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Afrique Asie, maggio 2013 (trad. ossin)



Intervista agli autori del libro “Le Vilain Petit Qatar”
Il Qatar, campione della menzogna e della falsificazione
Majed Nehmé

Senza sponsor e in modo del tutto indipendente, controcorrente rispetto ai libri commissionati che sono stati recentemente pubblicati in Francia sul Qatar, Nicolas Beau e Jacques Marie Bourget hanno condotto un’inchiesta su questo minuscolo stato tribale, oscurantista e ricchissimo che, a colpi di milioni di dollari e di false promesse di democrazia, vuole giocare nel cortile dei grandi imponendo dappertutto nel mondo la sua lettura integralista del Corano. Un lavoro rigoroso e appassionante su questa dittatura morbida, di cui ci parla Jacques Marie Bourget


Scrittore ed ex reporter dei più importanti giornali francesi, Jacques Marie Bourget ha “coperto” molte guerre: il Vietnam, il Libano, il Salvador, la guerra del Golfo, la Serbia e il Kosovo, la Palestina… E’ stato a Ramallah che un proiettile israeliano lo ha ferito gravemente. Grande conoscitore del mondo arabo e dei livelli occulti, ha pubblicato nel settembre scorso, col fotografo Marc Simon, “Sabra e Chatila, au coeur du massacre” (Edition Erick Bonnier).


Nicolas Beau
è stato a lungo giornalista investigativo a Liberation, a Le Monde e a Le Canard Enchainé, prima di fondare e dirigere il sito di informazione satirica francese, Bakchirch.info. Si ricordano i suoi libri di inchiesta sul Marocco e la Tunisia e su Bernard-Henri Levy.


Cosa l’ha spinta a dedicare un libro al Qatar?

Il caso e poi la necessità. Ho visitato più volte questo paese e ne sono ritornato colpito dal vuoto che si avverte a Doha. Si ha l’impressione di soggiornare in un paese virtuale, una sorta di consolle video planetaria. Diventava interessante capire come uno stato così minuscolo e artificiale abbia potuto assumere, grazie ai dollari e alla religione, un simile posto nella storia che viviamo. Dall’altro lato, l’inchiesta nelle banlieue francesi condotta dal mio coautore Nicolas Beau ci ha immediatamente convinti che c’è in fondo una strategia, da parte del Qatar, di controllare l’islam in Francia come in tutto il Medio oriente e l’Africa. Di imporre la sua lettura del Corano che è il wahhabismo, dunque di natura salafita, una interpretazione integralista degli scritti del Profeta. Il subappalto dell’insegnamento religioso dei mussulmani francesi concesso a imam scelti dal Qatar ci è sembrato incompatibile con l’idea e i principi della Repubblica. Immaginate che il Vaticano, diventato improvvisamente produttore di gas, approfitti dei suoi miliardi per chiudere il mondo cattolico nelle idee integraliste di Monsignor Lefebvre, quelle dei gruppuscoli integralisti che manifestano violentemente in Francia contro il “matrimonio per tutti”. La nostra società diventerebbe invivibile, l’oscurantismo e l’integralismo sono i peggiori nemici della libertà.


Su questo piccolo paese, siamo prima partiti con l’idea di pubblicare un dossier in un magazine.  Ma ben presto abbiamo cambiato formato per passare a quello del libro. Il paradosso del Qatar, che predica la democrazia senza applicarne nemmeno un’oncia da parte sua, ci era evidente. Il nostro libro sarà certamente considerato come un pamphlet animato da cattiva fede, un Qatar bashing… E’ falso. In questa impresa noi non abbiamo né committenti, né amici, e tanto meno sponsor cui dare conto. Per fare bene il lavoro, ci è bastato saper leggere e osservare. Per vedere il Qatar come è: un micro-impero governato da un potentato, una dittatura con il sorriso sulle labbra.


Da qualche anno, questo piccolo emirato produttore di gas e petrolio, geopoliticamente insignificante, è diventato – almeno dal punto di vista mediatico – un protagonista politico che intende giocare nel cortile dei grandi e influire sul corso della Storia nel mondo mussulmano. E’ mania di grandezza? O il Qatar persegue un progetto più grande di lui?

C’è mania di grandezza. Essa è incoraggiata da consiglieri e adulatori che sono riusciti a convincere l’emiro di essere allo stesso tempo uno zar e un comandante dei credenti. Ma è marginale. L’altra verità è che è necessario, per paura del suo potente vicino e nemico saudita, che la rana si gonfi. Non disponendo di centinaia di migliaia di chilometri quadrati nel Golfo, il Qatar occupa allora una superficie politico-mediatica, un impero di carta. Doha ritiene che questa espansione sia un mezzo di protezione e sopravvivenza.


Infine vi è la religione. Un profondo sogno messianico spinge Doha verso la conquista delle anime e dei territori. Qui si può riprendere il paragone col minuscolo Vaticano, quello del XIX° secolo che inviava i suoi missionari in tutti i continenti. L’emiro è convinto di poter alimentare e far fruttificare una rinascita della oumma, la comunità dei credenti. Questa strategia ha il suo rovescio, quello di un possibile schianto, giacché l’ambizione ha portato i sogni del Qatar troppo lontano dalla realtà. Non dimentichiamo anche che Doha occupa un terreno vuoto, quello liberato un tempo dall’Arabia Saudita coinvolta negli attentati dell’11 settembre e costretta a muoversi con maggiore discrezione in materia di jihad e di wahhabismo. Lo scandaloso favoritismo di cui ha beneficiato il Qatar quando gli si è permesso di aderire alla Francofonia è strumentale rispetto a questo obiettivo di “wahhabizazione”: in Africa sponsorizzare le istituzioni che insegnano la lingua francese consente di trasformarle in scuole islamiche, sostituendo Voltaire e Hugo col Corano.


Questa megalomania si può ritorcere contro l’emiro attuale? Soprattutto se si consideri la breve storia di questo emirato, creato nel 1970 dagli Inglesi, segnata da colpi di stato e rivoluzioni di palazzo

La megalomania e l’ambizione dell’emiro Al-Thani sono, è vero, discretamente criticate da “vecchi amici” del Qatar Alcuni, sostenendo che il sovrano è un re malato, premono per la successione al trono del figlio designato come erede, il principe Tamim. Una volta al potere, il nuovo padrone ridimensionerebbe le ambizioni, soprattutto nel sostegno accordato da Doha agli jihadisti, come è stato in Libia, in Mali e in Siria.
Questa idea è condivisa anche da alcuni diplomatici statunitensi, inquieti di questa nuova radicalità islamista nel mondo. Allora, bisogna ricordare che il Qatar è prima di tutto uno strumento della politica di Washington, con la quale è legato da un patto d’acciaio.


Ciò detto, la successione di Tamim non è semplice giacché l’emiro, che ha cacciato suo padre dal trono con
un colpo di stato nel 1995, non ha ancora annunciato il suo ritiro. Peraltro il primo ministro Jassim, cugino dell’emiro, il potentissimo e ricchissimo “HBJ”, non ha intenzione di rinunciare nemmeno a un pizzico del suo potere. Di più: in caso di necessità, gli Stati Uniti sono pronti a sacrificare l’emiro e suo figlio per sostituirli con un “HBJ” votato corpo e anima alla causa di Washington e Israele. Nonostante l’esibita opulenza, l’emirato non è stabile come sembra. Sul piano economico, il Qatar è indebitato con tassi “europei” e lo sfruttamento del gas di scisto è fatta in condizioni di rude concorrenza, a cominciare dagli Stati Uniti.


La presenza della più grande base USA fuori dal territorio degli Stati Uniti sul suolo del Qatar può essere considerata come un’assicurazione per la sopravvivenza del regime o al contrario come una spada di Damocle fatale a più o meno lunga scadenza?

La presenza dell’immensa base Al-Udai è, nell’immediato, una assicurazione sulla vita per Doha. Essa è per gli Stati Uniti un presidio ideale per sorvegliare, proteggere o attaccare a sua discrezione nella regione. Proteggere l’Arabia Saudita e Israele, attaccare l’Iran. La Mecca ha conosciuto delle rivolte, l’ultima delle quali repressa dal capitano Barril e dalla logistica francese. Ma Doha potrebbe conoscere a sua volta una rivolta dei “folli di dio”, scontenti della presenza del “grande Satana” in terra wahhabita.


Questo regime, apparentemente moderno, è in realtà fondamentalmente tribale e oscurantista. Perché così poche informazioni sulla sua vera natura?

A rischio di ripetere sempre le stesse cose, bisogna che il pubblico sappia infine che il Qatar è il campione del mondo del doppio standard: quello della menzogna e della falsificazione come filosofia politica. Per esempio, degli aerei partano da Doha per bombardare i Talebani in Afghanistan, mentre questi stessi guerriglieri religiosi hanno un ufficio di coordinamento a Doha, a qualche chilometro dalla base da cui decollano i caccia per ucciderli. E così è in tutti i campi, e anche nella politica interna di questo piccolo paese.


Guardiamo che cosa succede in questo angolo di deserto. Non è garantita alcuna libertà, vi si praticano le punizioni corporali, la detenzione senza motivo per ordine del re è pratica corrente. Il voto esiste solo per eleggere una parte dei consiglieri municipali, pressappoco i partiti politici e le associazioni sono vietate, così come la stampa indipendente… Una Costituzione che è stata scritta dall’emiro e dal suo clan nemmeno viene applicata in tutti i suoi articoli. Il milione e mezzo di lavoratori stranieri impiegati in Qatar si ammazzano di fatica in condizioni che le associazioni di tutela dei diritti umani definiscono di “schiavitù”. Questi sventurati, privati del passaporto e pagati una miseria, sopravvivono in orrendi campi, senza avere il diritto di lasciare il paese. Molti di loro, costretti a turni massacranti per la costruzione di torri di cemento, muoiono per attacchi cardiaci o per cadute (diverse centinaia di vittime all’anno).


La “giustizia” a Doha viene amministrata direttamente nel palazzo dell’emiro, attraverso dei giudici che il più delle volte sono mercenari venuti dal Sudan. Sono loro che hanno condannato il poeta Al-Ajami all’ergastolo per avere pubblicato in internet una battuta si Al-Thani (l’emiro, ndt). Anche qui osserviamo una indignazione a due velocità: perché questo scrittore non è stato trattato come Solgenitsin, a nessuno è venuto in mente di sfilare per Parigi per difendere questo martire della libertà. Un aneddoto: quest’anno, solo perché il suo insegnamento non era “islamico”, un liceo francese di Doha è stato puramente e semplicemente cancellato dalla lista delle istituzioni gestite da Parigi.


Fermiamoci qui perché la situazione dei diritti in Qatar costituisce un attentato permanente alle libertà

Nonostante ciò, e ritorniamo al famoso paradosso, Doha non esita, fuori dal suo territorio, a predicare la democrazia. Di più, ogni anno nella capitale si tiene un forum su questo tema. Il titolo è “New or restaured democracy”, quando in Qatar non esiste democrazia né “new” né “restaured”… Secondo la classifica di The Economist, giustamente in materia di democrazia il Qatar si trova al 136° posto su 157 Stati, classificato dopo la Bielorussia. Stranamente, mentre tutte le anime belle evitano il baffuto dittatore Lukashenko, nessuno prova vergogna o rabbia nello stringere la mano di Al-Thani. E il fatto che il Qatar sia un inferno non scoraggia i grandi difensori dei diritti dell’uomo, soprattutto francesi, dall’andare ad abbronzarsi, invitati da Doha, da Segolene Royal a Najat Vallaud-Belkacem, da Dominique de Villepin a Bertrand Delanoe.


Come è possibile che un paese la cui essenza è antidemocratica si presenti come il promotore delle primavere arabe e della libertà di espressione?

A proposito delle “primavere arabe” nelle quali il Qatar gioca un ruolo essenziale, occorre distinguere due fasi. In un primo tempo, Doha urla insieme ai popoli che sono giustamente in rivolta. Si parla allora di “democrazia e libertà”. Deposti i dittatori, la staffetta viene presa dai Fratelli Mussulmani, che sono i veri alleati di Doha. E ci si dimentica degli slogan di ieri. “Libertà e democrazia” erano solo prodotti di richiamo, era “comunicazione”.


Se il coinvolgimento del Qatar nelle “primavere” è comparsa come una sorpresa, è perché la strategia di Doha era stata discreta. Da anni l’emirato intrattiene relazioni strettissime con dei militanti islamisti perseguitati dai potentati arabi, ma anche con gruppi di giovani blogger e internauti ai quali ha offerto degli stage di “rivolta attraverso il Net”. La politica dell’emiro era un fucile a due colpi. Prima ha mandato al “fronte” i giovani con il loro Facebook e i loro blogger, a mani nude contro i fucili di poliziotti e militari. Sconfitti questi ultimi, spianato il terreno, è venuto il momento di affidarsi a questi islamisti tenuti al caldo in riserva, eroi sacralizzati, magnificati da Al Jazeera.


Come spiega il coinvolgimento diretto del Qatar prima di tutto in Tunisia e in Libia, e attualmente in Egitto, nel Sahel e in Siria?

In Libia, lo diciamo nel nostro libro, l’obiettivo era nello stesso tempo di restaurare il regno islamista di Idriss, tentando anche di impossessarsi di 165 miliardi, l’ammontare del patrimonio nascosto di Gheddafi. Nel caso della Tunisia e dell’Egitto, si tratta della attuazione di una strategia fredda del tipo “ridisegniamo il Medio oriente”, degna dei neocons USA. Ma ripetiamo che non è stato solo il Qatar a far cadere Ben Ali e Mubarak; la loro caduta è stata prima di tutto il risultato della loro corruzione e della loro politica tirannica e cieca.


In Sahel i missionari del Qatar sono all’opera da cinque anni. Reti di moschee, abile applicazione della zaqat, la carità islamica, il Qatar si è ricavato, dal Niger al Senegal, un territorio di persone a lui grate, appese alle mammelle dorate di Doha. Oltre a ciò, in Niger come in altri paesi poveri del pianeta, il Qatar ha acquistato centinaia di migliaia di ettari di terre, trasformando così degli sventurati affamati in “contadini senza terra”.

Alla fine del 2012, quando gli jihadisti hanno assunto il controllo del Nord Mali, si è notato che alcuni elementi della Croce Rossa del Qatar sono venuti a Gao per dare una mano caritatevole ai terribili assassini del Mujao…


La Siria altro non è se non una estensione del campo di lotta, con qualcosa di più: mostrarsi all’altezza della concorrenza del nemico saudita nell’aiuto alla jihad. Qui risulta difficile  comprendere gli obiettivi politici dei due migliori amici del Qatar, gli Stati Uniti e Israele, perché Doha sembra giocare col fuoco dell’islamismo radicale…


Al Fatah accusa il Qatar di seminare la zizzania e la divisione tra i Palestinesi, sostenendo pienamente Hamas, che appartiene alla nebulosa dei Fratelli mussulmani. Secondo molti osservatori, questa strategia avvantaggia solo Israele. Lei condivide questa analisi?

Quando si parla della politica del Qatar ni confronti dei Palestinesi, bisogna ricordare alcune immagini. Tzipi Livni, che con Ehud Barak fu la colonna portante, nel 2009, dell’operazione Piombo Fuso a Gaza – 1500 morti – è una assidua frequentatrice delle mall di Doha. Approfitta del viaggio per andare a salutare l’emiro. Un sovrano che, nel corso di una visita discreta, si è recato a Gerusalemme per fare visita alla signora Livni… Ricordiamoci del patto firmato, da un lato da HBJ e il sovrano Al-Thani, e dall’altro dagli Stati Uniti: la priorità è di sostenere la politica di Israele. Quando il “re” di Doha sbarca a Gaza promettendo milioni, è un mezzo  per chiudere Hamas nel clan dei Fratelli Mussulmani e per meglio rompere l’unità palestinese. E’ una politica penosa. Oramai Mechaal, rieletto patron di Hamas, vive a Doha nel palmo della mano dell’emiro. Il sogno di quest’ultimo – avendo Hamas abbandonato ogni idea di lotta – è di piazzare Mechaal alla testa di una Palestina che si situerebbe in Giordania, dopo avere cacciato il re Abdallah. Israele potrà così estendersi in Cisgiordania. Interessante politica-fiction.


Il Qatar si è “comprata” l’organizzazione della Coppa del Mondo di football del 2022 ?

Un grande e vecchissimo amico del Qatar mi ha detto: “Il dramma con loro è che fanno sempre in modo che si dica: ‘hanno pagato anche stavolta’ “. Certamente vi sono dei sospetti. Sottolineiamo che le federazioni sportive sono così sensibili alla corruzione che, con i soldi, è possibile comprarsi una competizione. Lo abbiamo visto coi Giochi olimpici stranamente assegnati a degli outsider…


Nel conflitto di frontiera tra il Qatar e il Bahrein, lei ha rivelato che uno dei giudici della Corte internazionale di giustizia di La Haye sarebbe stato comprato dal Qatar. Il verdetto potrebbe essere rivisto alla luce di queste rivelazioni?

Un libro - questo sì serio – recentemente pubblicato sul Qatar fa riferimento ad una possibile manipolazione nel giudizio arbitrale che ha risolto il conflitto di frontiera tra il Qatar e il Bahrein. La posta in gioco era enorme perché, sotto il mare e nelle isole, si trovano giacimenti di gas. Un esperto mi ha detto che questa rivelazione potrebbe essere utilizzata per riaprire il dossier dinanzi la Corte di La Haye.


I rapporti pericolosi e torbidi tra la Francia di Sarkozy e il Qatar proseguono oggi con la Francia di Hollande. Come spiega questa continuità?

Parlare del Qatar è parlare di Sarkozy, e viceversa. Dal 2007 al 2012, i diplomatici e le spie francesi ne sono testimoni, è stato l’emiro che ha deciso la “politica araba” della Francia. E’ divertente sapere oggi che Bachar al-Assad è stato colui che ha introdotto la “sarkozie” presso quello che era allora il suo migliore amico, l’emiro del Qatar. Non ci sono buone commedie senza un traditore. Gheddafi era, anche lui, un grande amico di Al-Thani ed è stato l’emiro che ha facilitato la realizzazione del divertente soggiorno del colonnello e della sua tenda a Parigi. Tralasciando le altre vicende meno rilevanti, come l’epopea della liberazione delle infermiere bulgare. La relazione tra il Qatar e Sarkozy ha sempre avuto delle ragioni finanziarie. Oggi Doha promette di investire 500 milioni di dollari nel fondo di investimento che l’ex presidente francese sta per lanciare a Londra. Scambi di buone azioni, Sarkozy ricambia con un’azione di propaganda o di mediazione nelle avventure, soprattutto sportive, del Qatar.


François Hollande, rispetto al Qatar, ha un comportamento oscillante. Un giorno il Qatar è un “partner indispensabile” che ha salvato nel suo feudo di Tulle la fabbrica di prodotti di pelle “Le Tanneur”, il giorno dopo, bisogna guardarsi dai suoi amici della jihad. Non esiste nessuna vera politica e i diplomatici del Quai d’Orsay nominati sotto Sarkozy continuano a giocare il gioco di una Doha che deve restare l’amico numero 1. In periodo di crisi, i miliardi scintillanti di Al-Thani facilitano così una forma di amicizia in nome di uno slogan falso e ridicolo secondo cui “il Qatar può salvare l’economia francese”… La realtà è più modesta: tutti gli investimenti industriali di Doha in Francia sono dei fallimenti… Restano quelli fatti nel mattone, vecchio salvadanaio di tutte le ricchezze. Anche qui però si può notare una grande differenza: François Hollande ha inviato il ministro della Difesa a fare la questua a Doha per recuperare i costi dell’operazione militare francese in Mali, condotta contro degli jihadisti molto ben visti dall’emiro.