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Le Journal Hebdomadaire - 14/20 novembre 2009


Il regime si fa del male


Repressione dei militanti indipendentisti  - Le gaffe del Corcas – Biadillah: la faccia inquietante di un saharawi timbrato makhzen


Di Aboubakr Jamai


“O il cittadino è marocchino, o non lo é. E’ finito il tempo del doppio gioco e della debolezza.  E’ l’ora della chiarezza e dell’assunzione di responsabilità. O si è patrioti o si è traditori”. Il tono è marziale, le parole dure e il profilo “bushista”. Sembra di sentire l’Hassan II degli anni ’70 e ’80. Quello che decimava gli oppositori di sinistra accusandoli di antipatriottismo. Era questa l’intenzione di Mohammed VI nel discorso del 6 novembre? Giocare d’anticipo sulle critiche verso la politica del regime sul Sahara? Può darsi. Ha già seguito l’esempio di suo padre chiudendo dei giornali per le loro “infrazioni nei confronti della causa sacra”. Non sarà così presto che la monarchia abbandonerà questa risorsa classica dei regimi antidemocratici: accusare i dissidenti di intelligenza col nemico. Ma certamente non è tutto. Forse nemmeno la ragione principale di questo irrigidimento. Prima di tutto c’è da fare i conti con l’atteggiamento generale assunto recentemente dai piani alti del Potere.  E’ l’ora della durezza. L’onda repressiva, con il seguito di divieti e processi che ha sommerso la stampa indipendente, ne costituisce il segno più evidente. Come se ci fosse una manifesta volontà di ispirare timore e soffocare ogni velleità di contestazione. Nella stampa, tra gli uomini di affari, nella classe politica e, ora più che mai, presso i Saharawi dell’interno.

Violazioni dei diritti dell’uomo
“Io non capisco perché i Marocchini si arrabbiano. Nonostante le azioni di dissidenza e di protesta, niente riesce a perturbare lo status quo. Il Marocco non è certo sul punto di perdere il controllo del Sahara”. Con queste parole Ignacio  Cembrero, giornalista di El Pais, esprime il suo stupore. Condiviso da numerosi osservatori. Le potenze mondiali che hanno i maggiori interessi nella regione non intendono imporre niente al Marocco. Status quo è la parola chiave qui. Se l’auspicio del Polisario di costringere il Marocco ad accettare l’organizzazione di un referendum di autodeterminazione non è prossimo ad essere esaudito, è altrettanto poco probabile che la comunità internazionale accetti il piano marocchino di autonomia. Vi sono infatti ben poche possibilità che l’ONU accetti di affidare la sorte dei Saharawi ad uno Stato non democratico, anche se nel quadro di una autonomia reale, che peraltro il Marocco non propone.  Sarebbe difficile per esempio che l’ONU accetti l’assoggettamento del sistema giudiziario di una eventuale regione saharawi autonoma alla screditatissima giustizia marocchina. Dunque per il Marocco l’opzione migliore è quella di mantenere la situazione di fatto, piuttosto che di cercare il consenso del resto del mondo su di un piano di autonomia che, comunque, non è molto convincente. Sarebbe piuttosto cruciale per le autorità marocchine sterilizzare tutti quei fattori che potrebbero porre termine allo stallo attuale. E proprio su questo punto il discorso del Re è rivelatore. Occorre bloccare le voci dissenzienti sul Sahara, soprattutto quelle dei Saharawi dell’interno. Il regime marocchino ha capito che il mantenimento dello status quo dipende da una scarsa attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul conflitto. L’hanno capito anche gli indipendentisti. Risultato: i secondi devono trovare il modo di creare attenzione intorno al conflitto, il primo deve impedirlo.
La strategia degli indipendentisti è quella di puntare sul rispetto dei diritti dell’uomo. Rivendicando la loro libertà di espressione e di associazione, sanno di giocare sul velluto. Reprimendoli, il regime di Mohammed VI si mostra ipocrita agli occhi del mondo. Come si può giustificare agli occhi dell’opinione pubblica internazionale la condanna di due giovani saharawi ad un anno di prigione senza condizionale, solo perché hanno installato sul loro telefonino l’inno del Polisario come suoneria? Come spiegare le ragioni per le quali si minaccia di pena di morte dei militanti per il solo fatto di essere andati a Tindouf?     
E tuttavia le indubbie violazioni dei diritti umani di cui sono vittime i militanti indipendentisti, anche se testimoniate dalle più credibili organizzazioni internazionali, non sono state sufficienti a far vacillare lo status quo. E se pure vi sono mobilitazioni nei paesi che hanno voce in capitolo, esse non sembrano tuttavia minacciare la posizione marocchina. La Spagna offre un buon esempio per comprendere l’incapacità degli indipendentisti a tradurre la mobilitazione della società civile in azioni politiche dei governi in loro favore. Si tratta di un paese in cui operano non meno di 400 associazioni pro-Polisario, dove ogni estate 9000 bambini dei campi di Tindouf vanno a passare due mesi nelle famiglie spagnole. Un paese dove celebrità come l’attore Javier Bardem o il regista Pedro Almodovar partecipano a campagne per il diritto all’autodeterminazione del popolo saharawi.

Repressione delle opinioni non conformiste
Niente da fare, il governo spagnolo continua ad essere uno dei più affidabili alleati del regime marocchino. Come si spiega un tale paradosso? Perché la questione del Sahara non è al primo posto dell’agenda politica degli Spagnoli. Per quanto sensibili possano essere alla causa saharawi, quando suona l’ora dei grandi dibattiti dove si assumono le grandi decisioni politiche, vi sono altri temi più importanti sui quali impegnarsi. Se misura del successo è l’assenza di pressioni significative sul Marocco per realizzare il referendum, allora la strategia marocchina funziona. Ma fino a quando? Prima di tutto occorre considerare la statura assunta da alcuni militanti saharawi. Aminatou Haidar, questa militante che ha trascorso degli anni in prigione, dal 1987 al 1992, solo per avere partecipato ad una manifestazione, è diventata la pasionaria della causa saharawi. E’ tornata poi alla ribalta dopo essere stata pestata nel corso delle manifestazioni del maggio 2005 a Laayoune. Questa donna insignita di diversi prestigiosi premi per i diritti dell’uomo, soprattutto negli Stati Uniti e in Spagna, provoca considerevoli danni all’immagine del regime marocchino.  Ella è l’emblema di una nuova generazione, segnata dalle speranze deluse del nuovo regno. Quando sono scoppiate le prime manifestazioni nelle città saharawi, soprattutto Laayoune nel settembre 1999, le rivendicazioni erano di carattere economico e sociale. Mohammed VI reagì positivamente. Pronunciò un “Vi ho capito” alla De Gaulle, silurò un Driss Basri (ministro dell’interno, ndt) detestato dai militanti saharawi e promise nel suo discorso del 6 novembre 1999 la creazione del Consiglio reale consultivo per gli affari del Sahara (CORCAS) i cui membri avrebbero dovuto essere eletti. E tuttavia le promesse di apertura politica sono rimaste promesse. Subito dopo il nuovo regno ha cavalcato l’onda della guerra contro il terrorismo per reprimere le opinioni non conformiste. E quello che doveva succedere è successo. Nel maggio 2005, nuove manifestazioni incendiano Laayoune. Questa volta le rivendicazioni non hanno più carattere economico e sociale, ma politiche. Fanno la loro apparizione le bandiere della Repubblica saharawi. Dopo la repressione, il regime si ricorderà della promessa del CORCAS. Salvo dimenticarsi che i membri avrebbero dovuto essere eletti. Saranno invece designati. Il Consiglio viene concepito per sostenere le posizioni del regime sull’autonomia, non per permettere alle diverse opinioni saharawi di esprimersi e di confrontarsi in un dibattito aperto. Risultato: una generazione di militanti che, pur senza essere legati al Polisario, desidera l’organizzazione di un referendum e, dunque, l’indipendenza.  La distanza che prenderanno alcuni di questi militanti dal Polsario assicurerà loro un maggior ascolto.
Anche se il Marocco è riuscito a mantenere gli Stati che contano nella regione nel suo campo, paga tuttavia un prezzo sempre più elevato. Tanto più che la sua strategia di promozione dei Saharawi favorevoli alla sovranità marocchina marcia sbilenca. Ultimo caso in ordine di tempo, Mohamed Cheikh Biadillah. La carriera politica del segretario generale del Partito dell’autenticità e modernità (PAM)è stata costruita per diventare l’arma assoluta contro la nuova generazione di attivisti indipendentisti saharawi. Appena il PAM è stato creato, i suoi responsabili della comunicazione contattano i media spagnoli per organizzare una sua tournée in Spagna. Il Re lo riceve all’indomani della sua elezione alla testa del PAM. Qualche mese più tardi viene eletto presidente della Camera dei consiglieri in una parodia politica che vede un partito dell’opposizione, il PAM, riuscire ad eleggere il suo segretario generale grazie ai voti dell’Istiqlal, il partito del capo del governo. Infine 2M gli dedica un reportage lo stesso giorno della festa della Marcia Verde dove lo si vede ascoltare il discorso del Re.
E non è solo questo. Quando scoppia il caso del Mouvement alternatif des libertés individuelles (MALI), Mohamed Cheikh Biadillah scrive un articolo per il quotidiano Al Massae che trasuda fascismo… e complottite acuta.  Riassumendo, il segretario generale del PAM pensa che sia in atto un complotto delle lobby omosessuali, evangeliche, di religione bahaista, sostenitrici dell’uso dell’alfabeto tifinagh per scrivere il tamazight, dei militanti del MALI, per appannare l’immagine del processo democratico che il Re è riuscito ad avviare. Non osiamo immaginare che cosa uscirebbe da un dibattito tra Aminatou Haidar e Mohamed Cheikh Biadillah davanti ad un pubblico informato.
Ma comunque il militantismo indipendentista, cosi dinamico e ben confezionato e sostenuto dagli errori dei difensori della causa della marocchinità del Sahara, è per il momento  capace di destabilizzare seriamente la posizione marocchina. Ma cosa succederebbe se certi militanti indipendentisti abbandonassero il pacifismo alla Aminetou Haidar e scegliessero la violenza? L’arma della violenza è a doppio taglio. Essa potrebbe attirare l’attenzione di una comunità internazionale fino a questo momento poco interessata al conflitto. E potrebbe anche screditare il movimento indipendentista. “Siamo stati pazienti – dicono alcuni degli indipendentisti – Almeno dal 1991 non vi sono state azioni violente. Ma il nostro pacifismo non è stato ricompensato. Il mondo capirà se alcuni di noi ricorreranno ad altri mezzi per far sentire la propria voce”. In tal caso il Marocco avrà l’occasione per testare la solidità dei suoi legami con gli alleati. E capirà che magari ha troppo tirato la corda rifiutando ad un tempo sia l’organizzazione di un referendum, che l’offerta di un piano di autonomia credibile, vale a dire nell’ambito di un Marocco che si democratizza.