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Corriere del Mezzogiorno, 22 settembre 2016
 
La guerra dei bambini (e quella contro i bambini)
 
Chissà se Emanuele Sibillo, entrando in casa Giuliano, a Forcella, per reclamare l’immediata sostituzione di Salvatore Cedola detto «Poppetta», si rendeva conto della distanza siderale che separava i suoi compagni di avventura criminale dai boss classici della tradizione camorrista. Emanuele Sibillo era un dirigente della «paranza dei bambini» (finirà ucciso a 19 anni in un agguato), mentre «Poppetta» era il responsabile del clan. Alquanto poco «responsabile», in verità, visto che aveva spaventato le signore del vicolo (incrinando l’autorevolezza del gruppo), mentre ubriaco fradicio dava i numeri e urinava per strada.
 
 
 
 
Un incidente che sarebbe stato impensabile per l’inafferrabile Carmine Alfieri, poi catturato in un rifugio dove non mancavano i buoni libri e la musica di Beethoven, o per il «professore» Raffaele Cutolo, magari meno colto a onta del soprannome, ma capace di mantenere un inalterabile profilo di capo in anni e anni di detenzione. O per i tanti la cui storia criminale è cominciata col dovere «morale» di riscattare un torto subito o vendicare uno sgarro, più che per desiderio di guadagno facile o dipendenza dalla droga.
 
La camorra-massa, ai tempi della cocaina low cost, ha poco a che vedere coi padrini di un tempo, tanto da rendere legittimo chiedersi se sia ancora «camorra», e molto con le gang giovanili alimentate dal commercio della droga in ogni periferia del globo. Il tatuaggio di Emanuele Sibillo, una carta da gioco accompagnata al numero «17», è una fin troppo evidente imitazione del «13» che simboleggia l’appartenenza alla gang transnazionale Mara Salvatrucha, o del «18» della concorrente Barrio 18. Ed evidenzia una ricerca identitaria che non si accontenta dei simboli tradizionali e che è forse una variante narcisistica e 2.0 del desueto giuramento di affiliazione. Con tutti i rischi connessi: è stato proprio il tatuaggio, per esempio, a tradire Pasquale Sibillo e consentirne l’individuazione, mille anni da quando Carmine Alfieri affidava la protezione della propria latitanza al fatto di non essersi mai fatto fotografare.
 
Ma i rampolli della nuova generazione adorano Facebook, e lo riempiono di loro immagini. Magari non si filmano mentre uccidono, come i loro coetanei che si arruolano per il jihad, ma per molti versi assomigliano a loro, e non solo per le barbe «alla talebana». Le parole con cui Pasquale Sibillo ricorda (in un video su Youtube) il fratello ucciso sono intrise di desiderio di morte: «Spero che il cammino in questo mondo sia breve, solo così potrò ritrovare la serenità condividendo il resto dell’eternità al tuo fianco». Ed è l’eternità del martire, quella infine conquistata da Emanuele Sibillo, l’ultima aspirazione di una camorra liquida che si affida ai bambini.
 
Emanuele Sibillo
 
Certo, come ha ricordato l’ex padrino Giuseppe Misso su queste colonne, le vecchie famiglie restano, ma l’età dei nuovi guappi è da scuola media, tutti gli altri essendo in galera o pentiti. E uno dei peggiori risultati della guerra alla droga («War on Drugs»), lanciata nel 1982 da Ronald Reagan, è stato proprio quello di accrescere a dismisura il valore aggiunto delle sostanze proibite e di selezionare, col miraggio di guadagni enormi e rischiosi, una criminalità violenta che pesca principalmente nell’emarginazione giovanile. Trasformando in larga misura la «questione criminale», in «questione giovanile». In una guerra che si rispetti il nemico va annientato, non certo rieducato, ed è questa la filosofia che oramai sembra ispirare leggi e prassi. Senza volere per nulla giustificare o sottovalutare la pericolosità del fenomeno, resta però che un simile approccio, tanto più quando la parte del nemico è impersonato da giovanissimi, si traduce in un inaccettabile spreco di umanità ed una innaturale rinuncia al futuro.
 
Anche studiando le pagine della ponderosa inchiesta sulla «paranza dei bambini», si ha talvolta la sensazione di qualcosa del genere. Un esempio è il progettato omicidio di Mattia Campanile, un bambino di 14 anni («muccuso sì, però tiene la pistola»), che il clan decide di eliminare servendosi di un gruppo di giovanissimi, cui procura armi e appoggio logistico. Alla fine è rimasta ferita una sola persona, ma si era progettata una strage, i cui preparativi — distribuzione di armi, approntamento dei mezzi, sopralluogo — sono stati puntualmente registrati dagli apparati di intercettazione per circa un’ora e trenta minuti prima dell’agguato. Si è sentito così Guglielmo Giuliano raccomandare: «Tu uccidi a piedi o frà… scendi a piedi, quella è la meglio cosa quando scendi a piedi… quello è un attimo… davanti e indietro, bello e buono ti trovi le botte dietro la schiena… in testa… non devi pigliare solo a lui, piglia pure quegli altri là, tutti quanti, piglia tutta la paranza ». E ancora: «Se lo pigliate voi, vi regalo io una cosa, vi faccio un regalo fuori mano, non lo facciamo noi perché tiene 14 anni ».
 
Nella informativa si dice che alcuni dei conversanti sono stati prontamente identificati, risulta inoltre che Campanile Mattia era già conosciuto, e noto era anche il luogo del progettato agguato. Ora, io non so se in quei frenetici minuti l’apparecchio registrasse in automatico, o vi fosse qualcuno in ascolto. So solo che non è stato tentato nulla per evitare una strage annunciata e spero che la ragione di questa inerzia non stia nella necessità di tenere coperta l’indagine in corso o, peggio, nell’indifferenza verso la vita di un «nemico» di 14 anni.
 
Il video in ricordo di Emanuele Sibillo