Stampa






L’Authentique, 5 settembre 2012 (trad. Ossin)


Libertà provvisoria per i detenuti dell’IRA
Cheikh Aidara


Biram Ould Dah Ould Abeid e i suoi sei compagni d’infortunio sono usciti di prigione lunedì 3 settembre scorso in libertà provvisoria concessa dalla Procura della Repubblica su richiesta dei loro avvocati. Lo stato di salute sempre più precario del presidente dell’Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (IRA) e di alcuni altri sarebbe stata la ragione invocata dagli avvocati che sottolineano tuttavia “ che la scarcerazione è conseguente all’annullamento pronunciato dalla Corte Criminale di tutti gli atti istruttori”. Il nostro reporter era sul posto al momento della scarcerazione davanti alla prigione civile di Nouakchott. Reportage.


Lunedì 3 settembre 2012, ore 17.
Una folla densa si stringe sul marciapiede tra la grande moschea Ibn Abass e la prigione civile di Nouakchott. Uomini e donne eccitati attendono da ore l’istante magico in  cui il presidente dell’Initiative de résurgence du mouvement abolitionniste (IRA), Biram Ould Dah Ould Abeid e i suoi compagni, la notizia della cui liberazione ha fatto il giro del paese, oltrepassino la soglia del muro di cinta rigidamente sorvegliato da una unità della Guardia nazionale. Il servizio d’ordine della manifestazione è svolto dai militanti dell’IRA, che hanno dato la consegna di non oltrepassare i confini dello spazio assegnato.

Di tanto in tanto qualche impetuoso supera la linea di demarcazione, provocando l’intervento verbale degli uomini della Guardia nazionale e quello fisico del servizio d’ordine. Arrivano dei giornalisti, gli occhi attenti, telecamera in pugno, microfono e borsa a tracolla. Passano le ore. Ogni tanto un’auto si ferma per informarsi delle ragioni dell’assembramento. “Stanno per liberare Biram”, gridano invariabilmente i militanti super-eccitati. Balla Touré, Mohamed Ould Bilal, e altri quadri dell’IRA passeggiano, col telefono attaccato alle orecchie. Arrivano gli avvocati, uscendo dalla prigione. Subito un nugolo di giornalisti li circonda, coi microfoni tesi e riempendo lo spazio di flash accecanti. “Ritengo che la libertà provvisoria concessa ai nostri clienti sia conseguenza della decisione presa dalla Corte Criminale che aveva annullato tutti gli atti dell’istruttoria”, dichiara Me Bah Ould MBareck, uno degli avvocati.


Passano le ore e la folla continua ad aumentare. Straripa, in fila indiana e si estende oltre gli uffici della Dogana.


L’uscita

Verso le 19, finalmente Biram e i suoi amici escono. Il presidente dell’IRA ha un aspetto devastato, effetto della malattia che ha contratto in carcere, da più di quattro mesi. I suoi compagni non sembrano a disagio.  L’aria è rotta da un crescendo di you-you, colpi di clacson e applausi. Il servizio d’ordine improvvisato fa fatica a contenere tutta la massa. Abbracci, scrosci di lacrime, congratulazioni…

Un attimo, il tempo si ferma. Una emozione incommensurabile riempie la scena. Qualcuno cade in trance: “Biram, tu sei un messia!” grida un militante elettrizzato. Tutta la speranza che quest’uomo rappresenta per migliaia di Neri assetati di libertà, uguaglianza, dignità e giustizia, traspare in questo magico istante.
Un Corano tra le mani, vestito del suo “boubou” (abito tradizionale mauritano, ndt), Biram viene sollevato da molte mani e sistemato in un’auto. I giornalisti danno di gomito per avvicinarsi. Una breve dichiarazione, raccolta in un silenzio quasi assoluto: “Sono entrato in prigione con un libro del Corano tra le mani e ne sono uscito con esso; ho fatto il voto che se fossi uscito di prigione sarei andato a piedi nudi a casa mia e avrei pregato nello stesso posto dove avevo fatto la mia ultima preghiera del venerdì e vissuto i miei ultimi istanti di libertà; parlerò con la stampa solo quando sarò giunto a destinazione”. Biram pensa che lui e i suoi amici siano stati protetti da Allah nel momento in cui molti avevano loro voltato le spalle.


In marcia
Incurante dei consigli dei suoi sostenitori che lo supplicavano di rinunciare al suo progetto, Biram Ould Dah, conosciuto per i suoi colpi di testa e il gusto  della sfida, comincia il suo cammino a piedi. E la folla si mette in moto con lui in una nuvola di polvere e un chiasso di grida verso PK10. Decine di chilometri che il nuovo idolo degli Haratin non riesce a completare, indebolito dalla sua lunga malattia in prigione. Con una dichiarazione appena udibile, tanto le grida coprono la sua voce e tanto è emozionato, Abidine Ould Maatalla, braccio destro di Biram, sussurra in un microfono teso da un giornalista, mentre abbraccia la sorella: “Posso solo dire: hasbouna lah wa nimal wakil”, più o meno letteralmente: “Mi rimetto  Dio, il rifugio misericordioso”. Biram riesce a fare solo quattro chilometri. La sua salute debole non gli permette di completare il percorso. Già le gambe non lo reggono più. Viene trasportato in un’auto e raggiunge la moglie e tre guardie del corpo. Solidale con la folla che lo accompagna, agita le mani dietro la portiera in direzione della gente che si affolla lungo tutto il percorso. Uno straniero di passaggio, vedendo questo corteo di auto e la foresta di piedi in cammino, si sarebbe stupito e certamente avrebbe scambiato Biram per un capo di stato o un alto dignitario. “Biram non è né l’uno né l’altro - secondo un suo ammiratore – è solo un difensore dei diritti dell’uomo che ha saputo costruire la sua fama, sul piano nazionale e internazionale, grazie alla sua abnegazione, ma soprattutto alla sincerità della sua lotta e alla giustezza del suo pensiero”. Considerato dai suoi detrattori come un esaltato, o un pericolo per le coscienze, il suo Popolo vede in lui un liberatore. Un Messia.


Lungo tutto il percorso, centinaia di uomini e donne gridano entusiasti al passaggio di questo “monarca africano”, che riceve in questo modo una consacrazione di quelle che molti politici sognano.


“Brucia, brucia, Biram”, scandiscono decine di partigiani estasiati. Fanno allusione all’incendio di Ryad da lui effettuato e che gli è valso, a lui e ai suoi amici, tutta la sofferenza di questi quattro mesi di prigione.


Questa libertà provvisoria, che la Procura di Nouakchott ha appena concesso a Biram e ai suoi compagni è considerata da molti dei suoi sostenitori come una di quelle vittorie che si assaporano una sola volta in un secolo. Dopo avere osato attaccare i punti di riferimento locali del rito malechita e dopo avere vinto contro tutto il clero che aveva chiesto l’applicazione della pena di morte, essi credono che Biram sia diventato qualcosa di più di un personaggio pubblico, uno Sceicco o un Guru, che somministra ai suoi discepoli le vere regole del vero islam. Quello che vieta la schiavitù in ogni forma e riabilita l’uomo come essere libero nella sua essenza. Risuona la famosa frase del secondo Califfo Omar ibn Khattab, quando rimproverando uno dei suoi governatori gli chiese: “Da quando osate ridurre le persone in schiavitù, mentre esse sono nate libere?”

Lunedì scorso Biram non ha bruciato libri, ma il cuore di centinaia di sostenitori che si sono infiammati di felicità. Per qualcuno anche questa è stata una delle sue “Biramerie” che infastidiscono i guardiani del tempio e fanno estasiare le migliaia di fan.


Alle onomatopee impossibili da ripetere con cui hanno subissato il leader degli Haratin, risponde una pioggia di invettive lanciate contro il presidente Ould Abdel Aziz e il suo sistema.

Non solo Biram con la sua marcia ha fatto qualcosa di nuovo, perché a memoria dei Mauritani nessun detenuto prima di lui ha battuto l’asfalto dalla prigione fino a casa sua, ma lo ha fatto senza scarpe, dimostrando le sue grandi capacità nel marketing della comunicazione. Resta da vedere se l’uomo indebolito che è uscito di prigione manterrà la stessa verve per dare risposte alla speranza straordinaria che riesce a suscitare.