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The Vineyard of the saker, 15 ottobre 2014 (trad. Ossin)


Israele e Gaza: la politica del fatto compiuto

Noam Chomsky


Il 26 agosto, Israele e l’Autorità palestinese hanno firmato un accordo di cessate il fuoco, dopo un attacco israeliano di 50 giorni su Gaza, attacco che ha provocato 2.100 morti palestinesi e che ha lasciato dietro di sé un disastro ambientale.

L’accordo prevede la cessazione delle azioni militari di Israele e di Hamas, oltre ad un ammorbidimento del blocco israeliano, che strangola la striscia di Gaza da molti anni.

Si tratta però solo dell’ultimo di una serie di accordi di cessate il fuoco, firmato, come tutte le volte precedenti, al termine di una delle ricorrenti escalation di Israele nel corso della sua continuata aggressione contro Gaza.

Dal novembre 2005, i termini di questi accordi sono più o meno sempre simili. L’abituale modo di fare di Israele è di non tenere in alcun conto gli accordi stipulati, mentre Hamas li rispetta (come anche Israele ha riconosciuto) fino a quando una nuova esacerbazione della violenza israeliana non provoca una sua risposta, a sua volta seguita da una risposta ancora più feroce.

Queste escalation, nel gergo israeliano, vengono chiamate “tagliare l’erba”. L’ultima è stata definita, con ancora maggiore precisione, con l’espressione “rimuovere il terreno”, come ha spiegato un ufficiale superiore dell’esercito USA citato da Al-Jaazera America.

Il primo di questa serie di accordi fu quello sui movimenti e l’accesso, firmato nel novembre 2005, tra Israele e l’Autorità palestinese. Esso prevedeva:

1.    Un punto di passaggio tra Gaza e l’Egitto a Rafah, per l’esportazione delle merci e il transito delle persone;
2.    Dei punti di passaggio tra Israele e Gaza per le merci e le persone;
3.    La riduzione degli ostacoli alla circolazione in Cisgiordania;
4.    Convogli di autobus e di camion tra la Cisgiordania e la striscia di Gaza;
5.    La costruzione di un porto marittimo a Gaza, e la riapertura dell’aeroporto di Gaza, distrutto dai bombardamenti israeliani.

Le parti erano giunte a questo accordo poco dopo che Israele aveva ritirato i suoi coloni e le sue forze militari da Gaza. Il motivo di questo disimpegno è stato spiegato da Dov Weisglass, un confidente del Primo Ministro dell’epoca, Ariel Sharon, che si occupò del negoziato e della messa in opera dell’accordo:

“La conseguenza del disimpegno è il congelamento del processo di pace”, ha detto Weisglass a Haaretz, “E congelando questo processo, si impedisce la costruzione di uno Stato palestinese, e ogni discussione sui rifugiati, le frontiere e Gerusalemme. Di fatto, questo insieme chiamato Stato palestinese, con tutto ciò che comporta, è stato definitivamente cancellato dalla nostra agenda. E tutto ciò col consenso delle autorità, con la benedizione presidenziale (statunitense) e la sua ratifica, sia da parte della Camera dei rappresentanti che del Congresso”.
“Il disimpegno è messo in formalina”, ha aggiunto. “Ha fornito una quantità sufficiente di formalina perché non vi siano più negoziati politici coi Palestinesi”.

Questo schema è proseguito fino ad oggi: attraverso l’operazione “Piombo fuso” del 2008-2009, “Pilastro di difesa” del 2012 e “Bordo protettivo” questa estate, l’operazione più spinta in materia di “taglio d’erba” (almeno per il momento).

Per più di 20 anni, Israele ha tentato di separare Gaza dalla Cisgiordania, in violazione degli accordi di Oslo, che ha firmato nel 1993, e che stabiliscono che Gaza e la Cisgiordania formano una unità territoriale inseparabile.

Basta un’occhiata alla carta geografica per comprendere questa logica. Separate da Gaza, tutte le enclave cisgiordane lasciate ai Palestinesi non hanno alcun accesso al mondo esteriore. Esse si trovano strette tra due potenze ostili, Israele e la Cisgiordania, entrambe alleate degli Stati Uniti che, al di là delle apparenze, sono tutt’altro che un intermediario neutrale e onesto.

Soprattutto Israele si è progressivamente impossessata della valle del Giordano e ne ha scacciato i Palestinesi, istallato delle colonie, costruito pozzi e fatto di tutto perché la regione, circa un terzo della Cisgiordania e comprendente la maggior parte delle sue terre arabili, venga alla fine integrata nello Stato israeliano, come le altre regioni che si è accaparrate.

I restanti cantoni palestinesi si troveranno completamente imprigionati. Una riunificazione con Gaza ostacolerebbe questi piani, che risalgono ai primi giorni dell’occupazione e sono stati appoggiati dai principali partiti politici israeliani.

 Evidentemente Israele sente che la sua presa di possesso dei territori palestinesi della Cisgiordania è andata così oltre, da avere poco da temere da una qualsivoglia forma di autonomia limitata accordata alle enclave che restano ai Palestinesi.

Le considerazioni del Primo Ministro Benjamin Netanyahu non sono peraltro completamente infondate, quando ha affermato: “Numerose entità della regione capiscono oggi, nei conflitti in corso, che Israele non è un nemico, ma un partner”. Doveva fare probabilmente allusione all’Arabia saudita e agli Emirati del Golfo.

Ma Akiva Eldar, un diplomatico israeliano, aggiunge che “tutte queste numerose entità della regione capiscono anche che non vi sarà alcuna iniziativa diplomatica coraggiosa, senza un accordo per la istituzione di uno Stato palestinese sulla base delle frontiere del 1967, oltre che una soluzione giusta e condivisa per il problema dei rifugiati”.

Questo però non è nel programma di Israele ed è perfino in conflitto col programma elettorale della coalizione del Likud del 1999, mai modificato, e che “respinge categoricamente l’ipotesi di uno stato arabo palestinese a ovest del Giordano”.

Qualche bene informato commentatore israeliano, in particolare l’editorialista Danny Rubistein, pensa che Israele sia sul punto di cambiare posizione e allentare la morsa su Gaza.

Vedremo.

Quello che abbiamo visto negli ultimi anni suggerisce il contrario, e i primi segni attuali non sono affatto incoraggianti. Proprio mentre stava concludendosi l’operazione “Bordo protettivo”, Israele ha annunciato la più grande appropriazione di terra mai realizzata in Cisgiordania nello spazio di 30 anni: poco più di 400 ettari.

Da entrambe le parti si suole affermare che, se la soluzione dei due Stati è diventata impossibile a causa dell’appropriazione di terre palestinesi da parte di Israele, il risultato potrà essere solo quello di un solo Stato, a ovest del Giordano.

Alcuni Palestinesi sono favorevoli a una simile soluzione, pensando che potranno allora impegnarsi in una lotta per i diritti civili, sul modello della lotta anti-apartheid dell’Africa del Sud. Numerosi commentatori israeliani avvertono che il problema demografico che deriva da un numero di nascite arabe superiore a quelle israeliane, oltre alla diminuzione della immigrazione ebraica, mina ogni speranza di uno Stato democratico ebraico.

Ma queste idee, per quanto diffuse, sembrano incerte.

L’alternativa realista alla soluzione dei due Stati è che Israele proseguirà il piano che persegue da anni; impossessarsi di tutto quello che per essa ha qualche valore in Cisgiordania, evitando le concentrazioni di popolazione palestinese e cacciando i Palestinesi dalle regioni che assorbe. Ciò dovrebbe evitargli il temuto problema demografico.

Una grande Gerusalemme, molto allargata, fa parte delle regioni che Israele si è accaparrate, così come la zona inglobata all’interno del muro illegale di separazione, i corridoi che tagliano queste regioni verso est e probabilmente anche la valle del Giordano.

Gaza continuerà probabilmente a subire il crudele assedio che già conosce, separata dalla Cisgiordania. E l’altopiano siriano del Golan sarà, come Gerusalemme, annesso in violazione della decisione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, per diventare tranquillamente una provincia della Grande Israele. Nel frattempo, i Palestinesi di Cisgiordania saranno mantenuti in cantoni insostenibili, in cui solo le élite possono star bene, secondo lo stile neo-coloniale classico.

Da un secolo, la colonizzazione sionista della Palestina è stata realizzata principalmente basandosi sul principio pragmatico del fatto compiuto, cosa che il modo ha sempre finito con l’accettare. E’ una strategia efficacissima. Ci sono tutte le ragioni di credere che proseguirà così a lungo e che gli Stati uniti la sosterranno sul piano militare, economico, diplomatico e ideologico.

Quelli che si preoccupano dei diritti palestinesi brutalizzati, devono capire che la priorità è lavorare perché muti la politica statunitense, cosa che non è affatto impossibile.