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Corriere del Mezzogiorno, 5 luglio 2016
 
La Rinascita mangereccia di Napoli
Nicola Quatrano
 
La notizia è che il Comune ha affidato il sagrato della chiesa dei Girolamini ad una nota pizzeria, che lo tiene pulito sì, ma non tanto come generoso contributo al decoro cittadino, quanto piuttosto perché è oramai diventato parte integrante del suo spazio commerciale. E che il gazebo collocato nella piazza, a protezione degli avventori della suddetta pizzeria, è tanto ampio da oscurare la facciata della basilica e stravolgerne la continuità architettonica.
 
Il sagrato "privatizzato"
 
Ebbene, che i napoletani debbano sentirsi più coinvolti nella cura e nel mantenimento delle bellezze cittadine è cosa buona e giusta. Meno accettabile che questo coinvolgimento comporti simili danni paesaggistici e si realizzi attraverso la «privatizzazione» di spazi, che vengono sottratti al godimento comune e riservati, per così dire, al solo pubblico pagante.
 
D’altronde, in tutta Napoli si assiste a un fiorire di gazebo, spazi attrezzati e occupazioni (autorizzate) di suolo pubblico, da parte di bar, pizzerie, ristoranti, paninoteche, pub, sfizioserie, tramezzinerie, friggitorie, vinerie, e chi ne ha più ne metta, come se la principale occupazione dei napoletani fosse quella di mangiare. E perfino le librerie riescono improvvisamente a riempirsi di pubblico, a patto naturalmente di trasformarsi in caffè.
 
L’amore per il cibo è una costante di questa città, se già intorno al 1835 Giacomo Leopardi (a destra, nel ritratto) le dedicava il poemetto satirico I nuovi credenti, lanciando strali contro la Napoli che censurava le Operette Morali e però s’armava «a gara de’ maccheroni suoi», non riuscendo a comprendere come non bastassero a rendere felici «borghi, terre, province e nazioni».
 
E incalzava beffardo: «Che dirò delle triglie e delle alici? Qual puoi bramar felicità più vera che far d’ostriche scempio infra gli amici. Sallo Santa Lucia, quando la sera poste le mense, al lume delle stelle, vede accorrer le genti a schiera a schiera, e di frutta di mar empier la pelle»
 
Correva infatti in quei tempi e – ci informa Benedetto Croce – «era letto con gran gusto e grandi risate» (al posto delle Operette Morali) un volumetto di una tale «T di G», dal titolo: Capitoli berneschi in lode de’ maccheroni e de’ pomidoro, che esordiva con la terzina: «Oh ristoro e conforto de’ viventi! Io non saprei giammai né come o dove poter tanto lodare i tuoi portenti…». E parrebbe essere stato proprio questo librettino oggetto del disprezzo del grande poeta.
 
Disprezzo non condiviso da Benedetto Croce, che lo attribuisce ad un pessimismo e ad una insistita incapacità di godere delle gioie minute della vita, che impediva al poeta perfino di cogliere i segni della rinascita in atto nella città, del suo «progresso incoercibile» e del pieno affermarsi dell’idealità liberale.
 
Le "mense" di Santa Lucia in una stampa d'epoca
 
Certo il «filosofo della libertà», al contrario del poeta, la vita l’amava e, per così dire, sapeva anche vivere, come dimostra il fatto che sia riuscito ad essere antifascista a casa sua (al contrario di Gramsci) e che, perfino quando venne sfollato, lo fu a Capri, non certo a Capracotta.
 
Si capisce che, in cuor suo, guardasse con maggiore simpatia alla lode dei maccheroni piuttosto che alle invettive contro quei napoletani il cui cuore non sognò mai «né gentil cosa, né rara, né il bel…, né l’infinito». 
 
Per parte mia, senza pretendere minimamente di ergermi a simili vette di sapienza e di spirito, tendo a condividere il pessimismo del poeta, piuttosto che l’indulgenza del filosofo. Sarà per delusione verso le «magnifiche sorti e progressive» del liberalismo, o anche per una certa diffidenza verso una rinascita napoletana dai caratteri un po’ mangerecci, che consente l’oltraggio alla basilica dei Girolamini, fatto in nome dei «maccheroni» (o della pizza). E chissà che non possano adattarsi al popolo della movida le parole con cui si chiude il poemetto leopardiano: «Degli uomini e del ciel delizia e cura sarete sempre, infin che stabilita ignoranza e sciocchezza in cor vi dura. E durerà, mi penso, almeno in vita»