (sui  350.000 “marciatori verdi”) hanno lasciato gli accampamenti di Tarfaya e di Tan Tan per percorrere una distanza di 51 km nel deserto, prima dell’ordine di ritirata dato dal Re, che negoziava dietro le quinte con gli Spagnoli.

E poi… L’affaire del Sahara non è per niente risolto, a distanza di più di tre decenni. Salvo che, con l’iniziativa della Marcia Verde, Hassan II preso due lunghezze di vantaggio sui suoi avversari, tanto in Marocco che in Sahara, e perfino in Algeria. Il Marocco non ha definitivamente conquistato il Sahara, ma non l’ha nemmeno perso. E questo lo deve un po’ anche alla Marcia Verde.



“Abraham Serfaty non è marocchino. E’ brasiliano”
Decreto del ministro dell’interno, 1991

Il contesto. Un anno dopo la clamorosa uscita del libro “Notre ami le roi”, scritto da Gilles Perrault, grazie alle testimonianze di Christine Daure-Serfaty (moglie di Abraham), Hassan II è quasi obbligato a rilasciare i suoi prigionieri politici, soprattutto quelli di Tazmamart. L’11 settembre 1991 Abraham Serfaty, feroce oppositore del regime, viene liberato dalla prigione di Kenitra, dopo 17 anni passati dietro le sbarre. Ma subito dopo il fondatore di Ilal Amam viene espulso verso la Francia.

La bugia. “Serfaty non è marocchino. E’ brasiliano”. Così ha detto Driss Basri, potentissimo ministro dell’interno, per giustificare l’espulsione di Abraham Serfaty, all’uscita della prigione. La sue marocchinità è stata contestata nel momento in cui è stata scoperta una presunta filiazione brasiliana. Suo padre, che è vissuto ed ha lavorato per molti anni in Brasile, gli aveva lasciato anche la sua nazionalità. Nel 1997 Driss Basri ha usato l’ironia fino a giungere a dichiarare che Serfaty “non aveva che da prendere il suo passaporto brasiliano e chiedere un visto se avesse avuto troppa nostalgia del suo paese natale”. L’idea (di trovare a Serfaty un’improbabile nazionalità brasiliana) è stata suggerita, come Basri ha spesso ripetuto in colloqui confidenziali, da un ex “compagno” di Abraham del partito comunista marocchino.

La verità. Oltre al fatto che la nazionalità marocchina non si perde mai, Abraham Serfaty non è mai stato naturalizzato brasiliano. Nemmeno suo padre. Quest’ultimo aveva solo un permesso di circolazione che gli consentiva di andare dal Marocco al Brasile. In realtà Hassan II voleva solo evitare l’impegno militante dell’ingombrante detenuto politico, una volta uscito di prigione.  La scusa del Brasile non ha mai convinto nessuno, sarebbe potuta essere anche l’Indocina, se Serfaty vi avesse avuto un lontano cugino. Una bugia grossa come una montagna, dunque, esotica come una foresta amazzonica.

E poi… Abraham Serfaty, che oggi ha più di 80 anni, vive i suoi ultimi giorni a Marrakech, con Christine Daure-Serfaty, sua moglie. Il suo rientro nel paese, il 30 settembre 1999, è avvenuto sotto il regno di Mohammed VI. La politica di rottura del nuovo re è stata messa in opera senza una parola di spiegazione su quanto era accaduto in passato. Difficile in effetti spiegare che un cittadino brasiliano possa essere stato imprigionato 17 anni per le sue opinioni politiche, poi cacciato dal paese perché brasiliano, e alla fine riportato in Marocco perché è marocchino.



“Io l’ho visto, su un cavallo bianco, sulla luna”
Migliaia di marocchini anonimi, 1953

Il contesto. A partire dalla conferenza di Anfa (1943), e soprattutto dopo il manifesto per l’indipendenza (1944), i nazionalisti marocchini hanno cercato di fare del sultano Mohammed Ben Youssef un simbolo della lotta per l’indipendenza, ruolo che lo stesso accetterà volentieri fin dal discorso di Tangeri del 1947. Il 20 agosto 1953 egli pagherà tuttavia cara questa alleanza: esito della politica autoritaria del generale Guillaume, il sultano viene deposto il 20 agosto 1953.

La bugia. Quando il sultano viene deposto, si realizza una immensa mobilitazione popolare. Nei due mesi successivi al suo esilio, si assiste quasi ogni giorno a manifestazioni popolari a sostegno di Mohammed Ben Youssef. E le testimonianze sono unanimi: il sultano è stato visto sulla luna. Un vecchio se ne ricorda: “Ero là, in mezzo a tutto quanto succedeva, piazza Bousbir a Casablanca. Avevo 18 anni all’epoca. Tutto a un tratto, abbiamo sentito: Guardate la luna, si vede il sultano Sidi Mohammed! Io l’ho visto, tutti quelli che si trovavano in piazza l’hanno visto, Casablanca l’ha visto, il Marocco intero l’ha visto”.

La verità. Mustapha Bouaziz è categorico: “I Marocchini hanno visto il sultano sulla luna, è un fatto”. Ma lo storico precisa: “I nazionalisti marocchini hanno ripreso una idea assai ingegnosa del prussiano Otto von Bismark, riunificatore della nazione tedesca alla fine del XIX secolo”. Il principio è semplice ed è stato scientificamente provato, si chiama persistenza retinica. “Tecnicamente, spiega Bouaziz, i nazionalisti hanno stampato delle foto del sovrano e le hanno distribuite con istruzioni precise: Osservate il ritratto per qualche secondo e poi guardate la luna: L’illusione ottica ha fatto il resto”.

E poi… La visione collettiva di Mohammed V sulla luna ( su di un cavallo bianco, per essere più precisi) è, nel 1953, un parossismo nella sacralizzazione della monarchia. Nello spirito del popolino la divinità reale non è più un mito, è un fatto dimostrato, verificato ad occhio nudo. Ma il sultano non ne sapeva niente: solo nell’agosto 1955, quando le prime delegazioni marocchine sono andate a rendergli visita in Madagascar, viene messo al corrente delle manifestazioni quasi isteriche che vi sono state in sua assenza. In seguito il culto di Mohammed V, e della monarchia in generale, non si è mai ridotto.


“Gli ebrei (fuggiti dalla Spagna nel 15° e 16° secolo) hanno trovato in Marocco  un’oasi di pace e sicurezza”
Estratto da un dispaccio MAP, 20 gennaio 2003

Il contesto. Dal 1948 al 1956 il 90% degli ebrei marocchini hanno scelto l’emigrazione. La prima data è quella della creazione dello Stato di Israele, la seconda quella dell’indipendenza del Marocco. L’esodo è proseguito negli anni ’60 e gli emigranti, per lo più appartenenti alla classe media, perfino povera, hanno fatto i bagagli sognando un mondo migliore, una terra più accogliente: Israele.

La bugia. Già la presenza ebraica in Marocco è ben anteriore alla caccia alle streghe praticata in Spagna nel 15° e 16° secolo. In seguito la “oasi di pace e sicurezza” non ha funzionato che ad intermittenza. Gli ebrei marocchini hanno a lungo sofferto di uno statuto di dhimmis (limitata autonomia, ndt) che faceva di loro, in fin dei conti, dei cittadini (o soggetti) di secondo rango, obbligati a pagare una Jiziya (tassa) per poter coltivare le loro differenze.

La verità. La creazione di Israele ha costituito un’insidia per gli ebrei del Marocco (e del resto del mondo). Ha aggravato le tensioni tra le due comunità, ebraica e mussulmana, che hanno a lungo coabitato ma senza mai confondersi. La verità è anche che il Marocco ufficialmente vietava l’esodo ebraico, mentre di fatto favoriva le ondate di emigrazione, giungendo a percepire dei “rimborsi” per ogni spedizione organizzata. La verità, infine, e che sono state commesse anche delle atrocità contro gli ebrei marocchini, ad esempio a Jerada (1948, 30 morti) e Sidi Kacem (1954, 6 morti).

E poi… Niente è cambiato. La comunità ebraica del Marocco si è oggi ridotta a 2000 membri, in base alle ultime stime. Ebrei e mussulmani sanno che lo slogan del “Marocco oasi di pace (per gli ebrei)” è solo uno slogan, un fregio propagandistico ufficiale. Niente di più. Anche se le terre marocchine restano relativamente più accoglienti rispetto alle altre del mondo arabo.



“Tazmamart esiste solo nell’immaginazione di persone malintenzionate”
Hassan II, rispondendo a Jean Daniel (L’heure de vérité), 1991

Il contesto. Agli inizi degli anni ’90 il Marocco ufficiale è impegnato a restaurare la sua immagine appannata da decenni di violazione dei diritti dell’uomo. Ma si moltiplicano i rapporti delle ONG internazionali, la pressione monta. E Hassan II è impegnato a difendersi…

La bugia. Hassan II nega in blocco l’esistenza di prigioni segrete in Marocco e si stupisce per le accuse delle ONG internazionali in proposito. Anche dopo la liberazione dei prigionieri di Tazmamart, nel 1991, dice di “non esserne al corrente” (in Mémoire d’un roi, Ed. Plon, 1993). Nello stesso contesto sottoscrive un’altra frase celebre, rispondendo ad Anne Sinclair, su TF1, sempre nel 1993: “Ma signora, a Kelaat Mgouna (latro luogo di tortura e di detenzione segreta, ndr) ci sono solo fiori”.

La verità. Tazmamart, ad un gradino più in basso di Kelaat Mgouna, era una vera anticamera della morte: La prima ha ospitato i golpisti del 1971 e 1972, la seconda i detenuti del gruppo di Bnouhachem. Tra gli altri. Sui 58 prigionieri di Tazmamart, solo 28 sono sopravvissuti e molti hanno scritto dei libri come testimonianza, da Ahmed Marzouki (Cellule 10, ed. Tarik-Paris Méditerranée, 2000) all’ultimissimo Aziz Binebine (Tazmamort, Ed. Delanoe, legge l’articolo a pag. 58).
Kelaat Mgouna anche ha una lunga lista di morti, almeno 16 secondo i risultati di un’inchiesta della Istance équité et réconciliation.

E poi… Ci sono stati i libri, certo, ma anche i pellegrinaggi e l’importante lavoro dello IER. Più di ogni altra anticamera della morte, Tazmamart resta il simbolo supremo degli anni di piombo e della faccia peggiore del regno di Hassan II.  Una piaga e, come dice un ex prigioniero, “una parte indelebile della nostra memoria collettiva”. La catarsi, avviata con il nuovo re, ha prodotto anche la creazione di nuovo associazioni, come il Forum Verità e Giustizia, cui appartengono i migliori esponenti della società civile.



“Sequestrati e non rifugiati a Tindouf”
Editoriale del Matin du Sahara, febbraio 2008

Il contesto. E’ quello del conflitto in Sahara Occidentale. Nel 1973, El Ouali Mustapha Sayed, studente di medicina all’Università Mohammed V di Rabat, fonda il Polisario, per “liberare il Sahara spagnolo”. Hassan II trova la risposta ed organizza nel 1975 la Marcia Verde per “recuperare il Sahara marocchino” respingendo di colpo gli uomini del Polisario verso i “campi” di Tindouf, città algerina. E’ l’inizio della guerra del Sahara, e delle esagerazioni verbali. Alle accuse di colonizzazione lanciate dal Polisario, il Marocco risponde, molto logicamente, con l’accusa al Polisario di avere “sequestrato” i rifugiati di Tindouf. E ancora oggi niente è cambiato.


La bugia. Fin dalle prime scaramucce negli anni ’70, Hassan II ha spiegato chiaramente la posizione del Regno: “Noi ci accordiamo il diritto di perseguire quelli che ci attaccano e che sequestrano i nostri figli in Algeria”. Sequestrati, il concetto è definito. Seguono poi esempi di verità storica, regolarmente  divulgati dai media ufficiali.

La verità. Gli abitanti di Tindouf non sono esattamente dei sequestrati come sostiene la versione ufficiale. La realtà è molto più sfumata, e TelQuel ha potuto constatarlo sul terreno nel 2008. I campi di Tindouf non sono né chiusi ne controllati rigorosamente. E se gli abitanti, nella stragrande maggioranza, non riescono ad uscire dai campi, è per la semplice ragione … che non esiste alcun mezzo di trasporto comune che permetta di raggiungere le città più vicine. Non hanno altra scelta che quella di avventurarsi a piedi nel deserto, col rischio di morire di sete e di caldo. Qualcuno lo fa, la maggior parte vi rinuncia. Questo li rende delle persone che vivono in condizioni difficili, non dei sequestrati.

E poi… In assoluto anche nel gergo ufficiale si sente oramai il bisogno di liberarsi di certe espressioni anacronistiche: per esempio “mercenari del Polisario”, lungamente usato nei discorsi reali e nei dispacci ufficiali, oltre che nelle riunioni politiche. Ancora ieri, dunque, vocaboli come RASD o Sahara Occidentale erano praticamente banditi. Può darsi che un giorno si dirà semplicemente “quelli di Tindouf”, per indicare gli abitanti dei campi.