Stampa



Così muore una delle ultime voci libere del Marocco



di Jacopo Granci


Mercoledì 27 gennaio 2010 è un giorno nero per la libertà di stampa marocchina e non solo. Un giorno di lutto. Il regime di Mohamed VI ha condannato a morte Le Journal Hebdomadaire, il settimanale indipendente fondato da Aboubakr Jamai e Ali Amar nel 2001. Giudicato fin troppo fastidioso dalle autorità, il giornale di Casablanca è stato oggetto di pesanti provvedimenti giudiziari durante tutti i suoi nove anni di attività. Qualche esempio. Nel 2001 pubblica un dossier che accusa il ministro degli Esteri Mohamed Benaissa di appropriazione indebita di denaro pubblico. Il giornale è riconosciuto colpevole di diffamazione e condannato al pagamento di 180 mila euro (ridotti a 45 mila in appello) a titolo di risarcimento, mentre il direttore Aboubakr Jamai e il capo-redattore Ali Amar si vedono infliggere rispettivamente tre e due mesi di carcere. Ma è nel 2006 che matura l’episodio più grave. In seguito alla comparsa di un articolo sul Fronte Polisario, Le Journal Hebdomadaire è accusato di diffamazione ai danni del Centro europeo di studi strategici. Per evitare il pagamento dei 270 mila euro di ammenda, Aboubakr Jamai lascia il settimanale e si trasferisce negli Stati Uniti. Il regime sembra dimenticarsi della multa inflitta al giornale, che nel frattempo vede gli introiti pubblicitari diminuire drasticamente a causa del boicottaggio voluto dal Palazzo. Ma, quando Jamai decide di reintegrare la redazione di boulevard de FAR, questa volta in qualità di editorialista (settembre 2009), ecco che l’interesse della giustizia marocchina si riaccende come d’incanto. In ottobre la Corte suprema conferma la condanna e gli uscieri del tribunale effettuano una prima visita nei locali del settimanale per esigere il pagamento immediato. Si avviano delle trattative, forse favorite dai buoni rapporti intrattenuti da Jamai con il cugino del re Moulay Hicham, che sembrano portare ad un accordo: il risarcimento verrà corrisposto ma in maniera dilazionata. Tuttavia gli editoriali pubblicati nei mesi di novembre e dicembre non risparmiano critiche alla monarchia e alla sua entourage, soprattutto in relazione alla vicenda di Aminatou Haidar, al rimpasto di governo “natalizio” e alle continue violazioni dei diritti umani perpetrate nel paese. Per il regime la situazione diventa intollerabile. E’ ormai giunto il momento di passare all’azione. Oltre alla condanna pronunciata dal tribunale, l’enorme debito (450 mila euro) accumulato negli ultimi anni dalla società editrice Trimedia verso la Cassa di previdenza sociale fornisce l’alibi perfetto alle autorità per ordinare la chiusura del giornale senza prestare troppo il fianco alle accuse delle Ong nazionali e straniere. I sigilli posti ai locali della redazione e il sequestro dei conti bancari di Aboubakr Jamai e Ali Amar sono storia recente.
Così muore una delle ultime voci libere del Marocco. La speranza è di veder rinascere a breve una nuova pubblicazione animata dalla medesima professionalità. Proprio come accadde nel gennaio del 2001, quando Le Journal Hebdomadaire proseguì il lavoro portato avanti fino a quel momento dai “fratelli maggiori” Le Journal e Assahifa. Le due testate, fondate nel 1997 dagli stessi Jamai e Amar, vennero chiuse nel dicembre del 2000, colpevoli di aver “attentato alla sicurezza dello Stato”. In quell’occasione le pressioni internazionali e le reazioni indignate dei principali media europei (soprattutto francesi e spagnoli) favorirono la nascita immediata del nuovo settimanale. Sono passati nove anni da allora. Nove anni in cui il regime ha continuato a sostenere la necessità del cambiamento democratico e del rispetto dei diritti individuali e collettivi. Le parole non bastano e i fatti dimostrano che nel regno alawita il campo delle libertà (in primis la libertà di stampa) si sta inesorabilmente restringendo. In questo senso la fine di Le Journal Hebdomadaire rappresenta l’ultimo importante tassello di una strategia ben più ampia e complessa che, solo negli ultimi mesi, ha portato alla chiusura di altri due giornali indipendenti e alla condanna di nove giornalisti.




Intervista ad Aboubakr Jamai, editorialista di Le Journal Hebdomadaire. Abubakr Jamai è stato fondatore dei settimanali Le Journal e Assahifa nel 1997. Nel 2000 ha fondato Le Journal Hebdomadaire, di cui è stato direttore fino al 2006


Casablanca, 17 novembre 2009


Jacopo Granci: Chi è Aboubakr Jamai? Qual è stato il suo percorso prima di dedicarsi al giornalismo?
Aboubakr Jamai: Ho seguito una formazione economica. Dopo la fine degli studi ho lavorato in una banca commerciale, la Wafa Bank, e poi ho collaborato alla fondazione di una banca d’affari. Nel 1996 sono stato nominato consigliere in materia di comunicazione del Secretariat Exsecutif du Sommet Economique du Moyen Orient e de l’Afrique du Nord. Un’organizzazione creata dopo il Summit Economico di Casablanca del 1994, che aveva il compito di accompagnare lo sviluppo economico dell’area. Ho lasciato l’incarico dopo un anno e mezzo, al momento della nascita di Assahifa e Le Journal (1997), di cui io sono uno dei co-fondatori, assieme ad Ali Amar.

J. G. : Da dove viene l’interesse per il giornalismo, data la sua formazione prettamente economica?
A. J. : Il giornalismo mi ha sempre interessato. Di natura sono curioso. Ho sempre letto la stampa nazionale e, soprattutto, quella internazionale. Credo che tutti i settori siano intrinsecamente legati tra loro. Non si può separare l’economia dalla politica, così come non si può separare la politica dal giornalismo. E in più sono cresciuto, fisicamente intendo, in un contesto giornalistico. Mio padre, Khalid Jamai, ha lavorato a lungo per il quotidiano L’opinion, di cui è stato anche capo-redattore (ora ha una rubrica settimanale Chronique, su Le Journal Hebdomadaire).

J. G. : Che cosa aveva in mente con la creazione de Le Journal?
A. J. : Le Journal si è inserito nello spazio di apertura democratica promosso a gran voce a metà degli anni novanta. Assieme ad Ali Amar ci siamo detti che era quello il momento migliore per fondare un giornale, o meglio ancora, un polo giornalistico che comprendesse un quotidiano e un settimanale, in versione francofona e arabofona. Lo Stato si stava aprendo, stava allentando la morsa che per trent’anni aveva impedito il pluralismo nel Paese.
Il nostro modello era il gruppo Prisa, il gruppo di cui fa parte El Pais. Il quotidiano spagnolo venne fondato nel 1976, dopo la morte di Franco e l’inizio del cammino democratico. Avevamo questa idea in testa. Volevamo ripercorrere quella stessa strada.

J. G. : Nel 2000 Le Journal scompare, come pure Assahifa, e viene fondato Le Journal Hebdomadaire. Che cosa è successo?
A. J. : Per capire quanto successo nel 2000, bisogna prima prendere in esame il contesto e poi il fatto in sé. Il Marocco, già durante gli ultimi anni di Hassan II, ha intrapreso un cammino di apertura. Non dico di democratizzazione, ma di piccole riforme. Lo dimostrano le nostre pubblicazioni del tempo. Abbiamo osato cose oggi impensabili. Più di una volta abbiamo messo in copertina Ben Barka, addirittura Serfaty, ben prima del suo ritorno in patria, quando ancora era proibito anche solo parlarne. Abbiamo chiesto pubblicamente il licenziamento di Driss Basri quando ancora era ben saldo nella sua poltrona di Gran vizir.  Le Journal si è dato una missione precisa: esercitare un controllo mediatico, un controllo critico, su tutte le elite che partecipano alla gestione del Paese.
Pensavamo che il nuovo Re proseguisse sulla strada della riforma e dell’apertura, ma ci siamo sbagliati. Nel 2000, ad un anno dall’ascesa al trono di Mohamed VI, ci siamo accorti che il monarca non aveva alcuna volontà di dare seguito alle sue promesse di democratizzazione. Non per questo abbiamo rinunciato alla nostra linea editoriale. Risultato: la morte del giornale. Ci hanno fatto chiudere i locali due volte in quell’anno, con una semplice circolare proveniente dal Ministero dell’Interno, dunque senza nemmeno un processo o un qualunque accertamento giudiziario. La prima volta in aprile, in via provvisoria, dopo la pubblicazione dell’intervista a Mohamed Abdelazziz (leader del Fronte Polisario). La seconda il 2 dicembre, questa volta in via definitiva.
Dopo la chiusura di Le Journal e Assahifa, ho chiesto immediatamente l’autorizzazione per la creazione di un nuovo giornale. Senza successo. Di fronte ad un rifiuto ingiustificato da parte delle autorità ho iniziato uno sciopero della fame, che per mia fortuna è durato solo due giorni. La stampa internazionale si è mobilitata attorno al nostro caso, così come le associazioni per i diritti umani. La buona fede e le promesse di Mohamed VI iniziavano ad essere messe in dubbio, ed il regime ha dovuto concederci l’autorizzazione. Così è nato Le Journal Hebdomadaire.

J. G. : Qual è stato l’atteggiamento del regime verso Le Journal Hebdomadaire?
A. J. : La monarchia ha mantenuto la stessa ostilità dimostrata nei confronti di Le Journal. Per spiegare meglio quello che è successo dal 2000 in poi le darò delle cifre. Lei sa bene che un giornale non vive di sole vendite. La fonte primaria per la sua sopravvivenza sono gli introiti pubblicitari. Il budget pubblicitario raccolto da Le Journal Hebdomadaire è crollato dell’80% nel 2001. In un solo anno. Se oggi lei sfoglia Le Journal Hebdomadaire e Tel Quel (altro settimanale indipendente) può capire la differenza. Diciamo che alcuni sono un po’ più accettati rispetto ad altri. Le aziende direttamente legate al Palazzo, come Royal Air Maroc o Maroc Telecom, hanno rinunciato ad inserire le loro pubblicità nel nostro giornale.
Le faccio un altro esempio. Nel 2001 sono stato condannato a tre mesi di carcere, ed il giornale è stato costretto a pagare 45 mila euro di ammenda. Il 1999, l’ascesa al trono di Mohamed VI era dietro l’angolo. Il nuovo regime, fin dall’inizio, ha testato su di noi la nuova strategia di repressione, che ha poi interessato Demain e Doumane di Ali Lmrabet, e in maniera più leggera Tel Quel.

J. G. : Come si è arrivati alla promulgazione del Codice della Stampa?
A. J. : Il Codice della Stampa è stato introdotto in seguito alla vicenda che nel 2000 ha coinvolto Le Journal e Assahifa. Fino a quel momento la libertà di espressione nel Paese era regolata da un vecchio dahir (decreto reale) del 1958. I due giornali, quando il regime li ha condannati a morte, stavano vivendo uno strano fenomeno, a tratti incomprensibile anche per noi che ci lavoravamo. Le vendite erano cresciute tantissimo, avevamo raggiunto un elettorato ampio e composito a livello sociale. C’era un grande interesse attorno ai nostri articoli e alle nostre inchieste. Evidentemente, la gente credeva nel cambiamento. Poi è arrivata la condanna. E quelle stesse persone, che ogni settimana ci leggevano, hanno iniziato a domandarsi: “ma se il Re vuole veramente la democrazia, perché ha fatto chiudere Le Journal?”. La monarchia, volendo preservare la sua immagine, si è nascosta dietro a Youssoufi e ha scaricato le sue responsabilità sul Primo ministro. Il governo, a sua volta, si è difeso dicendo di aver semplicemente seguito la legge. Così, per dimostrare la buona volontà del regime, Mohamed VI ha promesso nuove leggi più liberali. Il risultato è stato il Codice della Stampa, approvato nel 2003. Ma le leggi che contiene non sono affatto liberali, piuttosto le definirei liberticide. L’ennesimo inganno di Mohamed VI.

J. G. :
Con il codice sono comparse anche le famose “linee rosse”?
A. J. : Sì, sono sancite dall’articolo 41. Prima non esistevano. La monarchia, con la scusa di promuovere un avanzamento in campo giuridico, ha creato una trappola mortale per chiunque voglia tentare di fare un giornalismo obiettivo e senza compromessi.

J. G. : Quali sono questi limiti da non oltrepassare?
A. J. : E qui arriviamo al nocciolo del problema. Inserire un articolo che punisce ogni offesa al Re e alla famiglia reale, ogni offesa alla religione islamica, alla forma monarchica dello Stato e all’integrità territoriale, che cosa vuol dire? Difendere i diritti di chi non crede significa attaccare l’islam? Denunciare le false promesse monarchiche significa offendere il Re? E soprattutto, chi deve stabilirlo? Dei giudici corrotti, manovrati direttamente dal monarca. Hanno lasciato campo libero all’interpretazione dei giudici, un’interpretazione che non segue alcuna logica giuridica, ma che varia a seconda dei bisogni di sua maestà e del clima politico che si respira nel Paese.

J. G. : In che modo l’articolo 41 condiziona il vostro lavoro?
A. J. :  Le Journal Hebdomadaire non ha mai accettato l’imposizione delle “linee rosse” e ancor meno l’ambiguità che le accompagna. Nel nostro lavoro abbiamo deciso di non scendere mai a compromessi. Con i nostri articoli non facciamo altro che testare, ogni settimana, i confini di queste linee. La nostra sola arma è la professionalità. Fare un buon giornale, andare fino in fondo. Se veniamo condannati per questo, ci sottomettiamo al volere di una giustizia ingiusta e corrotta, consapevoli di essere sulla strada giusta. Quando Le Journal Hebdomadaire è stato portato in giudizio, non ha mai chiesto perdono al Re, non ha mai fatto appello alla sua grazia o alla sua clemenza. Cedere ad un simile ricatto e a una simile umiliazione, significherebbe tradire i principi per cui ci battiamo.

J. G. : Oltre all’articolo 41, quali altre parti del Codice giudica lesive nei confronti della libertà di stampa?
A. J. : Non ricordo gli articoli precisi, ma in generale tutta la parte che riguarda i reati di diffamazione deve essere assolutamente rivista. Tutti gli articoli che prevedono la detenzione per i giornalisti devono essere cancellati. Non sono degni di un Paese che ha ancora il coraggio di definirsi democratico. Corresponsabilizzare, poi, coloro che stampano e distribuiscono i giornali per quello che in essi viene pubblicato, rappresenta un altro ostacolo insidioso alla libertà di stampa. Significa assegnare a queste figure un potere discrezionale sulla linea editoriale. Se non sono d’accordo con quello che hai scritto possono rifiutarsi di distribuire il tuo giornale o di stamparlo”.

J. G. : Dopo nove anni di attività una sentenza del tribunale vi costringe a versare 3 milioni di dirhams di risarcimento al Centro Europeo di Studi Strategici. Ancora una volta è un articolo sul Fronte Polisario a scatenare la repressione. Anche Le Journal Hebdomadaire, come già Le Journal, finirà sacrificato in nome della sicurezza dello Stato?
A. J. : Le Journal Hebdomadaire potrà sopravvivere alla multa che gli è stata inflitta. Abbiamo trovato un sistema legale che ci permetterà di dilazionare il pagamento, senza che intervenga il sequestro dei beni minacciato dall’autorità giudiziaria. Pagheremo, ma almeno continueremo a fare il nostro lavoro. D’altronde abbiamo rinunciato alla speranza di fare soldi, di guadagnare con la nostra attività. Non abbiamo più ambizioni di prosperità economica. I nostri introiti attuali ci permettono giusto di pagare i salari e i costi di stampa e distribuzione del giornale. La poca pubblicità che ci resta e gli incassi delle vendite servono a questo. Abbiamo capito che l’essenziale è permettere la sopravvivenza del nostro spirito critico. Vediamo che questo irrita il potere, quindi sappiamo di essere nella strada giusta. Se per proseguire dobbiamo rinunciare ai guadagni che un tempo, forse, sarebbero stati possibili, siamo pronti a farlo.

J. G. :
Lei ha parlato di un clima repressivo che ha accompagnato tutti i dieci anni di regno di Mohamed VI. Non trova che negli ultimi mesi questa attitudine abbia subito una brusca accelerazione?
A. J. : Quello che è successo negli ultimi mesi si inscrive nella stessa dinamica di quanto già visto nei dieci anni precedenti. Mohamed VI non ha mai rinunciato ad attaccare i giornali indipendenti. Tuttavia il 2009 ha registrato un innegabile inasprimento della repressione. Mettendo in prigione Chahtane (direttore di Al Michaal) e maltrattandolo in carcere, costringendo Akhbar Al Youm alla chiusura con la scusa di una banale caricatura, il Palazzo ha voluto lanciare un messaggio: siamo noi a comandare e chi continua a metterci i bastoni fra le ruote la pagherà cara. E’ finito il tempo delle critiche e delle insubordinazioni. In più, la chiusura di Akhbar Al Youm è totalmente illegale. Non c’è nessuna legge che la autorizzi. E’ come se il regime dichiarasse: da adesso in poi la legge siamo noi. Quello che stabiliamo, indipendentemente dai codici in vigore, è legge. Quanto hanno fatto a Bouachrine e al suo giornale deve servire da esempio.




MAROCCO. COSA SUCCEDE ALLA STAMPA INDIPENDENTE?



Novembre 2008 - Si chiude un anno nero per la stampa indipendente marocchina. Un giornale è stato chiuso e molti altri sono stati duramente colpiti dai processi voluti dal regime, sempre più repressivo e intollerante di fronte alle critiche. La strategia del potere rischia di mettere fine al dibattito pubblico nel Paese.


La Tours des Habous svetta imponente a metà della avenue des Forces Armées Royales. Il centro di Casablanca brulica di traffico. Caotico, rumoroso, prepotente. L’ascensore si ferma al 15° piano. Sono in anticipo. Mi affacciato alla finestra e fumo la prima sigaretta della giornata, mentre il mio sguardo si perde nella selva metallica che popola il porto della città. Cataste di container giacciono ammucchiate sui moli, in attesa di essere imbarcate verso una destinazione ancora sconosciuta. In lontananza spunta pallido dalla foschia atlantica il minareto della moschea Hassan II.
Alle dieci in punto faccio il mio ingresso nella redazione di Le Journal Hebdomadaire. Il settimanale, fondato nel 2000 da Abubakr Jamai e Ali Amar, è uno degli ultimi baluardi della stampa indipendente marocchina. Il giro di vite impresso recentemente dal regime non ha risparmiato neanche lui. Una condanna per diffamazione, arrivata a quattro anni dall’inizio del processo, rischia di portarlo alla chiusura. E’ proprio Abubakr Jamai, oggi editorialista del giornale, a guidarmi nei piccoli e modesti locali della redazione. Non nasconde la sua preoccupazione per i risvolti assunti dal “dossier presse” nel 2009. I processi, le condanne e gli arresti comminati da una giustizia fin troppo vicina al Palazzo reale hanno seriamente pregiudicato la libertà di informazione nel Paese.

In ottobre l’apice della repressione
Lunedì 30 ottobre si è concluso il processo ad Akhbar Al Youm. Il verdetto è pesante. Taoufiq Bouachrine, direttore del giornale, e Khalid Gueddar, caricaturista, sono condannati a quattro anni di carcere e 5 mila euro di multa, oltre a un risarcimento di 270 mila euro da versare al Principe Moulay Ismail. A scatenare questo inferno una caricatura che ritrae il cugino del Re, pubblicata dal quotidiano nel numero del 28 settembre scorso. Il disegno, secondo la giustizia marocchina, ha violato l’articolo 41 del codice della stampa e l’articolo 267 del codice penale. I due giornalisti sono ritenuti colpevoli di mancato rispetto ad un membro della famiglia reale e di oltraggio alla bandiera nazionale. Il tribunale di Ain Sebaa ha anche decretato la chiusura definitiva del giornale, dopo che i suoi beni erano già sotto sequestro da trentatre giorni per ordine del Ministro dell’Interno.
“Non è certo una semplice caricatura, neanche troppo irriverente, ad essere finita sotto accusa”, commenta Abubakr Jamai. Il quotidiano di Bouachrine non era sostenuto da alcun partito, né da alcun personaggio influente. E’ riuscito a sopravvivere grazie alle vendite, al finanziamento di qualche raro annuncio pubblicitario e alla professionalità dei suoi giornalisti, che hanno svolto il loro lavoro senza scendere a compromessi. “Era questa la sua unica colpa, il suo peccato originale - conclude lo stesso Jamai – e la punizione che gli è stata inflitta deve servire da esempio”.
La condanna di Akhbar Al Youm non è che l’ultimo di una serie di colpi inferti alla stampa indipendente nel 2009. Solo in ottobre sono state pronunciate quattro sentenze contro Al Michaal, Al Jarida al Oula, e Le Journal Hebdomadaire. Nemmeno i giornali stranieri che hanno dato risalto alla vicenda sono sfuggiti alla censura del governo. Il 22 ottobre Le Monde ha pubblicato in prima pagina una vignetta di Plantu giudicata irrispettosa dal ministro della Comunicazione Khalid Naciri. Le 50 mila copie arrivate in Marocco non sono mai state messe in vendita. Stessa sorte è toccata a El Pais il 25 ottobre. Due giorni dopo Reporters sans frontieres si è vista negare all’ultimo momento l’autorizzazione per una conferenza stampa in un hotel di Casablanca. Il Segretario Jean-François Julliard, già in loco, ha chiesto spiegazioni alle autorità, senza ottenere risposte. Rabat ha dichiarato guerra all’organizzazione da quando il Marocco è stato retrocesso al 127° posto nella classifica per la libertà di stampa. Un risultato deludente per un Paese che aspira a definirsi democratico. Secondo Khalid Jamai, collaboratore a Le Journal Hebdomadaire, è un dato che non deve sorprendere. “Siamo governati da una monarchia assoluta, dove il Re dispone di tutti i poteri. I membri del governo sono funzionari esecutivi sotto alta sorveglianza e i giornalisti niente più che prigionieri in libertà provvisoria”.

Le promesse disattese di Mohamed VI

Negli anni novanta il Paese aveva mosso i primi passi verso una riforma istituzionale in senso democratico. Hassan II si era lasciato alle spalle la repressione feroce degli anni di piombo e aveva concesso aperture sul piano economico e politico. In questo clima sono nati i primi giornali indipendenti, le prime pubblicazioni a sfuggire al controllo del Palazzo e dei partiti. “La società e il regime hanno siglato una sorta di patto non scritto”, spiega Abubakr Jamai: in cambio di riforme democratiche, le elite uscite dalla transizione liberale si impegnavano a non mettere in discussione la legittimità monarchica. Tuttavia l’arrivo al trono di Mohamed VI nel 1999, pur accompagnato da grandi speranze e da dichiarazioni solenni, non ha segnato alcun passo decisivo in questa direzione. Al contrario la monarchia ha ribadito il suo primato sull’esecutivo, sull’apparato giudiziario e sulla sfera religiosa. “Il nuovo Sovrano non ha mantenuto la parola – continua il giornalista – e i media indipendenti hanno denunciato il suo voltafaccia”.
Di fatto Mohamed VI non ha mai accettato l’apertura di un vero dibattito pubblico. Lo dimostrano le violazioni della libertà di stampa che hanno caratterizzato ogni singolo anno trascorso dalla suo insediamento. Quanto visto negli ultimi mesi costituisce un cambiamento quantitativo e non certo qualitativo della strategia del regime. A tal proposito è sufficiente ricordare alcuni degli episodi più gravi registrati nell’ultimo decennio. Nel 2000 il Ministero dell’Interno ordina la chiusura definitiva di Assahifa, Le Journal e Demain. Sotto accusa due tra le voci più critiche della stampa marocchina, Abubakr Jamai, al tempo direttore di Assahifa e capo-redattore a Le Journal, e Ali Lmrabet, direttore di Demain. Un anno dopo Le Journal Hebdomadiare è condannato al pagamento di 70 mila euro di multa per aver pubblicato un’intervista a Muhammad Abdelazziz, leader del Fronte Polisario. Nel 2003 entra in vigore il codice della stampa. Un passo indietro rispetto alle leggi che regolavano fino a quel momento la libertà di espressione nel Paese. Nello stesso anno Ali Lmrabet è condannato a tre anni di reclusione per oltraggio al Re, attacco all’integrità territoriale e al regime monarchico. La sua nuova rivista Doumane scompare dalle edicole. Graziato nel 2004, Lmrabet finisce di nuovo sotto processo nel 2005. La sentenza: divieto di esercitare l’attività giornalistica per dieci anni all’interno dei confini nazionali. Nell’agosto dello stesso anno il settimanale Tel Quel è accusato di diffamazione e condannato a pagare 100 mila euro di ammenda, mentre nel 2007 un numero della stessa rivista finisce sotto sequestro per la presenza di un articolo irrispettoso nei confronti del Sovrano. In totale, secondo una stima fatta da Reporters sans frontières, dal 1999 ad oggi i verdetti pronunciati dalla giustizia marocchina hanno inflitto ai media indipendenti quaranta anni di carcere e oltre un milione di euro, tra multe e risarcimenti.

Un futuro a rischio

All’inizio del suo regno Mohamed VI doveva dar prova all’opinione pubblica delle sue convinzioni moderne e progressiste. Doveva acquisire credibilità sul piano internazionale. Oggi, dopo dieci anni di solido dominio, non sembra più manifestare questo bisogno. Il monarca gode dell’appoggio incondizionato del governo americano, di Sarkozy e perfino di Zapatero. La sua influenza riesce a condizionare tutti i centri nevralgici del Paese, sia quelli finanziari, risucchiati nella morsa del clientelismo, che quelli politici. “I grandi partiti un tempo all’opposizione sono stati addomesticati, fanno ormai parte del sistema”, confessa Abubakr Jamai. Dalla tribuna parlamentare non si leva più alcuna voce critica alla politica del Sovrano. Anche il partito islamico, dopo gli attentati che hanno colpito Casablanca nel maggio 2003, ha assunto toni decisamente concilianti. Solo i giornali indipendenti sono riusciti a colmare questo vuoto. Alle autorità non rimane che mettere a tacere gli ultimi fautori del dissenso.
Dal canto loro le associazioni per i diritti umani continuano a sostenere la battaglia in difesa del pluralismo. “Il Palazzo deve smettere di considerare i giornalisti come dei nemici” - ha dichiarato Khadija Ryadi, Presidente dell’Associazione Marocchina per i Diritti dell’Uomo - “piuttosto dovrebbe riconoscere il ruolo fondamentale che rivestono per la democratizzazione del Paese”. Ma è proprio questo il punto. Ormai la transizione democratica non è più una priorità per Mohamed VI e sembra interessare ancor meno le potenze occidentali, che si sono accontentate delle riforme concesse in campo economico.
La pioggia di condanne abbattutasi sui media indipendenti negli ultimi mesi non è di buon auspicio per Le Journal Hebdomadaire e compagni. Tutto lascia presagire che questa volta il regime andrà fino in fondo. Le leggi restrittive approvate nel 2003 e una giustizia prona agli umori del Palazzo non sono le uniche armi a sua disposizione. Abubakr Jamai lamenta il boicottaggio a cui è sottoposto il suo giornale: “basta una telefonata per convincere gli imprenditori a ritirare le inserzioni pubblicitarie dalle nostre pagine”. Il fenomeno coinvolge tutte le pubblicazioni più scomode, che faticano a trovare le risorse per sopravvivere. Tuttavia una minaccia ancor più pericolosa rischia di comprometterne il futuro. Gli uomini d’affari vicini alla famiglia reale stanno mettendo le mani sulle maggiori imprese di distribuzione della stampa nazionale. Se il regime riuscirà ad avere il monopolio nel settore, potrà reprimere i giornali che ancora sfuggono al suo controllo senza più ricorrere ai giudici e senza esercitare pressioni sul mercato pubblicitario. Avrà l’ultima parola su tutto quello che viene scritto e pubblicato nel Paese. Per la stampa indipendente sarà la fine.

Gli attacchi alla stampa indipendente nel 2009
Tel Quel. La polizia di Casablanca blocca la pubblicazione (1° agosto) del settimanale. Per ordine del Ministero dell’Interno tutte le copie sono distrutte. Contenevano un sondaggio realizzato in collaborazione con Le Monde sui primi dieci anni di Regno di Mohamed VI. Anche il quotidiano francese viene censurato (4 agosto).
Le Journal Hebdomadaire. La corte di cassazione (30 settembre) conferma la condanna di Abubakr Jamai, colpevole di diffamazione, al pagamento di 300 mila euro di risarcimento nei confronti del direttore dell’ESICS (Centro europeo di ricerca e analisi strategica). Dopo la sentenza i conti bancari del settimanale sono finiti sotto sequestro dell’autorità giudiziaria.
Al Michaal. Il direttore Driss Chahtane è condannato a un anno di reclusione (15 ottobre) e mille euro di ammenda per aver pubblicato notizie giudicate false in merito allo stato di salute del Re. Stessa accusa e tre mesi di reclusione per altri due giornalisti. Lo stesso Chahtane è condannato (26 ottobre) a tre mesi di carcere con l’accusa di diffamazione e ingiurie nei confronti di una zia di Mohamed VI. (condanne già confermate in appello).
Al Jarida Al Oula. Il direttore Ali Anouzla è condannato (29 giugno) al pagamento di 10 mila euro di ammenda e 100 mila euro di risarcimento al leader libico Gheddafi dopo che il tribunale di Casablanca l’ha riconosciuto colpevole di attacco alla dignità di un Capo di Stato straniero. Lo stesso Ali Anouzla è condannato (26 ottobre) ad un anno di reclusione e mille euro di multa per diffusione di notizie false sullo stato di salute del Re.
Economie et Entreprises. Il giornale è condannato a versare 550 mila euro (30 giugno) di ammenda, colpevole di diffamazione, nelle casse di una holding legata alla famiglia reale e dell’ONCF, la società nazionale che gestisce la rete ferroviaria.
Al Ahdath Al Maghribiya. I giornalisti Mohamed Brini e Mokhtar Laghzioui sono condannati (29 giugno) al pagamento di 10 mila euro di ammenda e 100 mila euro di risarcimento al leader libico Gheddafi dopo che il tribunale di Casablanca li ha riconosciuti colpevoli di attacco alla dignità di un Capo di Stato straniero.


Un codice della stampa liberticida

Articolo 29. L’ingresso in Marocco dei giornali stranieri può essere vietato dal Ministro della Comunicazione o dal Primo Ministro, se questi costituiscono un attacco alla religione islamica, al regime monarchico, all’integrità territoriale, al rispetto dovuto al Re o un pericolo  per l’ordine pubblico.
Articolo 41. Ogni offesa verso il Re o un membro della famiglia reale è punita con l’arresto da 3 a 5 anni e con una multa da mille a 10 mila euro. La stessa pena è prevista se l’attacco è diretto alla religione islamica, al regime monarchico o all’integrità territoriale. La condanna può prevedere anche la sospensione temporanea della pubblicazione o addirittura il divieto definitivo.
Articoli 44-51. Stabiliscono pene severe, compreso il carcere, per chi viene riconosciuto colpevole di diffamazione.
Articolo 52. L’offesa commessa contro i Capi di Stato, i capi di governo, e i ministri degli esteri di Paesi stranieri è punita con l’arresto da un mese ad un anno e con una multa da mille a 10 mila euro.
Articolo 77. Il Ministro dell’Interno può ordinare, con decisione motivata, il sequestro di ogni pubblicazione che costituisca un pericolo per l’ordine pubblico o un attacco alla famiglia reale, alla religione islamica, al regime monarchico o all’integrità territoriale.